XXI secolo. 1
Jenny Saville

NEL CORPO
DELLA MATERIA PITTORICA

Con il colore sorprende, spiazza l’osservatore e nel colore concentra la sua sofisticata ricerca artistica. Colore che Jenny Saville usa per approfondire il suo interesse per la carne, il corpo e le sue mutazioni, e per restituire con trasparenza e precisione la densità di un’emozione.


Danilo Eccher

Vi sono artisti che hanno il privilegio di stringere il proprio nome a uno specifico vocabolario pittorico: Giorgio Morandi alla “natura morta”, Alexander Calder alle “Hanging Sculptures”, Lucio Fontana ai “concetti spaziali” e poco importa che Morandi abbia prodotto splendidi paesaggi, Calder sculture monumentali e Fontana ceramiche barocche.

Allo stesso modo, il nome di Jenny Saville (presente dal 24 marzo al 16 settembre al National Galleries of Scotland di Edimburgo nella mostra NOW - Jenny Saville, Sara Barker, Christine Borland, Robin Rhode, Markus Schinwald, Catherine Street and others) è connesso alla pittura, anzi a quell’aspetto particolare della pittura che attiene al corpo, alla carne, alle sue modificazioni: invecchiamento, mutilazioni, chirurgia plastica, obesità, gravidanza, violenza. Anche in questo caso, poco importa che Saville abbia utilizzato anche il mezzo fotografico, lei è, e rimane, immersa nella pittura. Non sono molti gli artisti contemporanei che accettano la sfida di un linguaggio “antico”, problematico, ritenuto stanco come la pittura. Molti di loro continuano a ripetere svogliatamente stilemi obsoleti, altri si avventurano in banali e improbabili forzature linguistiche, Jenny Saville è entrata in profondità nel corpo della materia pittorica, si è sporcata con le sue viscere, si è bagnata con i suoi fluidi, ne ha studiato ogni aspetto e ogni possibilità.

Ha riconosciuto e accarezzato la vicinanza di altri pittori come Lucian Freud, anche lui coinvolto nella ricerca ossessiva dei dettagli di un corpo, parentela che però si dirada sul piano linguistico: denso, materico, grumoso in Freud, liquido, veloce, acido in Saville.

Pennellate ampie, decise, zuppe di un colore che a stento trattiene lo sgocciolamento


Una distinzione simile a quella che si riscontra con l’opera di Chaïm Soutine, anche lui attratto dai volti tumefatti da sforzi o eccessi ma lontano dalle superfici cangianti di Saville. La pittura è, per l’artista inglese, una sorta di pellicola che nelle ampie pennellate ricorda più la mano di Willem de Kooning che quella di Francis Bacon, l’istintività trattenuta del primo, piuttosto che la spettacolarità gestuale del secondo.



Passage (2004-2005).


Con Saville si afferma l’importanza di una sofferta capacità di controllo per poter misurare, correggere, ripetere il gesto fino alla perfezione di un colore puro, di una campitura esatta. Sono volti colti nelle loro smorfie di dolore, di sorpresa, di sfida, di rassegnato abbandono, espressioni raccolte da pennellate ampie, decise, zuppe di un colore che a stento trattiene lo sgocciolamento. Appaiono pigmenti misti di azzurri, verdi, rosa, infinite gamme di ocra e rosso che apparentemente stridono con la drammaticità rude del racconto, eppure accentuano, forse proprio per questo inatteso contrasto, l’emozione e la sorpresa dello sguardo. Il colore assume un ruolo determinante nell’opera di Jenny Saville. Come per gli studi anatomici l’artista sprofonda nei dettagli, analizza i pigmenti, le relazioni luminose, le evocazioni simboliche, i contrasti e le dissolvenze. Ecco allora lo stupore per la corrosività dei verdi pallidi, apparentemente innocui, o l’oscenità dei rosa tenui, così pericolosamente accoglienti, la violenza dolorosa dei rossi, di primo acchito attraenti e amorevoli, o la profondità cupa dei blu e degli azzurri, all’apparenza tanto eleganti e sobri. Saville danza con infantile innocenza sulle ambiguità del linguaggio cromatico, con ingordigia se ne nutre, con crudele lucidità ne sfrutta ogni possibile sfumatura simbolica o espressiva. Il colore è un vestito epifanico che aderisce alle sofferenti mutilazioni, ne oscura con la propria smorfia il lamento ma, al contempo e proprio per questo acceso travestimento, ne suggerisce l’impeto narrativo.


Il colore svapora, si dissolve, la superficie sembra congelarsi in una lattiginosa velatura


The Mothers (2011).

Il talento di Jenny Saville nell’uso del colore è raro e sottile ed è forse per tale consapevolezza che, con dolorosa disciplina, si ritrae sempre più spesso da un suo confortevole abbraccio. Anche quando, come nelle opere più recenti, il colore svapora, si dirada, si dissolve, la superficie sembra congelarsi in una lattiginosa velatura sulla quale affiorano i graffi del disegno.

Il tratto si fa più incisivo e sottile, per certi versi più audace e veloce, disorienta lo sguardo indicando sempre nuove prospettive e sorprendenti direzioni, confondendo ancor più la complessità narrativa. La figura non è più abbandonata e solitaria ma accolta in uno sfondo vivo, non tanto una debolezza paesaggistica quanto piuttosto un susseguirsi di piani prospettici, di geometrie abbozzate, linee curve e angoli retti che si ostacolano a vicenda e che contribuiscono a disegnare lo spazio scenico sul quale disporre l’immagine. Ciò che avviene nello spazio, nel vortice del segno, esonda anche nelle figure e, anche sfruttando il tema della maternità, permette ai corpi di sovrapporsi, intralciarsi, invadere l’ambiente altrui. Il volto della madre, spesso l’autoritratto di Saville, i visi dei bambini, i loro corpi, le loro improvvise contorsioni generano un movimento di linee che scardinano l’intera composizione, sovvertendo l’ordine formale e l’armonia narrativa. Prende forma allora una narrazione sospesa fra l’emozione tematica della maternità e l’invadenza formale di un corpo gonfio e pesante, estraneo all’immagine di una serenità indolore. Un cortocircuito sintattico che consente al racconto di cavalcare l’irrequietezza del linguaggio e affrontare le visioni urbane di violenza quotidiana o gli incubi notturni di memorie storiche di corpi dilaniati, decapitati, violati. Per Saville l’immagine di un corpo, la sua pelle, le sue pieghe, l’increspatura, illustrano la mappa geografica di un territorio concreto, ruvido e raggrinzito lungo il quale è possibile annotare osservazioni, fissare appunti, lasciare messaggi. Affiora così sulla superficie dell’opera un reticolo di tatuaggi che intrecciano nomi e percorsi, simboli distintivi e lettere, nel groviglio delle isobare di un territorio aspro, irto, rincorso da voragini e picchi. La pelle conserva, nelle rughe della sua memoria, i segreti di una cabala di simboli facili da riconoscere e complessi da decifrare. Linee, alfabeti, algebre si sovrappongono e si confondono in una mappatura del corpo che cerca un suo orientamento, una sua direzione, un suo ordine. Il corpo è un mondo che urla tutte le sue emozioni, che sussurra tutta la sua poesia.


Study for Pentimenti IV (After Michelangelo’s Virgin and Child) (2011).

ART E DOSSIER N. 353
ART E DOSSIER N. 353
APRILE 2018
In questo numero: CORPI DI PASSAGGIO Jenny Saville: materia in disfacimento. Leon Golub: la violenza del potere. Pompier: bellezza come intrattenimento. Roma repubblicana: il volto verista. PAGINA NERA Come sta il ponte di Bassano? IN MOSTRA Il figurativo inglese a Londra; Nascita di una nazione a Firenze; Impressionismo e avanguardie a Milano; Gaudenzio Ferrari in Piemonte; Bellini e Mantegna a Venezia.Direttore: Philippe Daverio