Rispetto a colleghi e competitori, Giovanni aveva un gran vantaggio: era figlio di quel Nicola Pisano che fra il 1250 e il 1280 circa fu lo scultore italiano più celebre, più richiesto, più innovativo nel perseguire, studiando i modelli classici, l’intenzione (già manifestata da Federico II) di «rappresentare […] le cose che sono come sono»; nel riscoprire, in altri termini, quel principio di realtà che aveva ispirato l’arte antica e ora veniva informando la cultura figurativa del Gotico europeo.
Giovanni si formò dunque in una bottega speciale, strutturata per operare su più fronti di committenza (Pisa, Siena, Bologna, Perugia) e in più luoghi nel contempo, in cui lavoravano giovani geniali: il fiorentino Arnolfo di Cambio, destinato a uno spettacolare successo, e dotatissimi collaboratori: Lapo di Ricevuto, Donato e soprattutto Fra Guglielmo.
Crescere in un contesto del genere era per lui un’occasione unica per impadronirsi dei segreti del mestiere, un vantaggio impagabile, ma anche un costante assillo: dover imparare rapidamente, migliorarsi e distinguersi sempre, col precoce obbligo di legittimarsi davanti a colleghi e committenti quale futuro erede di quella bottega, di quella posizione, di quel prestigio, era una condizione psicologicamente scomoda. Che tutto ciò generasse in lui anche ansie, si può immaginare senza sforzo, ma che fosse orgoglioso di avere per padre un artista di quel calibro è certo, perché mai - fin quasi alla morte - cessò di firmarsi «maestro Giovanni, figlio di maestro Nicola, pisano».
Fu incaricato di imprese grandiose da committenti prestigiosi (le Opere del battistero e della cattedrale di Pisa, l’Opera del duomo di Siena - città in cui divenne una sorta di “artista civico” -, il ricchissimo Enrico Scrovegni, l’imperatore Enrico VII), ma dai documenti si constata che nella gestione di impegni complessi e di figure professionali diverse non riusciva a dare il meglio di sé, e innescava situazioni ardue da gestire (come a Siena, da cui dovette allontanarsi, e a Pisa, dove entrò in aperto conflitto con l’Operaio del duomo, Burgundio di Tado).
C’entrava anche il carattere, forse, e non a caso è stato definito, di volta in volta, un personaggio «mercuriale» o «saturnino», dalla personalità «faustiana», «un invasato dell’arte»; guardando allo stile delle sue sculture, se n’è predicata una presunta «folle asprezza», fino a crederlo - con troppo spinta attualizzazione - «espressionista». Ma il suo malessere derivava soprattutto dalla coscienza della precaria stima sociale del suo ruolo, del suo lavoro, del suo peculiare “genium” creativo: era considerato e pagato meno dei pittori, e “a giornata”, come un operaio, e ne soffriva perché si sapeva artista, dimostrando con ciò un’autocoscienza di cui diede non rare testimonianze. In questo, fu un vero uomo del suo tempo: il tempo di Dante, segnato dall’irruzione di una nuova soggettività, da Giovanni espressa nella forma immediata delle firme apposte alle sue opere, tra le quali spicca la lunga epigrafe del pulpito pisano, una delle sue ultime - e stilisticamente più “estreme” - opere: «Giovanni pose qui attorno i fiumi e le parti del mondo, tentando con duro lavoro tutte le numerose vie dell’arte e generosamente proponendo modelli [da imitare]. E ora grida a gran voce: “Non mi sono premunito a sufficienza, perché quando ho cercato novità più grandi, allora ho sofferto maggiori ostilità e danni. Ma con animo sereno sopporto in cuor [mio] la pena della mia remissività”. Affinché io [il pulpito] possa allontanare da lui [Giovanni] il livore dei suoi nemici, mitigargli il dolore e ottenergli fama, aggiungi ai miei versi anche questo conforto: che chi biasima un uomo degno d’onore mostra se stesso indegno: così, procurandosi biasimo, onora proprio colui che intende disapprovare».
Come per Dante (e per Petrarca), anche per Giovanni Pisano l’opera d’arte era, a suo modo, autobiografia. Proprio questo suo assertivo protagonismo sconcertò vari suoi contemporanei, e anche, da Vasari in avanti, i biografi, che, paragonandolo al padre, colsero spesso in lui, con un piglio “anticlassico”, tensioni e conflittualità che spiazzavano e spiacevano. Ma la sua condizione e i suoi comportamenti sociali non erano, dopo tutto, che quelli di un borghese di discreta agiatezza, qual era: riceve eredità (non solo da suo padre), ha proprietà immobiliari e fondiarie a Pisa e a Siena (che gli abbuona le tasse relative), presta a interesse cifre di un certo rilievo. Non ragionava come un uomo del Medioevo: per lui, il valore e la rispettabilità sociale di un lavoro si misuravano anche in termini monetari. Era, anche in questo, un “uomo nuovo”.