Dentro l'opera 


(IO) SONO GLI OGGETTI
CHE MI CIRCONDANO

di Cristina Baldacci

Un primo piano sulle opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: Sol LeWitt, Autobiography

Èil 1980, la fotografia è ormai entrata a pieno titolo tra i linguaggi dell’arte contemporanea, grazie anche all’ampio uso che nei due decenni precedenti ne hanno fatto gli artisti concettuali sia per documentare opere, azioni e gesti transitori, sia per sperimentare nuove forme e generi. In quell’anno, Sol LeWitt (Hartford, 1928 - New York, 2007), che dell’arte concettuale è stato uno dei padri, con quei Paragraphs on Conceptual Art che nel 1967 ne gettarono le basi teoriche, si apprestava a lasciare New York per Spoleto, dove da allora avrebbe a lungo soggiornato, eleggendola a sua seconda casa. Come portare via un ricordo della sua vita newyorchese? Semplice: ricorrendo a un libro dove documentare, al pari di un album fotografico, tutto ciò che lui stesso aveva accumulato nello spazio dove aveva vissuto e lavorato per quasi trent’anni.

Nacque pressappoco così - almeno questa è la vulgata - l’idea per Autobiography, un piccolo libro quadrato dalle pagine suddivise in griglie con nove foto in bianco e nero ciascuna: una mappatura, attraverso gli oggetti del suo quotidiano, della casa-studio in Hester Street, nel Lower East Side di Manhattan, dove LeWitt si era stabilito fin dall’arrivo a New York nel 1953. In questo libro-catalogo tutto è messo sullo stesso piano: libri, attrezzi del mestiere, ninnoli, stoviglie. Nessun oggetto ha più importanza di un altro, ogni cosa contribuisce a comporre, secondo una logica antropologico-etnografica, un meticoloso autoritratto dell’artista, che così ha spiegato il progetto: «Se avessi fotografato tutto ciò che faceva parte della mia vita, dello spazio in cui vivevo, tutti avrebbero capito la mia vita vera. Nel loft c’era tutto… le mie pentole, le mie forbici, i tostapane, gli strumenti per dipingere, cartoline, disegni, libri, nastri e dischi, e oggetti che la gente mi spediva o che io raccoglievo e dappertutto c’erano lavori realizzati da me e tutti insieme formavano la mia autobiografia»(1).

Tuttavia, dietro a questo desiderio di indagine, documentazione e, volendo, anche celebrazione personale, tutti aspetti che rendono Autobiography una cosmologia del suo autore, c’è di più. C’è prima di tutto una passione per i libri, che LeWitt inizia a produrre come opere a sé, usando soprattutto la fotografia, nel 1965. Nella forma libro vede riassunti alcuni dei requisiti per lui fondamentali: la serialità, l’autonomia dal sistema delle gallerie e l’idea di un’arte per tutti, con una circolazione e accessibilità molto più ampie. L’interesse per il libro come spazio di pensiero e d’azione lo porta a partecipare al primo libro d’artista prodotto con la macchina fotocopiatrice, il famoso Xerox Book (da un’idea di Seth Siegelaub, con Carl Andre, Robert Barry, Douglas Huebler, Joseph Kosuth, Robert Morris, Lawrence Weiner, 1968), e a fondare, con la critica Lucy Lippard e altri amici artisti, l’organizzazione no-profit e bookstore Printed Matter (1976), dedicato ai libri d’artista e tuttora esistente.

Alla fine degli anni Sessanta, l’esperienza dello Xerox Book fu fondamentale, perché introdusse l’idea del catalogo-mostra e la possibilità di passare dalla parete alla pagina e viceversa.


L’immagine qui riprodotta, che presenta le fotografie contenute nel libro dispiegate sui muri di uno spazio espositivo, ne è una dimostrazione. Secondo LeWitt, infatti, «la parete è intesa come spazio assoluto, come la pagina di un libro». L’unica differenza è che «la prima è pubblica e la seconda è privata»(2). Al pari di altri suoi colleghi, LeWitt aveva allora cominciato a scegliere indistintamente sia la pagina del libro, sia la parete del museo o galleria come superfici per progetti che univano la bi- alla tri-dimensionalità (si pensi per esempio ai suoi celebri Wall Drawings, in cui il disegno geometrico che nasce sul foglio di carta acquista valore architettonico-scultoreo quando trasposto su parete). Un aspetto che, in ambito concettuale, venne accentuato dall’uso della fotografia in bianco e nero come strumento di definizione degli oggetti a tre dimensioni; soprattutto con Bernd e Hilla Becher, i cui decennali progetti di mappatura fotografica dell’archeologia industriale tedesca non a caso gli fecero vincere il Leone d’oro per la scultura alla Biennale di Venezia del 1990.

(1) Trascrizione da Sol LeWitt: 4 Decades, video, 58’, Michael Blackwood Productions, 2005. Si pensi anche ad altri artisti che tra anni Sessanta e Settanta adottarono il libro fotografico come diario biografico o autobiografico, tra cui Giuseppe Penone, Hans-Peter Feldmann e Christian Boltanski.

(2) Cfr. Sol LeWitt, Commentaries, in Sol LeWitt, catalogo della mostra (New York, MoMA - Museum of Modern Art, New York, 3-4 aprile 1978), a cura di Alicia Legg, New York 1978.

ART E DOSSIER N. 352
ART E DOSSIER N. 352
MARZO 2018
In questo numero: GIO PONTI OGGI La chiesa abbandonata; Un design senza tempo. SPAZI D'ARTE L'isola di Hombroich; Tefaf a Maastricht. IN MOSTRA I volti di Menazzi Moretti a Matera; Arte e psiche a Ferrara; I napoletani ''parigini'' a Napoli; Raffaello a Bergamo; Tessuto e ricchezza a Firenze; Perù preincaico a Parigi.Direttore: Philippe Daverio