Il museo immaginario


IL DISORDINEDELL'IO

di Alfredo Accatino - Il Museo Immaginario
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Un viaggio alternativo nell’arte del Novecento, alla riscoperta di grandi artisti, di opere e storie spesso dimenticate: Arturo Nathan

Arturo Nathan nasce a Trieste, in una casa di piazza Oberdan, nel 1891. Deportato a Bergen-Belsen per le sue origini ebraiche, morirà di fame nel campo di concentramento di Oflag V-B Biberach nel 1944. 

Perché qualcuno debba soffrire e morire perché appartiene a qualcosa, o crede in qualcosa, non per quello che fa, ma per quello che è o che pensa, non riuscirò mai a comprenderlo. Ma questo è un altro discorso. Fragile emotivamente, simbolista, rarefatto per stile espressivo, cosmopolita per formazione e visione, Arturo Nathan è stato accostato a De Chirico e alla Metafisica - aree d’influenze che lo avevano fortemente colpito nel suo soggiorno romano - e al realismo magico di matrice europea. 

Nella sua vita ha prodotto poche opere, ne sono state catalogate solo un’ottantina, e molte sono andate distrutte in un bombardamento a Trieste, verso la fine della guerra, durante il quale sono state coinvolte la sua casa e il suo studio. 

Nathan è un artista ondivago, cerebrale, ostico, che predilige scene poco commerciali di rovine e naufragi. Non tutte le opere sono perfette, sembrano riflettere una ricerca che non sempre lo soddisfa, ma riesce a realizzare due capolavori per livello espressivo e formale come i suoi due autoritratti, di tristezza e intensità siderale: Autoritratto con gli occhi chiusi (1925) e L’asceta (1927), di gusto simbolista. Immagini che, alla luce della sua storia personale, inducono a letture ancora più dense. 

Espressione di una sensibilità dolorosa, di una pittura colta, che richiama le letture filosofiche di tutta la sua vita e la frequentazione, in anni precocissimi, della psicoanalisi (iniziò un percorso nel 1919) in un tessuto sociale, a Trieste, che lo fanno sembrare più europeo che italiano. 

È figlio di un solido commerciante italiano vissuto da giovane in India e in Cina dal quale eredita la cittadinanza inglese. È alto quasi un metro e novanta, magro, allampanato, vestito in maniera lontana dai canoni del tempo, tanto che in città è considerato un tipo bizzarro. 

Allo scoppio della prima guerra mondiale si rifiuta di combattere, e sfruttando la sua doppia cittadinanza, presta servizio come obiettore di coscienza a Portsmouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra.


Il ghiaccio del mare (1928).

Quando torna a casa appare però depresso e privo di forze. Passa le giornate a letto, e alla sorella Daisy non fa che dire: «La vita xe una fogna ». 

A Trieste, Edoardo Weiss (amico e seguace di Freud), il medico che introduce la psicoanalisi in Italia, lo prende in cura e lo incoraggia a dedicarsi alla pittura per combattere il suo disagio; un po’ come al suo concittadino Zeno/Svevo il dottor S. consiglia di scrivere un diario come strumento della terapia. E non finiscono qui le similitudini. Arturo come Zeno Cosini, il protagonista del romanzo di Svevo, «proviene da una famiglia ricca, vive nell’ozio e in un rapporto conflittuale con il padre. Nell’amore, nei rapporti con familiari e amici prova un costante senso di inadeguatezza, di “inettitudine”, che interpreta come sintomi di una malattia. In realtà, solo più tardi, scoprirà che non è lui a essere malato, ma la società in cui vive». Weiss studiò scrupolosamente le persone affette dal “disordine dell’Io” spesso reduci dalla Grande guerra e che, per potere incontrare i loro cari, dovevano prima essere sottoposte a esami clinici presso l’ospedale psichiatrico della città perché sofferenti per “psicosi belliche” e nevrosi isteriche. 

Il “caso Nathan” venne sottoposto da Weiss allo stesso Freud in una lettera: «In quel tempo stavo analizzando un giovane pittore sofferente per una depressione non-melanconica che si esprimeva anche nei soggetti dei suoi quadri: rovine e cadaveri animali». Il pittore risultava insomma un ragazzo introverso, tranquillo, studioso rivolto più al “mondo interno” e incapace di affrontare la praticità della vita. La sua personalità si scontra con quella del padre, commerciante dedito ai suoi affari, ma anche con quella della madre, donna comprensiva e accogliente con la quale ebbe un legame profondo destinato a cambiare continuamente. 

Freud non ebbe dubbi e rispose così: «Dalla eccellente descrizione teorica del Suo paziente posso solo dedurre che può trattarsi di una “depressione semplice” […] direi che si tratti di una semplice fissazione materna». 

Ma torniamo in presa diretta. 

Arturo si laurea in filosofia e da autodidatta, anche se frequenta i liberi corsi della Scuola di nudo afferente al Circolo artistico di Trieste, inizia a dipingere. Si lega ad ambienti culturali della rivista “Trieste” e poi di “La Voce” di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Conosce e frequenta Umberto Saba, Leonor Fini, Carlo Sbisà (un pittore tutto da riscoprire) e lo stesso Italo Svevo. 

Nel 1921 apre un proprio studio, e in pochi anni riesce a farsi apprezzare tanto da esporre già nel 1926 alla 15a Biennale di Venezia. Vi esporrà ancora nel 1928, nel 1930 e nel 1932. L’opera L’incendiario acquistata per la collezione del Museo d’arte moderna di Mosca si trova oggi all’Ermitage di San Pietroburgo. 

Espone poi alla Galleria di Vittorio Barbaroux a Milano, dove viene notato da Giorgio de Chirico. Partecipa anche a due edizioni della Quadriennale di Roma. 

Verso la fine degli anni Trenta, con l’emanazione delle leggi razziali, Nathan come tanti ebrei italiani subisce soprattutto uno choc culturale e avverte un forte senso di tradimento. Si chiude in se stesso, smette di dipingere a olio e si dedica solo a disegni e a brevi composizioni poetiche. Le leggi razziali diventano sempre più dure, e in quanto ebreo e inglese viene inviato al confino, nelle Marche, periodo nel quale esegue pastelli, preziosi e luminosissimi. Con l’avanzare della guerra viene però incarcerato e inviato a Carpi. 

Forse c’è ancora modo di salvarlo. Racconta la sorella Daisy: «Avevamo un amico nella polizia fascista che per salvarlo si era offerto di falsificare i documenti, ma Arti (Arturo) si rifiutò, non lo trovava dignitoso. Nel 1944 venne deportato in Germania, prima nel campo di sterminio di Belsen, poi a Biberach, dove è morto di fame il 25 novembre 1944 (ma anche per gli esiti di una gangrena a una gamba, che si ferisce mentre è sottoposto ai lavori forzati). Quando sono arrivati gli Alleati, al primo cucchiaio di minestra, è spirato. 

Mia madre, invece, era nascosta all’ospedale di Trieste, ma qualcuno deve aver fatto la spia, così l’hanno presa e portata ad Auschwitz, dove è morta. Io sono l’unica a essersi salvata». 

È incredibile quanto poco si sappia sulla morte delle persone, se non un luogo e una data.


Nave nella tempesta con statua naufragata (1930), Trieste, Museo Revoltella, Galleria d’arte moderna.

ART E DOSSIER N. 356
ART E DOSSIER N. 356
LUGLIO-AGOSTO 2018
In questo numero: ESTATE AL MUSEO La Rubenshuis di Anversa, il Museo diocesano di Feltre. I RESTAURI E LE SCOPERTE Pisa: gli affreschi restaurati; Pontormo: un nome per un ritratto. IN MOSTRA Christo a Londra, W.E. Smith a Bologna, Matisse ad Aosta, Kupka a Parigi, La collezione Agrati a Milano, Traiano a Roma.Direttore: Philippe Daverio