FORMAZIONE E PRIMA ATTIVITÀ
(1265 CIRCA - 1284)

Clario Di Fabio


Nato verso il 1248 e morto alla fine del 1318, Giovanni ebbe, come Dante (1265-1321) e Giotto (circa 1267-1337), una vita lunga
e produttiva, e con esiti altrettanto straordinari.

Era pisano (lui stesso lo dichiara, nelle iscrizioni dei pulpiti di Pistoia e di Pisa), figlio di un genitore, Nicola, venuto «de Apulia», vale a dire da quell’Italia meridionale che, fino al 1250, era stata, grazie a Federico II, il più vivace e impetuoso laboratorio politico d’Europa, innovativo anche in campo artistico.

Fino al 1265 di Giovanni non si sa nulla, ma a quella data è già citato come vero e proprio collaboratore di Nicola; i tre lustri precedenti erano stati dunque per lui di intenso, assiduo apprendistato nella bottega del padre. Considerando che in genere si entrava a bottega sui quattordici anni, è chiaro che aveva bruciato le tappe.

Entra in scena quando la commessa al pisano Nicola di un nuovo, monumentale pulpito per la cattedrale di Siena denunciò fino a che punto si andasse diffondendo - in Toscana, per il momento - la chiara coscienza del fatto che i suoi interventi scultorei nel portale sinistro del duomo di Lucca e la realizzazione del pulpito per il battistero di Pisa (1258-1260) avevano fissato un punto di svolta senza ritorno.

Questi due cantieri, che il padre governò simultaneamente, operandovi nelle fasi di concezione e di finitura quasi da solo (è infatti ben difficile distinguervi le mani degli aiuti, che pure senz’altro vi lavorarono), dovettero essere per il figlio vere e proprie palestre di studio e di affinamento professionale. Ma fanno ancora parte della sua “preistoria”: la sua mano, infatti, ancora non vi spicca, certo perché, vista la sua giovane età, era ancora adibito piuttosto a rifinire e lucidare le parti scolpite che a impostarle o a qualificarle creativamente; per questo sembrano poco fruttuosi gli sforzi di chi vuole riconoscerne l’intervento nelle specchiature del pulpito pisano eseguite per ultime, soprattutto nel Giudizio finale. Con il pergamo per la Anonimo scultore francese e Giovanni Pisano, Angelo in veste di diacono che ostende la testa di san Giovanni Battista (1250 circa / 1275 circa); Pistoia, Museo dell’Antico Palazzo dei vescovi. Il diacono, di anonimo scultore francese, è stato realizzato verso il 1250; la testa del Battista, di Giovanni Pisano, verso il 1275. cattedrale di Siena, la cui lavorazione si snodò dal settembre 1265 al 1268, invece, la sua “storia” artistica inizia davvero.


Crocifisso (1275 circa).

I documenti d’archivio affermano che rispetto agli altri collaboratori di primo rango di Nicola - Arnolfo, e poi Lapo e Donato, che vi lavoravano continuativamente - Giovanni poteva essere convocato “a gettone”, qualora fosse necessario per garantire l’andamento dei lavori, e lasciano capire che egli, a nemmeno vent’anni, rimase in quel periodo spesso a Pisa, forse per coordinare la bottega paterna e garantirne l’operatività anche in assenza del “magister”, obbligato per contratto a risiedere, salvo brevi intervalli, a Siena. Il giovane artefice, dunque, cresceva bene e il “padre-padrone” ne prese atto, attribuendogli compiti di rilievo e richiedendo per lui un salario che era il più alto fra quelli attribuiti agli aiuti.

In quegli stessi anni (1264-1267) la bottega di Nicola attendeva a un’altra importante realizzazione, l’Arca di san Domenico per l’omonima chiesa di Bologna, un’impresa innovativa nell’ideazione architettonica e nelle scelte dei soggetti, che doveva celebrare un santo contemporaneo e il suo ruolo di combattente per l’ortodossia contro l’eresia catara. Vi attesero prevalentemente Fra Guglielmo (che vestiva l’abito domenicano) e Arnolfo di Cambio, il più anziano e il più abile dei collaboratori di Nicola, che fu il supervisore effettivo dell’opera. Non vi fu coinvolto invece Giovanni, demandato - s’è visto - a compiti diversi, attivo a Pisa ma anche per Siena, città che divenne per lui una seconda patria, di cui acquisì la cittadinanza e dove volle infine essere sepolto.

Proprio nel pergamo senese si può, con buona probabilità, riconoscerne per la prima volta la mano. Purtroppo, i documenti chiariscono ben poco i criteri di progetto e divisione del lavoro stabiliti da Nicola, né ci dicono fino a qual punto il maestro intervenisse in fase di finitura per ottenere l’effetto voluto e rendere le figure e le scene formalmente omogenee. La miracolosa sintesi attuata in quest’opera da Nicola - che riuscì a trasfondere per la prima volta in maniera intensissima nel marmo poesia e realtà, nella naturalezza dei corpi, dei volti, delle vesti, l’espressività comunicativa dei gesti e dei visi - non va a discapito della valorizzazione delle singole individualità dei collaboratori. La critica, infatti, si è provata a discernerne le varie mani e - se non è riuscita a riconoscervi con certezza gli apporti di Lapo e Donato, personalità meno spiccate - ha avuto più agio nel ravvisare quelle di Arnolfo e, appunto, di Giovanni. A lui è spesso assegnato il Cristo mistico, che dialetticamente separa (o raccorda) la specchiatura con la Strage degli innocenti e quella con la Crocifissione: una figura ispirata a un canone di bellezza virile inedito che non trova alcun precedente, nemmeno nel ricchissimo repertorio del padre e di Arnolfo; una figura grandiosa e riservata, introspettiva nell’atteggiamento e concentrata nell’espressione, che annuncia quello che si può definire il suo nuovo “umanesimo emozionato”.

Dal 1270 il ruolo di Giovanni nella bottega diventa più marcato, e perciò la sua mano e il suo “spirito” originale sono un po’ più facili da distinguere. Nel 1273, suo padre fu incaricato di realizzare nel duomo di Pistoia un nuovo altare, dedicato a sant’Jacopo. Non era propriamente un lavoro da scultore, ma semmai da esperto marmorario: niente figure scolpite, ma solo la fornitura di sei specchiature marmoree, di cornici e colonnette e il reimpiego dell’antica mensa; a curarlo potrebbe essere stato forse demandato Giovanni, ormai circa venticinquenne, e fu forse il buon esito di questa commessa a valergli il compito di guidare, in quanto fiduciario del padre, la realizzazione - sempre a Pistoia, in San Giovanni Fuorcivitas, poco dopo il 1273 - di un’acquasantiera ottagonale intensamente figurata, con ben quattro busti femminili nei lati del bacile e tre splendide figure allegoriche accostate per il dorso in funzione di cariatidi. Fu Giorgio Vasari ad attribuirla per primo a Giovanni, e il consenso della critica, da allora, non è mancato.

Nello stesso periodo, per Empoli (Firenze), Giovanni eseguì un’opera in cui, pur facendo riferimento all’arte paterna, seppe trovare una via nuova, personale, al naturalismo. Si tratta di una Madonna col Bambino entro un clipeo: un soggetto devozionale - si direbbe - di ordinaria amministrazione. Se ne ignora la collocazione antica, ed è un peccato, perché il disco marmoreo, incorniciato da una semplice modanatura, non è concepito come un mero piano di fondo; si presenta infatti come una finestra circolare. Le figure sono rifinite e lisciate (e questo le rende evidenti, presenti), il fondo no (il che lo rende indeterminato, “atmosferico”): sembra un oculo aperto in una parete da cui la Vergine si affacci leggermente per mostrare Gesù a qualcuno che sopraggiunge da destra; qualcuno che il Bimbo guarda e, col braccio enfaticamente proteso e la grande mano alzata, benedice. Il nobile volto di lei, florido, serio e intenso, e la naturalezza infantile di lui (il nasino, la boccuccia morbida e le guance piene, i piedini anatomicamente ineccepibili) sviluppano senz’altro tematiche e modelli nicoliani, ma in maniera creativa.


Crocifisso (1275 circa), particolare.

Anonimo scultore francese e Giovanni Pisano, Angelo in veste di diacono che ostende la testa di san Giovanni Battista (1250 circa / 1275 circa); Pistoia, Museo dell’Antico Palazzo dei vescovi. Il diacono, di anonimo scultore francese, è stato realizzato verso il 1250; la testa del Battista, di Giovanni Pisano, verso il 1275.

È forse il 1270 (o poco dopo: Giotto è ancora un bimbo…), e Giovanni è ormai una personalità artistica non solo originale, ma tanto robusta da permettersi di tenere nei confronti della lezione paterna lo stesso atteggiamento che adottava (e sempre manterrà) verso i modelli classici: guarda al padre come guarda all’Antico: non per cercarvi un modello prescrittivo, da imitare, ma una libera norma, cui riferirsi dialetticamente. Nel clipeo di Giovanni il contrasto tra la conduzione scultorea delle figure, il loro complesso atteggiarsi e la semplicità di cornice e fondo inaugura un nuovo modo di percepire la realtà e di raffigurarla fondato sulla nozione di “spazio”. Il tondo empolese è davvero - diremmo oggi - una scultura “pensata in 3D”, in cui sorprende inoltre il nesso sentimentale ed emozionale che lega le figure scolpite allo spettatore; o, meglio, al committente, che non è rappresentato ma alla cui sottintesa presenza la Madre e il Figlio fanno riferimento, nel guardarlo, accoglierlo, benedirlo.

Se nell’epigrafe del suo pulpito pisano, a fine carriera, Giovanni si glorierà di saper foggiare figure ugualmente splendide tanto in oro quanto in pietra e in legno, stranamente dimenticherà di menzionare l’avorio, che era un materiale assai più apprezzato nell’oltralpe gotico (come lo era stato nell’Antichità, a Bisanzio, e nel primo Medioevo) che non nell’Italia del XIII secolo. Anche in questo campo raggiunse subito - siamo nei primi anni Settanta - vertici di innovazione e qualità altissimi, creativamente in linea con gli esemplari che soprattutto dalla Francia capetingia giungevano in Toscana e in Italia, molto spesso nel bagaglio dei grandi dignitari ecclesiastici, sempre in movimento fra la corte papale romana e quelle dei sovrani europei.

La sua più antica prova nota in questo materiale è già un capolavoro: un piccolo Crocifisso (collezione privata), oggi purtroppo mutilo di parte delle gambe e delle braccia. Intagliato con sciolta disinvoltura tecnica, rivela la volontà di Giovanni di proporre il tema del Cristo in croce in una chiave personale, più tesa, patetica e commovente rispetto alle prove paterne (le Crocifissioni dei suoi due pulpiti): a un volto nobile e sereno, più esausto che sofferente nell’espressione, con barba e chiome composte e fluide, fanno riscontro un corpo magro e un perizoma ricco di pieghe in conflitto e braccia - lo dichiara la spasmodica tensione dei muscoli pettorali - protese in alto, a contrastare la forza di gravità che trascina in basso questo corpo sottile ma teso. La coscienza empirica di questo fenomeno fisico si riscontra dunque in Giovanni una ventina d’anni in anticipo sulla prima (e ben più coerente) manifestazione pittorica di quest’effetto naturalistico, nella giovanile croce giottesca di Santa Maria Novella a Firenze.

Portato, per carattere ed educazione, a entrare in sintonia con lo “spirito” profondo dell’umanesimo gotico europeo, dà vita a un micro-capolavoro di quella che allora era davvero “arte contemporanea”. Facile, dunque, riscontrare come anche in questo campo specifico non gli mancasse il successo, anche se a dimostrarlo resta (Museo dell’Opera del duomo, Pisa) ormai solo la stupefacente Madonna col Bambino, frammento di un articolato dossale (i documenti lo designano solo come “opus heburneum”, ma non vi saranno mancate applicazioni in metalli preziosi, ornati policromi, dorature) che negli ultimi anni del secolo gli fu commissionato per l’altar maggiore della cattedrale di Pisa. Ed è doloroso immaginare che un buon numero di altri lavori in avorio usciti dalle sue mani sia andato distrutto senza nemmeno lasciar traccia documentaria.

Il suo dialogo con la cultura artistica della Parigi di Luigi IX (la cosiddetta “Paris rayonnante”) fu intenso e multiforme, tanto che non è mancato chi ha creduto che per aggiornarsi avesse viaggiato verso il Nord e addirittura avesse lasciato tracce del suo passaggio, o del suo influsso, in alcuni cantieri gotici della Francia settentrionale: a Auxerre, per esempio, o ad Amiens. Ma le cose andarono in modo meno meccanico, e più facilmente furono opere di quella provenienza, recate in Toscana per vie non documentate, a costituire i suoi “testi” di riferimento; non solo piccoli oggetti (avori, oreficerie, sigilli, stoffe) ma anche statue di buone dimensioni. Proprio a Pistoia venne recato verso il 1270 un Angelo ligneo, capolavoro del filone più classicista del naturalismo gotico parigino contemporaneo. Fu affidato a Giovanni Pisano perché lo rendesse in grado, modificandone le mani, di mostrare un piatto recante l’imponente testa mozzata di san Giovanni Battista: tutto per poter riadattare la statua a una nuova e più importante funzione devozionale all’interno dell’edificio cittadino - il battistero di San Giovanni in Corte - cui un soggetto del genere perfettamente conveniva. Considerandola nella prospettiva delle sue opere successive, lo scultore elaborò in questa impressionante testa “di carattere” una tipologia umana che, con le opportune variazioni e accentuazioni espressive, di volta in volta si ritroverà, prima, in certe figure della fontana di Perugia e, poi, nelle colossali statue della facciata del duomo di Siena e in un piccolo Crocifisso ligneo proveniente dalla cattedrale senese.
Nel corso dell’ottavo decennio del secolo si aprì per Giovanni una nuova stagione artistica, quella della statuaria o, meglio, della scultura architettonica di taglia monumentale, e in questo campo colse da quel momento, tra Pisa e Siena, risultati straordinari, che nessuno scultore italiano, fino a Donatello, poté eguagliare. La bottega di Nicola era impegnata già dagli anni Sessanta nel battistero pisano, ancora incompiuto all’esterno dopo gli interventi guidati da Diotisalvi (seconda metà del XII secolo) e poi dalla maestranza dei Bigarelli, che nel 1246, chiusi i lavori del fonte battesimale, lasciò spazio più tardi a Nicola.


Veduta generale del battistero di San Giovanni a Pisa.

San Giovanni con l’aquila (1270-1280 circa), dal loggiato del battistero pisano; Pisa, Museo dell’Opera del duomo.

Figura femminile (Ballerina) (1270-1280 circa), dal loggiato del battistero pisano; Pisa, Museo dell’Opera del duomo.

Fu una vera modernizzazione: l’idea del loggiato romanico fu ripresa nel secondo ordine, ma arricchita con dettagli di nuova concezione e ghimberghe di marca “parigina”. Una scultorea umanità conquistò gli elementi architettonici: grandi figure a mezzo busto furono dislocate entro le ghimberghe, busti umani nelle basi e mascheroni nelle chiavi delle arcate: decine di visi, molti dei quali con fisionomie verosimili se non addirittura ritrattistiche, i cui modelli non sembrano essere più soltanto ricercati nella classicità, ma anche nella natura, se non addirittura nella città. In questo contesto, la creatività, il piglio e i modi di Giovanni hanno modo di spiccare sia in alcune statue a tutto tondo poste a coronamento delle ghimberghe sia in busti di taglia colossale che ne rivelano le capacità tecniche, la sintetica disinvoltura esecutiva e il temperamento drammatico: la greve e arcaica, ma psicologicamente intensa Madonna col Bambino, alcuni Profeti e gli Evangelisti, tra cui spiccano un severo, supercilioso San Giovanni in dialogo muto con l’aquila e un dinamico San Marco, che deve ancheggiare per sostenere in equilibrio sulla spalla e sul braccio il suo pesante leoncello, di cui i suoi occhi cercano lo sguardo.
Ricavate nel grigiastro calcare locale, detto di San Giuliano, concepite per esser viste da lontano e forse in origine colorate, sono esposte nel Museo dell’Opera pisano; molte sono mutile, gravemente consunte dalle intemperie, e nonostante ciò ancora oggi stupiscono lo spettatore per la tensione formale, la complessità del ritmo compositivo, le accentuazioni drammatiche ed espressive: esempio efficace diquesti indirizzi di ricerca, tutti innovativi nel panorama della scultura italiana e in piena sintonia con le tendenze del Gotico europeo è la statua della cosiddetta Ballerina, una figura femminile che, pur acefala, sprigiona una grazia a un tempo ostentata e ritrosa, suntuosa e semplice, e una naturale morbidezza del seno che la rendono una vera e propria “icona” dello stile di Giovanni Pisano.
Concluso questo gravoso impegno pisano, uno di rilievo in Umbria vide impegnata la bottega di Nicola. Arnolfo se n’era staccato ormai da diversi anni, mettendosi a disposizione, fra Roma e Viterbo, di committenti prestigiosi: papi (da Adriano V a Bonifacio VIII), esponenti della Curia e il re di Napoli, Carlo d’Angiò, che nel 1277 gli permise di allontanarsi da Roma e di recarsi a Perugia per fornire il proprio parere di “mirabilis artifex” in merito alla fontana monumentale (detta Fontana maggiore per distinguerla da quella “pedis plateae”, realizzata da Arnolfo stesso poco più tardi) che il Comune intendeva erigere in un’area pianeggiante tra la cattedrale e il Palazzo pubblico. L’impresa fu decisa verso il 1276: Fra Bevignate ne fu il responsabile “politico”, il veneziano Bonaventura l’ingegnere idraulico; collaborava anche un bronzista, Rubeus, che fuse la stupenda tazza, sorretta da tre classicistiche cariatidi, con cui la fonte culminava (il gruppo è conservato oggi nella Galleria Nazionale dell’Umbria). Progettata da Nicola, fu conclusa due anni dopo col contributo preminente di Giovanni, che governò l’esecuzione del suo ricco e complesso sistema decorativo (ventiquattro statue, cinquanta rilievi, ventiquattro colonne, ventiquattro lastre incorniciate e altro ancora).
Fu un lavoro complesso, nell’architettura generale, con due bacini sovrapposti, e negli aspetti figurativi, anche perché il suo enciclopedico programma iconografico non aveva puntuali precedenti figurativi, ma solo letterari, cui riferirsi. Esalta le origini di Perugia e la celebra come città romana e cristiana, coi suoi mitici fondatori e i suoi santi patroni, che la proteggevano e la promuovevano in un presente di prosperità e di colta rettitudine, i cui garanti e i guardiani erano il capitano del popolo, Matteo da Correggio, ed Ermanno da Sassoferrato, il podestà, qui rappresentati con le loro fattezze naturali (forse ancora da Nicola, piuttosto che da Giovanni) in due statuette che sono tra i primi veri ritratti della storia dell’arte italiana.
Dopo il 1278, di Nicola non si ha più notizia e nel 1284 risulta già morto: fu dunque l’ultima opera commissionata a lui e la prima che Giovanni abbia diretto in autonomia. Le firme dei due artisti, entrambi col titolo di “magister”, compaiono insieme nell’epigrafe celebrativa, che certifica dunque il subentrare del figlio al padre non solo nella direzione di quel lavoro ma, più in generale, nella gestione della bottega.


Nicola e Giovanni Pisano, Fontana maggiore (1275-1278); Perugia, piazza IV Novembre.

Fontana maggiore (1275-1278), particolare del gruppo bronzeo delle Cariatidi che sovrastava la tazza; Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria.


Fontana maggiore (1275-1278), particolare delle specchiature con Astrologia e Filosofia; Perugia.


Fontana maggiore (1275-1278), Giovanni Pisano, particolare delle specchiature con Aquile; Perugia. A queste specchiature con magnifiche aquile ad ali spiegate è legata l'epigrafe in cui Giovanni appone il proprio nome, per la prima volta con la qualifica di "magister" su un'opera di cui va orgoglioso.

Questa fase si conclude, intorno al 1280, con un paio di opere, una in pietra e una in legno, ancora una volta, innovative. La prima è la Madonna col Bambino a mezza figura destinata alla lunetta della porta ovest del transetto destro del duomo pisano: una creazione di grande forza plastica ma serenamente equilibrata, in cui Giovanni esplora le possibilità espressive del tema “del colloquio”: gli sguardi della madre e del figlio si intrecciano in un dialogo muto ma esplicito nel manifestare insieme profondi contenuti teologici e valori umani intensi e, per il pubblico, coinvolgenti. Quelli che, in un diverso registro espressivo, caratterizzano anche la seconda, un Crocifisso, oggi nel pisano Museo dell’Opera del duomo. È il più antico della decina di opere in legno di questo soggetto che la critica gli riferisce su basistilistiche, in mancanza di documenti e di notizie sulla provenienza: una figura emaciata nel volto come nel corpo, tesa sulla croce, con le gambe che scartano leggermente rispetto al tronco. La bocca, dischiusa nell’ultimo respiro, mostra drammaticamente i denti: la rottura con la tradizione romanica è netta, come l’accento  sull’umanità del Cristo, funzionale a un tipo di fruizione più introspettiva che in passato. Dopo queste opere, si apre nel 1285 la lunga stagione del trapianto a Siena.

Fontana maggiore (1275-1278), Nicola e Giovanni Pisano, particolare con Ermanno da Sassoferrato; Perugia. La raffigurazione fisionomica del podestà cittadino nel parapetto della vasca superiore suggella la dignità di “monumento civico” della fontana pubblica, emblema di benessere e concordia civica.


Madonna col Bambino (Madonna del colloquio) (1280 circa); Pisa, Museo dell’Opera del duomo.


Crocifisso (1280 circa); Pisa, Museo dell’Opera del duomo.

GIOVANNI PISANO
GIOVANNI PISANO
Clario Di Fabio - Gianluca Ameri - Francesca Girelli
Giovanni Pisano (Pisa 1248 - Siena 1315 circa) è uno dei grandi protagonisti della rinascita delle arti in Italia tra XIII e XIV secolo. Scultore e architetto, si forma col padre Nicola a Pisa nel cantiere del battistero di Pisa, in quello del duomo di Siena e della Fontana maggiore a Perugia. Subentra al padre nella guida della bottega e conduce imprese importanti a Siena, a Pistoia (dove lascia il suo capolavoro nel pulpito di Sant’Andrea), a Pisa (pulpito del duomo), a Padova. La sua scultura rinnova il linguaggio artistico italiano fondendo la tradizione di solida monumentalità di origine romanica con la grazia stilizzata e decorativa della scultura gotica francese.