Immediatamente al di sopra, una fascia di imposta per gli archi dei portali ospita sei fiere (due Cavalli impennati agli estremi, poi a rientrare un Bove alato e un Grifone - rifatto nell’Ottocento come Leone - e, sopra le colonne ai lati dell’accesso centrale, due Leoni), di significato allegorico. Nella lunetta del portale maggiore si trovava un gruppo scultoreo, sostituito nel Settecento e disperso, ma testimoniato in due affreschi di Domenico di Bartolo e di Priamo della Quercia nel Pellegrinaio dell’antistante Spedale di Santa Maria della Scala (1441-1442) e poi dallo storico cinquecentesco Sigismondo Tizio: una Madonna col Bambino, posta al centro, era affiancata da due Angeli che le presentavano le figure genuflesse del Capitano del popolo Bonaguida Lucari in atto di offrire le chiavi della città, e della stessa Siena personificata. Dopo questa scena, dall’evidente valore civico, il discorso procedeva sul registro superiore, affidato - con una scelta inaudita anche nelle cattedrali d’oltralpe - a quattordici statue a tutto tondo di Profeti, Sibille e Filosofi poste entro i rincassi delle finte edicole gotiche a ghimberghe, che a partire dai fianchi esterni delle torri laterali scandiscono tutto il prospetto. Nell’Ottocento le statue furono sostituite da copie, ma alterandone la posizione e non impedendo che una di esse venisse venduta; s’è dunque scompaginato il discorso di annuncio della venuta di Cristo che le figure intrattenevano con l’ausilio di cartigli inscritti. Aggeo (oggi al Victoria and Albert Museum, ridotto a mezza figura), Isaia, Balaam, Platone, Daniele, la Sibilla eritrea, David, Salomone, Mosè, Gesù di Sirach, Abacuc, Simeone, Miriam (?) e Aristotele - questa la successione proposta dalla critica - si guardano come dialogando tra loro - e, in quattro casi, con lo spettatore -, in moti veementi d’ispirazione divina, calcolati in base al punto di vista dal basso; la resa delle fisionomie ascetiche, ma potentemente veridiche, dei corpi plasticamente atteggiati in vesti solcate da pieghe ora riposate e morbide, ora profonde e dai vigorosi effetti di chiaroscuro, come lo stesso trattamento abbreviato del marmo, con un sapiente uso del trapano, ottiene un effetto di presenza che par studiato per inverare - attraverso i secoli - l’attualità del loro annuncio cristologico, marcando l’apice d’una ricerca stilistica pienamente individuale e collocando queste statue tra le realizzazioni più alte di tutta la scultura gotica europea. Tanto più perché vi agiva una evidente sfida verso l’Antico, che del resto potrà valere come una delle chiavi interpretative di questa porzione di facciata: nella più eminente fabbrica della città che per “mito delle origini” si voleva fondata dai pretesi figli di Remo, Aschio e Senio, Giovanni attualizzava - ovvero, interpretava in forme gotiche e in senso cristiano - un vero archetipo come l’Arco di Costantino, in una citazione creativa dei suoi elementi compositivi che includono, nella parte sommitale, una teoria di statue a tutto tondo - i Prigionieri daci, cui pure Nicola Pisano aveva attinto quali modelli per due figure della fronte dell’Arca di san Domenico nell’omonima chiesa bolognese. Così potranno spiegarsi altre presenze, come i Cavalli impennati che sembrano citare direttamente quelli dei cosiddetti Dioscuri di Monte Cavallo, o come l’impressionante Maschera di Sileno che affaccia dalla chiave della prima ghiera d’arco del portale nord.
Il tema della “romanitas” senese fu, peraltro, trattato in città in varie versioni della Lupa allattante: una, di incerta provenienza e oggi nel locale Museo dell’Opera, ha una dibattuta attribuzione a Giovanni, che se non altro ci ricorda come a Siena egli sia stato coinvolto in altre imprese, di cui abbiamo parziali testimonianze materiali e documentarie. Se nel 1290 una pesante condanna, di cui non conosciamo il motivo, gli veniva commutata in una multa di ben ottocento lire - poi pagata dall’Opera - perché il “magister” era “necessario” a condurre a buon fine il cantiere del duomo, nel 1295 egli aderì alla “compagnia” laica di devozione dei Raccomandati al Santissimo Crocifisso; lo stesso anno veniva ricordato in una commissione di artisti - tra cui Duccio di Buoninsegna - che doveva stabilire dove edificare la Fonte del Piano d’Ovile; e nel 1296 - sistemati alcuni affari a Pisa - fu pagato dal Comune per sovrintendere a lavori al Bagno di Petriolo. È molto probabile che agli anni senesi vada assegnato il Crocifisso ligneo del Museo dell’Opera di Siena, il più integro della serie, in cui la ricerca fisionomica è più sensibile, e il rapporto con lo spazio si fa più complesso per lo slancio che tende la figura, mossa per contrapposti e avvolta in un assorto patetismo. Per ragioni formali, è presumibile che nei medesimi anni - o, al più tardi, entro i primissimi del secolo successivo - si collochi il rilievo di San Pietro in collezione Salini: quale fosse la sua collocazione prima - a Siena o altrove - è arduo immaginare, e se in città le occasioni non mancarono, sembra difficile possa essersi trattato del nuovo battistero, la cui costruzione venne decretata dai Signori nove nel 1296, secondo il progetto che avrebbe dovuto disegnare il “capomagistrum” Giovanni, o un altro.