Il Museo immaginario
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L’ULTIMO
DEPORTATO

Un viaggio alternativo nell’arte del Novecento, alla riscoperta di grandi artisti, di opere e storie spesso dimenticate: Felix Nussbaum


di Alfredo Accatino - Il Museo Immaginario
ilmuseoimmaginario.blogspot.it

Nel maggio del 1940 il Terzo Reich invade il Belgio, che si era dichiarato neutrale, trovando un’inaspettata resistenza. Ma dopo soli diciotto giorni il paese è in mano nazista. Felix Nussbaum, ebreo tedesco che si era rifugiato a Bruxelles proprio per sfuggire al nazismo, viene arrestato dalla Gendarmerie con la qualifica di «alieno ostile». Finirà, dopo mille traversie, nel campo di prigionia di Saint-Cyprien, nella Francia di Vichy, insieme ad altri seimila espatriati, molti dei quali ebrei. Un campo profughi militarizzato, costruito frettolosamente sulla spiaggia, dove già erano stati ammassati un anno prima i fuoriusciti spagnoli, nonché gli animali degli allevatori. Rovente d’estate, gelido d’inverno. Nel campo, privo di corrente elettrica, infestato di cimici, che il poeta tedesco Walter Mehring chiamerà «l’inferno dei Pirenei», Felix scopre l’orrore della segregazione, realizzando in seguito alcune opere dedicate a quella esperienza che ti spezzano il cuore. E che dovrebbero farci sentire più vicini ai profughi di Lesbo e Lampedusa. Firma quindi la richiesta alle autorità francesi del campo per essere restituito alla Germania. Preferisce una morte probabile a quella detenzione.

Mentre è sul treno che da Saint- Cyprien lo riporterà in Germania, riesce però a fuggire e a raggiungere in maniera rocambolesca Bruxelles, dov’era rimasta nascosta la sua adorata moglie, la pittrice polacca Felka Platek.

I Nussbaum non hanno alcun reddito, ma gli amici di Felix - in particolare lo scultore Dolf Ledel - forniscono riparo, permettendogli di continuare a dipingere insieme alla consorte, comprandogli tele e colori. Sono quattro anni di solitudine, alienazione, terrore, clandestinità, che gli permettono di raccontare e documentare la paura di quegli anni come nessun altro sarebbe stato in grado di fare.

Il 1944 è l’anno della fine. I genitori, Philipp e Rahel Nussbaum, fuorusciti incautamente dalla Svizzera, sono riconosciuti e arrestati. Saranno gasati ad Auschwitz nel mese di febbraio. Il 20 giugno 1944 Felix e sua moglie, denunciati da un vicino, vengono trovati dalla Wehrmacht, ancora nascosti nella soffitta di rue Archimède a Bruxelles. L’amico Dolf Ledel, riuscito a fuggire con la moglie e la figlia, ce la fa a salvarsi. Loro invece vengono arrestati, inviati nel campo di transito di Mechelen, con i numeri XXVI/284 e XXVI/285, per poi essere caricati sull’ultimo convoglio di deportati che partirà dal Belgio. Il 2 agosto arrivano ad Auschwitz.

Felix morirà all’età di trentanove anni in una data imprecisata compresa tra il 20 settembre del 1944 e il gennaio del 1945, probabilmente dopo aver dovuto sottoporsi a lavori forzati. Morirà anche la moglie. Il 3 settembre morirà il fratello maggiore, il 6 settembre la cognata, mentre l’altro fratello, Justus, ultimo sopravvissuto della famiglia, perirà di stenti nel campo di Stutthof, oggi Sztutowo in Polonia, presso Danzica.

Felix Nussbaum rimarrà sconosciuto fino alla metà degli anni Settanta. Dopo la riscoperta, nel 1998 gli verrà dedicato dalla città di Osnabrück, che gli dette i natali, un monumentale museo disegnato dall’archistar Daniel Libeskind, chiamato affettuosamente Felix Nussbaum Haus, la casa di Felix Nussbaum. Quella casa che nella sua terra natale non aveva avuto che per pochi anni. L’edificio è caratterizzato da un’architettura densa di riferimenti alla tragica vita dell’artista. «Museo senza uscita», così lo descrive Libeskind, basato sul rapporto tra luce e ombra. Ho visitato anche lo Jüdisches Museum che lo stesso architetto ha progettato per Berlino, dedicato in gran parte alla Shoà. Impressionante, a un certo punto, il fatto di trovarsi, senza preavviso, in un ambiente angusto, con le pareti nude di cemento che salgono per tre piani, lasciando in alto solo uno spicchio di luce. Un’architettura emozionale, chiamata la Torre dell’Olocausto.


Paura (Autoritratto con la nipote Marianne) (1941), Osnabrück, Felix-Nussbaum- Haus Museum.

Mentre la pesante porta si chiude alle tue spalle, dandoti la stessa sensazione di abbandono che devono aver provato milioni di prigionieri, ti ritrovi in uno spazio alienante che ti lascia, anche nel ricordo, a livello sensoriale, una percezione d’inquietudine e di paura. Felix Nussbaum nasce, come si è detto, a Osnabrück, storica città della Bassa Sassonia, l’11 dicembre 1904, da una famiglia borghese di religione ebraica. Studia pittura ad Amburgo e Berlino, dove conosce Felka, anch’essa proveniente da una famiglia ebraica, con la quale si sposerà nel 1937. Ma già nel 1933, con l’avvento del nazismo, Nussbaum ha compreso che la vita sta diventando impossibile. Nel 1934 un incendio distrugge centocinquanta opere che ha nello studio, privandoci oggi di una visione globale della sua opera. È già stato in Italia, a Villa Massimo a Roma. Prova a ritornarci, poi si reca in Francia, quindi in Belgio, dove crede di essere al sicuro. E dove purtroppo si compirà l’atto finale.

Quello che colpisce della visione delle tele sopravvissute, è la continua iterazione degli autoritratti, che scandiscono come un “countdown” la storia della sua vita, da Saint-Cyprien agli ultimi giorni di segregazione. Formalmente, come artista, potrebbe essere collegabile alla Neue Sachlichkeit.


Nella sostanza, la sua è una ricerca psicologica e analitica che utilizza la propria immagine e quella della moglie come catalizzatori della storia.
L’Autoritratto con passaporto ebraico del 1943, eletto oggi a simbolo dell’Olocausto, diventa quasi una finestra nel futuro, dove con lucida chiarezza il pittore legge la realtà, ciò che l’Europa alla fine del conflitto dirà di non aver capito, di non sapere, di non immaginare. Quello che ancora oggi si sente ripetere in qualche parte del mondo. Sicuramente l’esperienza italiana e la conoscenza della Metafisica hanno influenzato la sua pittura. La differenza è che lui usa la figura umana e se stesso in luogo di cose ed edifici, divenendo, in questo, nostro contemporaneo. Paura, un dipinto del 1941, diventa così un manifesto della fragilità umana. Sono opere disperate, che richiedono solo il silenzio.

ART E DOSSIER N. 350
ART E DOSSIER N. 350
GENNAIO 2018
In questo numero: I DILEMMI DELL'ARCHITETTURA Modernismo e tradizione a Firenze; Sottsass: la fantasia della ragione; Analogie: forme da altre forme. IN MOSTRA Sottsass a Milano e Parma, Impressionisti a Londra; Canova e Hayez a Venezia, Bernini a Roma, Giorgione a Castelfranco Veneto.Direttore: Philippe Daverio