La pagina nera
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C’È IL CASOTTO,
E LA ROVINA
ORA SOLO S’INDOVINA

È bello passeggiare per le città e riconoscere in ogni angolo la loro identità. Peccato che questa sana esigenza spesso venga disattesa. Roma: un gabbiotto ai Fori in prossimità dell’arco di Settimio Severo proprio non ci voleva, e neppure l’abbattimento di una palazzina liberty nell’affascinante quartiere Coppedè per realizzare sette loft, quindici box e sette cantine. Inascoltata la protesta dei residenti.


di Fabio Isman

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) è forse il massimo scrittore tedesco. Famoso anche per il Viaggio in Italia, due volumi scritti tra il 1813 e il 1817, resoconto del Grand Tour compiuto dal 3 settembre 1786 al 18 giugno 1788; nel 1829, ne aggiunse un terzo, sulla seconda visita a Roma. Un viaggio nella penisola non del tutto canonico: la prima volta, si ferma a Firenze appena tre ore e, nella Cappella sistina, si annoia e si addormenta; ma riporta a casa oltre mille disegni. Nella capitale dei papi spiega che «solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma»; dice: «Vestigia, magnificenza e sfacelo» che «superano l’immaginazione». Ha l’animo in subbuglio quando se ne va: pianta due palme (erano le più alte di Roma) a villa Malta, dove la domenica andava a sospirare con Angelica Kauffman, che di lui ha lasciato un intenso ritratto; e riserva l’ultima delle sue “passeggiate” all’estremo sguardo sui Fori. Dal carcere Mamertino, subito sotto il Campidoglio, di fronte all’arco di Settimio Severo.

La villa non è più il circolo artistico tedesco, come ai tempi dello scrittore; e, da qualche anno, non ci sono più neppure le palme. I gesuiti di “Civiltà cattolica”, che vi risiedono dal dopoguerra con una biblioteca di cinque piani interrati, le hanno almeno ricordate con una targa davanti ai tronconi. Ma se Goethe fosse tornato all’angolo nord-ovest del Foro romano, davanti all’arco a tre fornici sorto nel 203 per celebrare la vittoria sui parti, avrebbe certamente avuto una pessima sorpresa. Da qualche tempo infatti, scendendo dal Campidoglio, accanto al carcere Mamertino chiamato anche Tullianum - realizzato per Tito Livio nel VII secolo a.C., e in cui, oltre a san Pietro, furono rinserrati i grandi nemici dell’Urbe, da Ponzio re dei sanniti, a quello dei galli Vercingetorige, ai congiurati di Catilina - è comparsa una nuova costruzione, che stravolge il panorama; anzi, impedisce in buona parte la visuale dell’arco. Un gabbiotto in vetro, di stile postelegrafonico, con la finestratura protetta da reti metalliche. A guardarci dentro, si vede un tornello, ma non uno sportello: non una nuova biglietteria per i Fori, ma un nuovo accesso agli scavi più famosi dell’Urbe, e al luogo culturale più visitato nella penisola: con il Colosseo, quasi sei milioni e mezzo di persone nel 2016; pochi più dei Musei vaticani.

Dopo gli stravolgimenti degli anni Cinquanta e Sessanta, nel pieno del boom edilizio, talora non si fa sufficientemente caso alla qualità degli interventi


Forse i Fori avevano bisogno di un nuovo accesso. Ma costruirlo proprio qui, e con un edificio che, pur essenziale, non fa certo bella mostra di sé, e modifica una tra le più celebri e celebrate visuali della Città eterna? Se Goethe ne ripartisse di nuovo, chissà se vi dedicherebbe l’ultima passeggiata: quella che resta imperitura nel cuore e nel ricordo.

Il problema è che, in questo paese, dopo gli stravolgimenti degli anni Cinquanta e Sessanta, nel pieno del boom edilizio, talora non si fa sufficientemente caso alla qualità degli interventi; all’arredo urbano, ai panorami nelle città. Ne è una conferma, sempre a Roma, il recentissimo abbattimento di una storica palazzina, ai limiti del famoso quartiere Coppedè. Luigi Coppedè detto Gino (1866-1927) è stato architetto geniale ed eclettico, fuori da ogni schema; una sorta di “Gaudí italiano”, collaborò spesso con i fratelli Adolfo e Mariano.


Accanto al quartiere Coppedè e a dove abitò Beniamino Gigli, al posto di un antico (e intonato) edificio, uno nuovo di zecca.

È loro un progetto per l’harem di Baghdad, per fortuna mai realizzato: il portale d’entrata era un grande sesso femminile, con ai lati otto falli, usati come colonne. Comunque sia, dopo aver studiato Belle arti a Firenze (con «unanimità dei voti e plauso») e averci lasciato tra l’altro a Genova il castello Mackenzie, a Roma Gino edifica (tra il 1910 e il 1926) il quartiere dove hanno abitato anche Beniamino Gigli e la Patty Pravo degli anni Settanta, e Dario Argento ha ambientato le scene di parecchi film horror: i palazzi del Ragno e degli Ambasciatori, la Fontana delle rane, i Villini delle fate. Un compendio amato e vituperato: «Pazzoide», «tutto pseudo», «pastiche»; lui, viene chiamato «immondo falsificatore di monumenti antichi». Il quartiere, però, è sempre assai ben abitato: prezzi alle stelle.

Ai suoi limiti, dal 1930, esisteva una palazzina liberty di due piani, il villino Naselli, progettato da Ugo Gennari, allora presidente dell’Ordine degli architetti nella capitale; trent’anni dopo - quando nel frattempo la proprietà del villino passa alla congregazione delle Ancelle concezioniste del Divin cuore - ai due piani si aggiunge una sopraelevazione di altri tre. Forse anche per questo intervento, la palazzina, ceduta poi dalle suore a una società immobiliare, non era vincolata. E così Alessandro Ridolfi, l’attuale presidente degli architetti romani, al suo posto ne progetta uno di quattro piani: sette loft per 3.200 metri cubi, quindici box e sette cantine. Lo storico edificio viene quindi abbattuto tra le vane proteste dei residenti e delle associazioni ambientaliste. Proprio ai confini di un quartiere omogeneo che, comunque, è assolutamente unico al mondo. È insorto anche Vittorio Sgarbi, con tutta la sua consueta veemenza; ma ormai, il delitto è compiuto.


Il momento dell’abbattimento dell’edificio storico nel quartiere Coppedè.

Fortunatamente, non sono più i tempi in cui in una città di appena duecentomila abitanti, ed edificata per appena un terzo entro le Mura aureliane, arrivano i piemontesi (e con loro, le prime speculazioni edilizie): quando le ville sono subito urbanizzate. Erano la grande ricchezza della città: una corona di verde, viali e alberi, spesso affiancati da sculture antiche, attorno ai monumenti più remoti. Di quelle ville, novanta sono andate distrutte: un terzo, subito dopo l’Unità d’Italia. Roma era una città di «giardini e luoghi di delizia di singolare bellezza», che dimostrano «come l’arte possa utilizzare un posto gibboso, mosso, ineguale, ché ne han saputo cavare bellezze inimitabili nelle nostre contrade pianeggianti », scriveva nel 1550 Michel Eyquem de Montaigne. E tre secoli dopo, Henry James aggiungeva: «Certamente non c’è a Roma nulla di meglio, e forse nulla di così bello. I prati e i giardini sono immensi ». No: i tempi non sono più quelli in cui tanto verde sparisce. E nemmeno quelli in cui si compromette l’intera collina di Monte Mario per far nascere un albergo (e, indimenticabilmente, l’“Espresso” titolava «Capitale corrotta, nazione infetta»). Però, vedere, in pochi giorni, sorgere il nuovo “casotto” ai Fori, e abbattere la palazzina accanto al quartiere Coppedè non fa sperare davvero in nulla di buono. E dire che il Comune di Roma possiede, allegata al piano regolatore adottato nel 2003, la “Carta per la qualità” urbana: «Una immensa risorsa», è scritto, «anche per garantire qualità alle future trasformazioni ». Qualcuno si sarà forse scordato di consultarla a dovere.


Studio Coppedè, progetto mai realizzato dell’ingresso all’harem del Palazzo reale di Baghdad probabilmente di Adolfo e del 1934.

ART E DOSSIER N. 350
ART E DOSSIER N. 350
GENNAIO 2018
In questo numero: I DILEMMI DELL'ARCHITETTURA Modernismo e tradizione a Firenze; Sottsass: la fantasia della ragione; Analogie: forme da altre forme. IN MOSTRA Sottsass a Milano e Parma, Impressionisti a Londra; Canova e Hayez a Venezia, Bernini a Roma, Giorgione a Castelfranco Veneto.Direttore: Philippe Daverio