I CANTIERI DELLA MATURITÀ
(1284-1301)

Clario Di Fabio


«Le quali fabriche cominciate e tirate assai bene inanzi, si partì Giovanni di  Napoli per tornarsene in Toscana; ma giunto a Siena, senza essere lasciato passare più oltre, gli fu fatto fare il modello della facciata del Duomo di quella città: e poi con esso [fu] fatta la detta facciata ricca e magnifica molto».

Un lungo antefatto precede, nelle Vite del Vasari, l’arrivo di Giovanni Pisano a Siena: una narrazione - da tempo smentita dalla critica - che proietta su di lui (e su Nicola) notizie ora errate, ora relative ad altri artefici, come Arnolfo di Cambio, che lavorò per Carlo d’Angiò mentre questi si fregiava del titolo di senatore romano, o Giotto, che a Napoli andò davvero, tempo dopo; oltre ad accreditargli opere poi attribuite a discepoli, come Lupo di Francesco. A dispetto della limitativa sbrigatività del Vasari, quello senese fu per lo scultore alle soglie dei quarant’anni - il banco di prova più sfidante, e più prestigioso: culmine della lotta per il predominio nel Mediterraneo occidentale, la sconfitta contro i genovesi dell’agosto 1284 alla battaglia della Meloria avviò infatti per Pisa una fase di crisi, acuita nel 1290 dalla distruzione del porto. Alla stasi dei suoi cantieri più rilevanti rispondeva la vivacità di Siena, raffinato centro artistico e polo manifatturiero, terminale di commerci di lusso con le principali “piazze” europee. Qui, proprio nel 1284, si finì di demolire la facciata vecchia della cattedrale, e si posò la prima pietra della nuova; nella decisione di affidare a Giovanni un progetto tanto ambizioso dovette pesare la memoria di Nicola, visto che nei suoi anni senesi - quand’era Operaio il cistercense Fra Melano - s’erano compiuti nel tempio imponenti lavori: l’edificazione della cupola, il rifacimento del coro, e altri ampliamenti che inglobarono il campanile nel nuovo assetto.

A Siena Giovanni arrivò prima dell’ottobre 1284, ed entro il settembre 1285 il Comune gli concesse la cittadinanza e l’esenzione da ogni obbligo fiscale e militare, con un atto cui fu data forza di legge inserendolo nel Costituto, la raccolta statutaria. Si trattava di garantire al «figlio di maestro Nicola» l’agio di dedicarsi a un’impresa sì governata dall’Opera - guidata dal cistercense Magio - ma di primario interesse civico, dunque sorvegliata e finanziata dal Comune stesso.

Platone, dalla facciata della cattedrale senese di Santa Maria Assunta (1284-1297), particolare; Siena, Museo dell’Opera del duomo.

Cattedrale di Santa Maria Assunta, veduta della facciata; Siena.



Colonna, dalla facciata della cattedrale senese di Santa Maria Assunta (1284-1297); Siena, Museo dell’Opera del duomo.


Platone, dalla facciata della cattedrale senese di Santa Maria Assunta (1284-1297); Siena, Museo dell’Opera del duomo.

La centralità nel cantiere venne sancita con l’attribuzione dell’inedito ruolo di capomastro, con cui egli è ricordato il 3 aprile 1287, quando i lavori dovevano essere già in atto; tanto più che si decise anche di aggiungere una campata al corpo di fabbrica preesistente. Giovanni forse vi sovrintese; certo concentrò le sue energie sul nuovo prospetto: se è probabile che abbia partecipato con altri “sceneggiatori” ecclesiastici e laici all’elaborazione del programma iconografico, fu chiaramente sua la responsabilità di dargli una compiuta organizzazione strutturale e figurativa. Nella città che il 3 settembre 1260, prima della battaglia di Montaperti, s’era dedicata alla Vergine, la nuova facciata della cattedrale intitolata all’Assunta fu intesa come una grandiosa “scena” su cui intrecciare il tema mariano a quello cristologico; anche se Giovanni arrivò a realizzare solo la porzione inferiore, che giunge fino alla cornice marmorea su mensole corrente sopra le ghimberghe dei portali, il suo progetto era globale, e l’architettura e la scultura vi contribuivano a pari grado, per mezzo di soluzioni inedite e potentemente espressive. Detto ciò, occorre avvertire che una sequela di sostituzioni, restauri e rifacimenti su tutta la facciata, iniziata già ai primi del Settecento e proseguita fin nel secolo scorso, ha lasciato in sito ben poco dei materiali originali - ricoverati in parte presso il Museo dell’Opera senese -, dando peraltro adito a fraintendimenti. Il tema architettonico del primo ordine ad andamento orizzontale scandito da accessi alternati ad arcate cieche, proprio della tradizione toscana, fu aggiornato da Giovanni Pisano in una coerente versione “rayonnante” inserendo tre portali dai profondi strombi scolpiti, stagliati su un parato di pietre policrome e legati tra loro in forte continuità visiva da un sistema di capitelli, membrature e mensole; gli spigoli laterali sono rinforzati per reggere delle torripilone, gremite di ghimberghe, statue, trafori. Il portale centrale è sottolineato sia dalla maggiore altezza, sia soprattutto da due splendide colonne a racemi, figure e scene bibliche poste sui plinti più avanzati dello strombo, oggi nel Museo dell’Opera di Siena, e da un architrave figurato con Storie di Gioacchino e Anna e dell’infanzia della Vergine, attribuito ad aiuti.

Sibilla Eritrea, dalla facciata della cattedrale senese di Santa Maria Assunta (1284-1297); Siena, Museo dell’Opera del duomo.


Simeone, dalla facciata della cattedrale senese di Santa Maria Assunta (1284-1297); Siena, Museo dell’Opera del duomo.


Maschera di Sileno (1284-1297); Siena, cattedrale di Santa Maria Assunta, ordine inferiore della facciata.

Immediatamente al di sopra, una fascia di imposta per gli archi dei portali ospita sei fiere (due Cavalli impennati agli estremi, poi a rientrare un Bove alato e un Grifone - rifatto nell’Ottocento come Leone - e, sopra le colonne ai lati dell’accesso centrale, due Leoni), di significato allegorico. Nella lunetta del portale maggiore si trovava un gruppo scultoreo, sostituito nel Settecento e disperso, ma testimoniato in due affreschi di Domenico di Bartolo e di Priamo della Quercia nel Pellegrinaio dell’antistante Spedale di Santa Maria della Scala (1441-1442) e poi dallo storico cinquecentesco Sigismondo Tizio: una Madonna col Bambino, posta al centro, era affiancata da due Angeli che le presentavano le figure genuflesse del Capitano del popolo Bonaguida Lucari in atto di offrire le chiavi della città, e della stessa Siena personificata. Dopo questa scena, dall’evidente valore civico, il discorso procedeva sul registro superiore, affidato - con una scelta inaudita anche nelle cattedrali d’oltralpe - a quattordici statue a tutto tondo di Profeti, Sibille e Filosofi poste entro i rincassi delle finte edicole gotiche a ghimberghe, che a partire dai fianchi esterni delle torri laterali scandiscono tutto il prospetto. Nell’Ottocento le statue furono sostituite da copie, ma alterandone la posizione e non impedendo che una di esse venisse venduta; s’è dunque scompaginato il discorso di annuncio della venuta di Cristo che le figure intrattenevano con l’ausilio di cartigli inscritti. Aggeo (oggi al Victoria and Albert Museum, ridotto a mezza figura), Isaia, Balaam, Platone, Daniele, la Sibilla eritrea, David, Salomone, Mosè, Gesù di Sirach, Abacuc, Simeone, Miriam (?) e Aristotele - questa la successione proposta dalla critica - si guardano come dialogando tra loro - e, in quattro casi, con lo spettatore -, in moti veementi d’ispirazione divina, calcolati in base al punto di vista dal basso; la resa delle fisionomie ascetiche, ma potentemente veridiche, dei corpi plasticamente atteggiati in vesti solcate da pieghe ora riposate e morbide, ora profonde e dai vigorosi effetti di chiaroscuro, come lo stesso trattamento abbreviato del marmo, con un sapiente uso del trapano, ottiene un effetto di presenza che par studiato per inverare - attraverso i secoli - l’attualità del loro annuncio cristologico, marcando l’apice d’una ricerca stilistica pienamente individuale e collocando queste statue tra le realizzazioni più alte di tutta la scultura gotica europea. Tanto più perché vi agiva una evidente sfida verso l’Antico, che del resto potrà valere come una delle chiavi interpretative di questa porzione di facciata: nella più eminente fabbrica della città che per “mito delle origini” si voleva fondata dai pretesi figli di Remo, Aschio e Senio, Giovanni attualizzava - ovvero, interpretava in forme gotiche e in senso cristiano - un vero archetipo come l’Arco di Costantino, in una citazione creativa dei suoi elementi compositivi che includono, nella parte sommitale, una teoria di statue a tutto tondo - i Prigionieri daci, cui pure Nicola Pisano aveva attinto quali modelli per due figure della fronte dell’Arca di san Domenico nell’omonima chiesa bolognese. Così potranno spiegarsi altre presenze, come i Cavalli impennati che sembrano citare direttamente quelli dei cosiddetti Dioscuri di Monte Cavallo, o come l’impressionante Maschera di Sileno che affaccia dalla chiave della prima ghiera d’arco del portale nord. 
Il tema della “romanitas” senese fu, peraltro, trattato in città in varie versioni della Lupa allattante: una, di incerta provenienza e oggi nel locale Museo dell’Opera, ha una dibattuta attribuzione a Giovanni, che se non altro ci ricorda come a Siena egli sia stato coinvolto in altre imprese, di cui abbiamo parziali testimonianze materiali e documentarie. Se nel 1290 una pesante condanna, di cui non conosciamo il motivo, gli veniva commutata in una multa di ben ottocento lire - poi pagata dall’Opera - perché il “magister” era “necessario” a condurre a buon fine il cantiere del duomo, nel 1295 egli aderì alla “compagnia” laica di devozione dei Raccomandati al Santissimo Crocifisso; lo stesso anno veniva ricordato in una commissione di artisti - tra cui Duccio di Buoninsegna - che doveva stabilire dove edificare la Fonte del Piano d’Ovile; e nel 1296 - sistemati alcuni affari a Pisa - fu pagato dal Comune per sovrintendere a lavori al Bagno di Petriolo. È molto probabile che agli anni senesi vada assegnato il Crocifisso ligneo del Museo dell’Opera di Siena, il più integro della serie, in cui la ricerca fisionomica è più sensibile, e il rapporto con lo spazio si fa più complesso per lo slancio che tende la figura, mossa per contrapposti e avvolta in un assorto patetismo. Per ragioni formali, è presumibile che nei medesimi anni - o, al più tardi, entro i primissimi del secolo successivo - si collochi il rilievo di San Pietro in collezione Salini: quale fosse la sua collocazione prima - a Siena o altrove - è arduo immaginare, e se in città le occasioni non mancarono, sembra difficile possa essersi trattato del nuovo battistero, la cui costruzione venne decretata dai Signori nove nel 1296, secondo il progetto che avrebbe dovuto disegnare il “capomagistrum” Giovanni, o un altro.

Crocifisso (1284-1297); Siena, Museo dell’Opera del duomo.

Crocifisso (1284-1297), particolare; Siena, Museo dell’Opera del duomo.

Madonna col Bambino (1298-1299); Pisa, Museo dell’Opera del duomo.


Pulpito (1298-1301); Pistoia, Sant’Andrea.

Se a questa fondazione il pisano non lavorò, il cenno ad “alios magistros” fa intravedere una pluralità di presenze nel cantiere del duomo: come Ramo di Paganello, tornato nel 1281 da un viaggio oltralpe, considerato «tra i più sottili scultori del mondo» (deliberazione del Gran Consiglio del 20 novembre 1281, che autorizza Ramo a lavorare alla fabbrica del Duomo) ma in rapporti conflittuali con Giovanni, da cui lamentò d’esser utilizzato per incarichi marginali. O come Camaino di Crescentino, che successe a Giovanni dopo che questi, nel 1297, abbandonò Siena: un’inchiesta dell’Opera, originata dai ritardi nei lavori e dalle eccessive spese, aveva accertato uno sconcertante disordine nel “suo” cantiere, con molti marmi già lavorati ormai rotti, e altri, integri, di cui nessuno più ricordava la destinazione. Lo scultore, le cui responsabilità erano evidenti, fece ritorno a Pisa: qui lo ritroviamo il 14 dicembre dello stesso anno, quando stipulava con Burgundio di Tado, nuovo Operaio della cattedrale, i “pacti” per essere assunto come capomastro. Lo attendevano, anzitutto, imprese di varia portata a servizio delle fabbriche della piazza (oggi dei Miracoli) per cui si avvalse di aiuti; e altre che invece possiamo documentare come di sua esclusiva pertinenza. È il caso della Madonna col Bambino intagliata in avorio, esposta nel Museo dell’Opera pisano: fu certamente parte dell’“opus heburneum” commissionatogli dal capitolo, già iniziato quando Giovanni, in un atto del 5 giugno 1298, si impegnava a finire il lavoro entro il Natale. Spettacolare già per dimensioni (cinquantatre centimetri di altezza), l’opera era accompagnata da altre “ymagines”, e non solo: gli inventari della cattedrale del 1369 e del 1433 le affiancano due Angeli con ali in metallo, e la collocano entro un tabernacolo in legno dorato che si inseriva in mezzo a una “tabulam” eburnea a scomparti, figurati con Storie della Passione. Un altro inventario, del 1313, potrebbe riferirsi a questo quando cita una «icona» della Vergine che si poneva sull’altare maggiore nei giorni festivi: confermando che si trattava di un apparato mobile, tipologia di arredo che guardava a corrispondenti esempi francesi e tedeschi e non è documentata con tanta chiarezza in altri contesti italiani. Non per questo Giovanni rinunciò a interpretare i prototipi con il suo stile personalissimo, la cui forza risalta anche se, nel 1634, il capitolo pagò lo scultore Giovanni Battista Riminaldi per aver rifatto la testa e un braccio del Bambino, poi una mano e un piede della Madonna, e «più pezzi di panni», oltre al piedistallo in ebano che serve anche da reliquiario. Segno che con i “pacti” del 1297 dovette esser concessa a Giovanni una libertà operativa piuttosto ampia sono le assenze da Pisa, desumibili dai registri di entrata e uscita dell’Opera: la più vistosa va dal novembre del 1299 allo stesso mese del 1301, e corrisponde senz’altro al periodo che lo scultore dovette trascorrere a Pistoia, per realizzare il pulpito della pieve di Sant’Andrea. Per antica tradizione, il prestigio della sede pievana era secondo solo a quello del duomo, e - fatto di non poca importanza - a Pistoia già aveva lavorato Nicola Pisano, come non mancò di rilevare il Vasari, secondo il quale Giovanni avrebbe atteso al pulpito per quattro anni, ossia già dal 1298. L’unico documento a riguardo è l’epigrafe che corre subito sotto le specchiature scolpite: in cui si specifica che l’opera, commissionata dal pievano Arnoldo e finanziata da Andrea Vitelli e Tino di Vitale, fu finita nel 1301; e in cui l’autore, Giovanni «figlio di Nicola», si attribuisce una «sensia» (sapienza) migliore di quella del padre. Se il monumentale arredo occupa la posizione attuale dal 1619 circa, in origine esso si trovava sul lato opposto, presso la penultima colonna prima del presbiterio, e forse in parte poggiante sui gradini di questo. Lo spostamento e il rimontaggio, pretesi dagli usi liturgici posttridentini, furono attuati ruotando il pulpito sul suo asse e variando la disposizione dei sostegni, così che si crearono incongruenze nei rapporti visivi e nei nessi semantici studiati dal “magister” pisano. Il pulpito, a pianta esagonale, è slanciato da snelle colonne e archeggiature ogivali; mentre gli archi di sostegno e le specchiature della cassa sono separati da gruppi scolpiti. Vi si narra il percorso verso la Redenzione, offerta dal Cristo agli uomini: iniziando dal basamento, in cui il Leone con la preda e la Leonessa con i cuccioli - come si è suggerito - più che allegorie cristologiche sarebbero ipostasi della ferinità della vita terrena dopo il peccato originale, tratte dai libri profetici dell’Antico Testamento; alla Caduta rimanderebbe pure lo splendido Atlante-Adamo, gravato dalla fatica e dalla pena del peccato, mentre i tre Animali alati del plinto centrale alluderebbero nuovamente a Cristo, alla sua Ascensione, al suo ritorno per il Giudizio.


Pulpito (1298-1301), particolare con Atlante-Adamo; Pistoia, Sant’Andrea. L’intenso plasticismo della postura, la veridica tornitura del corpo e la drammatica espressività fanno dell’Adamo di Pistoia una delle prove più alte di Giovanni, e di tutta la scultura gotica europea.
Pulpito (1298-1301), particolare con Sibilla; Pistoia, Sant’Andrea.

Pulpito (1298-1301), particolare con la Natività; Pistoia, Sant’Andrea.


Pulpito (1298-1301), particolare con la Strage degli innocenti; Pistoia, Sant’Andrea.


Pulpito (1298-1301), particolare con la Crocifissione; Pistoia, Sant’Andrea.

L’ordine mediano ospita una serie di Profeti (nei triangoli di risulta degli archi) e di Sibille (tra gli archi), memorabili per la tensione cinetica, e mistica, che le anima mentre ascoltano le rivelazioni dei nunzi divini. Passata questa zona, nelle formelle della cassa si dispiegano le Storie cristologiche, dall’Annunciazione al Giudizio finale: come già nei pulpiti paterni, alcune ospitano più episodi narrati “in simultanea”, altre invece un singolo evento. In ognuna, Giovanni offre una mirabile sintesi del suo frasario formale, poetico, e tecnico: libere interpretazioni dall’Antico, studio dei corpi in movimento - qui scalati nello spazio tra fluida continuità e brusche “sprezzature” ritmiche, ancor più evidenti quando il fondo delle lastre era invetriato a tessere policrome -, indagine degli affetti (la disperazione delle madri e la protervia dei carnefici nella Strage degli innocenti, il dolore e il dubbio degli astanti nella Crocifissione, l’estatico rapimento dei beati e il terrore dei dannati nel Giudizio ecc.), evocativa resa del dato di natura (il Bambino della Natività immerso nel sonno), alto senso - spirituale e psicologico - del dramma, esaltato dalle deformazioni calcolate in rapporto al punto di vista dal basso e dal policentrismo della composizione, in cui si aprono lirici squarci narrativi. Una tensione trattenuta innerva la maestosa astanza degli “statuari” personaggi, o gruppi, posti tra le lastre figurate: quello con San Paolo, Tito e Timoteo e l’altro, con il Tetramorfo, erano rispettivamente sormontati dai leggii che oggi si trovano agli Staatliche Museen di Berlino (con il Cristo passo retto da due angeli) e al Metropolitan Museum di New York (con l’Aquila di san Giovanni). Se pure non dovettero mancare gli aiuti - tra i quali, s’è suggerito, Tino di Camaino -, si ritiene che il pulpito sia sostanzialmente autografo; e che dalla sua impronta formale proceda l’interpretazione rinnovata dei restanti Crocifissi lignei giovannei. A partire dai due visibili in Sant’Andrea: uno, posto entro un tabernacolo scolpito cinquecentesco lungo la navata sinistra (destra per chi entra), da sempre attestato nella pieve e, quindi, probabilmente destinatole da subito; l’altro, oggi protetto da una teca sulla parete della navata opposta, invece traslato solo nel 1786 dal vicino oratorio di Santa Maria a Ripalta. Entrambi sono autografi, e rivelano, per mezzo del modellato fine e veridico, la stretta vicinanza alla figura di Cristo del pulpito, disciplinata da una precisione anatomica di spietato naturalismo e di alta tensione poetica.

Leggìo dell’Epistola, dal Pulpito di Sant’Andrea a Pistoia (1298-1301); Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst.

Crocifisso (1298-1301); Pistoia, Sant’Andrea.


Crocifisso (1298-1301); Pistoia, Sant’Andrea (dalla chiesa pistoiese di Santa Maria a Ripalta).

L’impresa pistoiese potrebbe non essere stata la sola prova delle libertà concesse a Giovanni dai suoi committenti principali: da tempo infatti è dibattuto il suo ruolo in due cantieri, quello della cattedrale di San Cerbone a Massa Marittima (Grosseto) e quello della collegiata dei Santi Quirico e Giulitta a San Quirico d’Orcia (Siena), in cui lavori di “ammodernamento” architettonico e figurativo, per motivi diversi assimilabili ai suoi modi, furono condotti proprio tra l’ultimo decennio del Duecento e l’alba del Trecento, ossia già nei suoi anni senesi. Nel primo caso l’allungamento del corpo di fabbrica romanico e il rifacimento dell’abside della cattedrale sono stati assegnati a Giovanni per la presenza del toponimico “Pisanus” dopo il nome - purtroppo eraso - con cui si firma il loro artefice, in una epigrafe murata nella navata destra, in cui sono riportati anche il nome dell’Operaio, Bigallo, e la data d’inizio dei lavori, il 1287. L’analisi del dato epigrafico ha inficiato l’identificazione di questo ignoto maestro con Giovanni Pisano; mentre l’abside poligonale esibisce un lessico architettonico (profondi strombi, alte ghimberghe, cornici scolpite a ritmare l’andamento delle murature in travertino) che ricorda quello della facciata senese, e della decorazione esterna del battistero pisano. Entro la fine della campagna, fissata al 1304, si sarebbe pure completata la facciata con il terzo ordine, provvisto di capitelli e di elementi plastici - oggi musealizzati - che riprendevano tipologie adottate a Siena e a Pistoia (un Cavallo e un Telamone, due Leoni), ma con una conduzione più abbreviata ed esiti di minor qualità. Nel complesso è evidente il rimando a prototipi giovannei, che però non implica necessariamente un impegno diretto del maestro. Senz’altro suo, invece, è il bellissimo Crocifisso ligneo oggi nel Museo d’arte sacra di Massa Marittima (Grosseto), databile al 1300 circa; l’originaria pertinenza all’arredo della cattedrale pare confermata dalla citazione che, negli anni Trenta del XIV secolo, ne fecero gli orafi pisani Meo di Tale, Gaddo di Giovanni, Ceo di Colo e Andrea - identificato in Andrea Pisano - nel Reliquiario della Santa Croce, concepito per lo stesso duomo massetano. Nel secondo cantiere, quello della collegiata romanica di San Quirico d’Orcia, sono i due magnifici Leoni accovacciati e i due Telamoni sull’avancorpo del portale maggiore dei due edificati tra il 1288 e il 1298 sul fianco meridionale (oltre al Telamone più piccolo nella vicina bifora) a evocare la «sensia» di Giovanni: scolpiti nello scabro travertino locale, essi mostrano una spiccata qualità statuaria, in una ricercata varietà di positure, e in un dialettico confronto con l’Antico, che sembrano declinare suoi spunti compositivi e formali; e che, se non direttamente a lui, andranno assegnati a uno scultore che compì il suo alunnato presso la sua bottega. Quasi il simbolo, in fondo, dell’irradiarsi del suo stile; mentre pure dopo Pistoia, nella fase estrema della vita, la sua attività doveva esser ancora feconda di invenzioni e di opere dall’indomita qualità formale.


Abside (1287-1304); Massa Marittima (Grosseto), cattedrale di San Cerbone.


Crocifisso (1300 circa); Massa Marittima (Grosseto), Museo d’arte sacra.


Portale del fianco nord (1298); San Quirico d’Orcia (Siena), collegiata dei Santi Quirico e Giulitta.


Portale del fianco nord (1298), particolare del Telamone di destra; San Quirico d’Orcia (Siena), collegiata dei Santi Quirico e Giulitta.

GIOVANNI PISANO
GIOVANNI PISANO
Clario Di Fabio - Gianluca Ameri - Francesca Girelli
Giovanni Pisano (Pisa 1248 - Siena 1315 circa) è uno dei grandi protagonisti della rinascita delle arti in Italia tra XIII e XIV secolo. Scultore e architetto, si forma col padre Nicola a Pisa nel cantiere del battistero di Pisa, in quello del duomo di Siena e della Fontana maggiore a Perugia. Subentra al padre nella guida della bottega e conduce imprese importanti a Siena, a Pistoia (dove lascia il suo capolavoro nel pulpito di Sant’Andrea), a Pisa (pulpito del duomo), a Padova. La sua scultura rinnova il linguaggio artistico italiano fondendo la tradizione di solida monumentalità di origine romanica con la grazia stilizzata e decorativa della scultura gotica francese.