Dentro l'opera


LA SCULTURA COME GESTOE “VANITAS”

di Cristina Baldacci

Un primo piano su opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: Urs Fischer, Untitled

Nonostante la sua apparente giocosità e irriverenza, il lavoro dello svizzero Urs Fischer (Zurigo, 1973) si fonda su un attento studio dei linguaggi e materiali dell’arte e su un’arguta rilettura della sua storia e del suo valore culturale. Untitled (2011), un gruppo scultoreo in cera dove l’artista si raffigura seduto su una seggiola davanti a una scarna natura morta (un tavolo con bottiglia - non più presente in questa foto - e candela), ne è un efficace esempio. Fischer non solo rielabora qui due generi tradizionali come l’autoritratto e la “vanitas”, ma anche elementi della scultura novecentesca, dal frammento dada e l’“objet trouvé” surrealista all’oggetto fluxus e pop. 

L’ironia risiede prima di tutto nell’avere concepito la scultura come una grande candela che, una volta messa in mostra, viene accesa attraverso una serie di stoppini disseminati in punti diversi. Per sua natura già instabile, viscosa e metamorfica, la cera comincia così gradualmente a sciogliersi, preannunciando la fine dell’opera stessa. Per Fischer non c’è sostanza che sfugga al tempo e in queste sue “candele” in cera (Untitled fa parte di quella che può essere considerata una serie, ma con diverse varianti tematiche) il processo di decadenza e distruzione della materia - così come dell’immagine di cui la materia è portatrice (in questo caso, trattandosi di un autoritratto, la sua) - viene volontariamente accelerato per poter essere presentato ed esperito nel breve tempo di una mostra. La scultura si fa dunque performativa, in quanto paragonabile a un gesto impermanente. 

Dopo poche settimane dalla sua accensione, di Untitled rimangono soltanto le rovine: un ammasso informe di colature e grumi di cera, dove qua e là occhieggiano ancora forse la mano, il braccio, la testa dell’artista, oppure un pezzo di schienale della seggiola e una gamba del tavolo. Le fiamme finiscono per rimodellare a modo loro il gruppo scultoreo producendo a volte ammassi, altre volte cavità nella cera. Una volta dissoltasi, l’opera può essere sostituita da una copia e riaccesa, ma la sua “vita” coincide comunque, inesorabilmente, con la durata della mostra. 

In modo diverso da altri artisti che hanno lavorato con la cera e cercato di fissare il momento del disfacimento della materia (tra gli altri, Medardo Rosso, Kiki Smith, Berlynde de Bruyckere), oppure mostrato la parcellizzazione del corpo in una sorta di reinterpretazione postumana del frammento statuario classico (si pensi a Joseph Beuys, Bruce Nauman, Robert Gober, Maurizio Cattelan), Fischer va oltre la rappresentazione di un “memento mori”. 

Con le sue candele mostra concretamente lo scorrere del tempo (quello della vita, dell’opera, della mostra); ricorda quanto il processo di costruzione e decostruzione, di nascita e decadenza, riguardi tanto la natura (il corpo) quanto l’arte (la statua); affronta il tema della vita delle immagini, della loro ciclica apparizione e scomparsa, che viene sottolineato dalla riproducibilità seriale dei soggetti scultorei scelti.

Si avvicina inoltre alla cosiddetta critica istituzionale indebolendo sia il suo ruolo come artista-autore, sia quello del museo-mostra come luogo di esposizione e salvaguardia dell’arte. Lasciare che l’opera sfugga al controllo, che la materia segua il suo regolare, benché accelerato, ciclo di presenza e assenza, di corporeità e “dematerializzazione”, di vita e morte - e tutto questo all’interno di un museo - è un gesto interpretativo, e insieme sovversivo, da più punti di vista: personale, artistico e culturale. 

In un certo senso, è come se nelle candele di Fischer ci fosse una doppia fase creativa: quella del calco fatto in studio e quella della sua corruzione, che inizia nel momento in cui la scultura viene inserita nello spazio espositivo. L’opera può dirsi pertanto veramente conclusa non quando esce dallo studio, ma quando si è dissolta a fine mostra. Da luogo consacrato alla memoria, il museo diventa allora luogo dell’annullamento e della perdita. All’opera è negata la sua “monumentalità” (nel senso relativo alla memoria, più che imponente peraltro nelle dimensioni), perché si tramuta subito in rovina; una rovina che rinnega il processo mnestico, a causa della sua rapida scomparsa, e che ci mostra, come direbbe Marc Augé, un tempo «puro», perché non databile, e «perduto», ma desideroso (e desiderato) di essere ritrovato(1)

Per Fischer la scultura è il linguaggio privilegiato per attivare un’incessante trasformazione dei materiali, degli oggetti, degli spazi, ed è così che assume quel carattere «informe», perché mai stabile, dell’arte contemporanea teorizzato da Yves-Alain Bois e Rosalind Krauss in un ormai celebre saggio(2). Le sue candele celebrano inoltre la fine, o meglio, l’evoluzione di una specifica prassi e tradizione artistica, esprimendo una sorta di “damnatio memoriae” che l’artista infligge beffardamente a se stesso.


Untitled (2011), veduta dell’allestimento, nell’ambito della mostra Dancing with Myself (Venezia, Palazzo Grassi - Punta della Dogana, fino al 6 dicembre).

(1) Cfr. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, trad. di A. Serafini, Torino 2004.
(2) Cfr. Y-A. Bois e R. Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, trad. di E. Grazioli, Milano 2003.

ART E DOSSIER N. 356
ART E DOSSIER N. 356
LUGLIO-AGOSTO 2018
In questo numero: ESTATE AL MUSEO La Rubenshuis di Anversa, il Museo diocesano di Feltre. I RESTAURI E LE SCOPERTE Pisa: gli affreschi restaurati; Pontormo: un nome per un ritratto. IN MOSTRA Christo a Londra, W.E. Smith a Bologna, Matisse ad Aosta, Kupka a Parigi, La collezione Agrati a Milano, Traiano a Roma.Direttore: Philippe Daverio