XXI secolo. 2
Leon Golub

UN GRIDO
CONTRO LA VIOLENZA

Ha militato nell’arte per denunciare soprusi, violenze, discriminazioni, abusi di potere presenti negli Stati Uniti, suo paese natale, ma diffusi come ben sappiamo anche nel resto del mondo. Con questo approccio Leon Golub ha realizzato le sue opere, segnate da un crudo realismo.


Elena Agudio

La morsa autoritaria sotto cui il mondo intero sembra oggi essere piombato, con il fiorire dei demagogismi razzisti, delle intolleranze nazionaliste e del sempre più incontenibile livore sociale; la presente crisi delle democrazie nell’Occidente, l’involuzione teocratica susseguitasi alle primavere arabe e il sorgere di continue nuove dittature e tirannie in tutto il globo; tutti questi sembrano essere terribili segnali e sintomi dello stato di crisi a cui le nostre società sono state condannate negli ultimi anni.
In un recente saggio pubblicato da Toni Morrison dal titolo No Place for Self-Pity, No Room for Fear, la scrittrice americana chiama in causa la responsabilità degli artisti nel mondo attuale, in un mondo che è ferito e sanguinante. «È esattamente questo il momento in cui un artista deve rimboccarsi le maniche. Non c’è tempo per la disperazione, non v’è spazio per l’autocommiserazione, non c’è posto per la paura. Noi parliamo, noi scriviamo, noi facciamo linguaggio e arte. È così che la civiltà guarisce»(*). Come è importante, sostiene la Morrison, non ignorare il grido di dolore del mondo, è altrettanto indispensabile non soccombere alla sua cattiveria e alle sue malevolenze.

Un’immagine in grado di evocare l’atmosfera asfissiante a cui tutta la società civile sembra essere costretta


Toni Morrison scrive e parla da un’America che si fa quotidianamente protagonista di una politica di militarizzazione e di sicurezza nazionale scellerata, di una retorica intimamente e strutturalmente violenta, capace di alimentare drammaticamente antichi antagonismi razziali che si pensavano da tempo sopiti. Un’America che in realtà, come tutto l’Occidente d’altronde, non si è mai mostrata abbastanza matura nell’affrontare i problemi della discriminazione e della guerriglia interna alla sua società.


Bit Your Tongue (2001).

Un’America che un artista come Leon Golub ha saputo ritrarre con grande precisione e poesia. A differenza di tutta la corrente dell’espressionismo astratto e del minimalismo, che si dichiarava essenzialmente impermeabile a questioni strettamente politiche e si professava fedele allo slogan greenbergiano «Beyond the canvas nothing», Leon Golub ha rappresentato il caso tipico dell’artista “engaged”, preoccupato per la situazione storica in cui stava vivendo e interessato a un lavoro di denuncia, a una forma di arte in qualche modo attivista.

Insieme alla moglie Nancy Spero, mitologica figura del mondo dell’arte e della lotta femminista, Golub era convinto della necessità di un continuo impegno politico, sociale e culturale nella pratica dell’arte, interessato a mettere sotto accusa le più feroci forme di oppressione, di abuso di potere e discriminazione. Oggi, di fronte ai suoi dipinti, sembra vedere scorrere nella nostra mente le immagini di pornografia della violenza a cui i mass media ci hanno abituato negli ultimi decenni: brutali azioni della polizia contro neri americani, atroci esercizi di tortura, linciaggi e spargimenti di sangue per mano di militari.


Interrogation IV (1986), Los Angeles, Lacma - Los Angeles County Museum of Art. (Milano, Fondazione Prada, Leon Golub, 20 ottobre 2017 - 15 gennaio 2018).

Eric Garner, il quarantatreenne americano colpevole probabilmente solo di vendere sigarette di contrabbando e (soprattutto) di essere nero, quando nel 2014 venne ucciso da un poliziotto che lo strinse in una presa fino a farlo morire soffocato, nella disperazione ripeté più volte queste parole: «I can’t breathe, I can’t breathe!». Un’immagine in grado di evocare l’atmosfera asfissiante e il nuovo clima di terrore a cui non solo un’intera comunità, ma tutta la società civile sembra essere costretta. La stessa “Stimmung” (atmosfera) che sembra permeare i dipinti di Leon Golub, d’altronde.


Un senso a tratti tragico ma mai cinico, una lotta emancipatoria radicale


È luogo comune ormai che per tutti gli anni della guerra fredda dietro l’espressionismo astratto ci fosse la “longa manus” della Cia e dell’Intelligence politica americana, interessata a controllare il dibattito artistico e culturale a livello globale e a instillare uno spirito anticomunista nelle menti della borghesia e delle diverse classi sociali.


Interrogation II (1981), Chicago, Art Institute of Chicago. (Milano, Fondazione Prada, Leon Golub, 20 ottobre 2017 - 15 gennaio 2018).

Una strategia raffinata, volta a mettere in luce ed esaltare la creatività e la vitalità spirituale, artistica e culturale della società capitalistica contro il grigiore dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti. E volta a mantenere il controllo, se non addirittura a ottenere il favore, degli intellettuali attraverso una politica del “guinzaglio lungo” (“long leash”). Una recente precisissima e documentatissima mostra alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino, Parapolitik, curata da Anselm Franke, Antonia Majaca, Paz Guevara e Nida Ghouse, ha messo in luce le contraddizioni ideologiche e le ambiguità etiche della continua campagna americana per la libertà d’espressione e la trasparenza dal secondo dopoguerra a oggi, una presunta difesa a tutto tondo dell’arte e della democrazia promossa utilizzando strumenti non propriamente democratici.

L’esistenzialismo e il figurativismo del gruppo Monster Roster di Chicago, di cui Leon Golub era diventato uno dei protagonisti insieme a Nancy Spero nella Chicago degli anni Cinquanta, in qualche modo si opponeva diametralmente alla poetica e alla “Weltanschauung” dell’espressionismo astratto.


White Squad IV (El Salvador) (1983). (Milano, Fondazione Prada, Leon Golub, 20 ottobre 2017 - 15 gennaio 2018).

Il suo credo si materializzava in una diretta osservazione e connessione agli eventi del mondo esterno, e proponeva una pittura e un’arte capace di parlare alla società, in modo sia personale che politico. Quasi tutti reduci dalla seconda guerra mondiale, gli artisti della Chicago School si trovavano profondamente segnati dall’esperienza della guerra e sceglievano un linguaggio crudo dai tratti a volte grotteschi, rifiutando ideologicamente l’astrattismo e la poetica edonista dell’“art pour l’art”, ispirandosi invece alla figurazione dell’arte antica classica e primitivista, all’espressionismo tedesco, all’Art Brut di Dubuffet, al surrealismo. Leon Golub durante la guerra aveva lavorato come cartografo nell’esercito americano, trascorrendo molto tempo in Europa. E in Europa era tornato volontariamente, con la moglie Nancy Spero, per confrontarsi con l’arte contemporanea oltreoceano, e soprattutto per studiare l’arte antica, quella etrusca e quella romana in primis, fonte di ispirazione primaria per il realismo anti-idealista della loro pittura. Una pittura e una poetica di due artisti che, pur diverse e differenti nello stile, paiono essere accomunate dallo stesso senso di appartenenza al mondo. Un senso a tratti tragico ma mai cinico, una lotta emancipatoria radicale.


Interrogation I (1980-1981), Los Angeles, Broad Art Foundation. (Milano, Fondazione Prada, Leon Golub, 20 ottobre 2017 - 15 gennaio 2018).

IN MOSTRA
Al Met Breuer (New York, fino al 27 maggio, www.metmuseum.org) la mostra Leon Golub: Raw Nerve ripercorre le fasi salienti della carriera dell’artista americano (1922-2004) - diplomatosi nel 1942 alla University of Chicago per poi specializzarsi, sul finire del decennio, alla School of the Art Institute of Chicago -, che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’arte dalla metà alla fine del XX secolo. Il fulcro del progetto espositivo, a cura di Kelly Baum, è rappresentato da Gigantomachy II, un’opera imponente donata nel 2016 al Metropolitan Museum of Art dalla The Nancy Spero and Leon Golub Foundation for the Arts, dove al centro troviamo i temi della violenza e della distruzione, quelli contro i quali l’autore ha combattuto per tutta la sua vita. Questo lavoro monumentale è stato realizzato da Golub nel 1966, due anni dopo la sua partecipazione al gruppo pacifista di artisti e scrittori ostili alla guerra in Vietnam. Insieme a Gigantomachy II diversi dipinti di importanti raccolte pubbliche e private rappresentano scene con mercenari, vittime di aggressioni e prevaricazioni, brutalità e oppressione, torturatori, rese con uno stile grezzo e viscerale.

All Bets are Off (1994), New York, Met - Metropolitan Museum of Art.

(*) Cfr. Toni Morrison, No Place for Self-Pity, No Room for Fear. In times of dread, artists must never choose to remain silent, in “The Nation Magazine”, 23 marzo 2015: www.thenation.com/article/no-place-self-pity-no-room-fear.

ART E DOSSIER N. 353
ART E DOSSIER N. 353
APRILE 2018
In questo numero: CORPI DI PASSAGGIO Jenny Saville: materia in disfacimento. Leon Golub: la violenza del potere. Pompier: bellezza come intrattenimento. Roma repubblicana: il volto verista. PAGINA NERA Come sta il ponte di Bassano? IN MOSTRA Il figurativo inglese a Londra; Nascita di una nazione a Firenze; Impressionismo e avanguardie a Milano; Gaudenzio Ferrari in Piemonte; Bellini e Mantegna a Venezia.Direttore: Philippe Daverio