I documenti d’archivio affermano che rispetto agli altri collaboratori di primo rango di Nicola - Arnolfo, e poi Lapo e Donato, che vi lavoravano continuativamente - Giovanni poteva essere convocato “a gettone”, qualora fosse necessario per garantire l’andamento dei lavori, e lasciano capire che egli, a nemmeno vent’anni, rimase in quel periodo spesso a Pisa, forse per coordinare la bottega paterna e garantirne l’operatività anche in assenza del “magister”, obbligato per contratto a risiedere, salvo brevi intervalli, a Siena. Il giovane artefice, dunque, cresceva bene e il “padre-padrone” ne prese atto, attribuendogli compiti di rilievo e richiedendo per lui un salario che era il più alto fra quelli attribuiti agli aiuti.
In quegli stessi anni (1264-1267) la bottega di Nicola attendeva a un’altra importante realizzazione, l’Arca di san Domenico per l’omonima chiesa di Bologna, un’impresa innovativa nell’ideazione architettonica e nelle scelte dei soggetti, che doveva celebrare un santo contemporaneo e il suo ruolo di combattente per l’ortodossia contro l’eresia catara. Vi attesero prevalentemente Fra Guglielmo (che vestiva l’abito domenicano) e Arnolfo di Cambio, il più anziano e il più abile dei collaboratori di Nicola, che fu il supervisore effettivo dell’opera. Non vi fu coinvolto invece Giovanni, demandato - s’è visto - a compiti diversi, attivo a Pisa ma anche per Siena, città che divenne per lui una seconda patria, di cui acquisì la cittadinanza e dove volle infine essere sepolto.
Proprio nel pergamo senese si può, con buona probabilità, riconoscerne per la prima volta la mano. Purtroppo, i documenti chiariscono ben poco i criteri di progetto e divisione del lavoro stabiliti da Nicola, né ci dicono fino a qual punto il maestro intervenisse in fase di finitura per ottenere l’effetto voluto e rendere le figure e le scene formalmente omogenee. La miracolosa sintesi attuata in quest’opera da Nicola - che riuscì a trasfondere per la prima volta in maniera intensissima nel marmo poesia e realtà, nella naturalezza dei corpi, dei volti, delle vesti, l’espressività comunicativa dei gesti e dei visi - non va a discapito della valorizzazione delle singole individualità dei collaboratori. La critica, infatti, si è provata a discernerne le varie mani e - se non è riuscita a riconoscervi con certezza gli apporti di Lapo e Donato, personalità meno spiccate - ha avuto più agio nel ravvisare quelle di Arnolfo e, appunto, di Giovanni. A lui è spesso assegnato il Cristo mistico, che dialetticamente separa (o raccorda) la specchiatura con la Strage degli innocenti e quella con la Crocifissione: una figura ispirata a un canone di bellezza virile inedito che non trova alcun precedente, nemmeno nel ricchissimo repertorio del padre e di Arnolfo; una figura grandiosa e riservata, introspettiva nell’atteggiamento e concentrata nell’espressione, che annuncia quello che si può definire il suo nuovo “umanesimo emozionato”.
Dal 1270 il ruolo di Giovanni nella bottega diventa più marcato, e perciò la sua mano e il suo “spirito” originale sono un po’ più facili da distinguere. Nel 1273, suo padre fu incaricato di realizzare nel duomo di Pistoia un nuovo altare, dedicato a sant’Jacopo. Non era propriamente un lavoro da scultore, ma semmai da esperto marmorario: niente figure scolpite, ma solo la fornitura di sei specchiature marmoree, di cornici e colonnette e il reimpiego dell’antica mensa; a curarlo potrebbe essere stato forse demandato Giovanni, ormai circa venticinquenne, e fu forse il buon esito di questa commessa a valergli il compito di guidare, in quanto fiduciario del padre, la realizzazione - sempre a Pistoia, in San Giovanni Fuorcivitas, poco dopo il 1273 - di un’acquasantiera ottagonale intensamente figurata, con ben quattro busti femminili nei lati del bacile e tre splendide figure allegoriche accostate per il dorso in funzione di cariatidi. Fu Giorgio Vasari ad attribuirla per primo a Giovanni, e il consenso della critica, da allora, non è mancato.
Nello stesso periodo, per Empoli (Firenze), Giovanni eseguì un’opera in cui, pur facendo riferimento all’arte paterna, seppe trovare una via nuova, personale, al naturalismo. Si tratta di una Madonna col Bambino entro un clipeo: un soggetto devozionale - si direbbe - di ordinaria amministrazione. Se ne ignora la collocazione antica, ed è un peccato, perché il disco marmoreo, incorniciato da una semplice modanatura, non è concepito come un mero piano di fondo; si presenta infatti come una finestra circolare. Le figure sono rifinite e lisciate (e questo le rende evidenti, presenti), il fondo no (il che lo rende indeterminato, “atmosferico”): sembra un oculo aperto in una parete da cui la Vergine si affacci leggermente per mostrare Gesù a qualcuno che sopraggiunge da destra; qualcuno che il Bimbo guarda e, col braccio enfaticamente proteso e la grande mano alzata, benedice. Il nobile volto di lei, florido, serio e intenso, e la naturalezza infantile di lui (il nasino, la boccuccia morbida e le guance piene, i piedini anatomicamente ineccepibili) sviluppano senz’altro tematiche e modelli nicoliani, ma in maniera creativa.