IL RITORNO
ALL'INCISIONE

Vediamole, dunque, queste magnifiche pagine che il nostro autore otteneva incidendo le lastre, poi “tirandone” pochi esemplari, che subito dopo ritoccava con pennellate di colore, ad acquerello o a tempera, creando così tanti mirabili pezzi unici.

Èpossibile ancora ammirarli, basta presentarsi, con qualche credenziale, a Londra, British Museum o Victoria and Albert Museum, e si può ottenere che in stanzette riservate ci si affidi qualche esemplare di queste mirabili sintesi, dove avviene il matrimonio tra scrittura e pittura, anche in ciò anticipando gli esiti delle tavole parolibere futuriste, e di tutto lo smisurato arcipelago della poesia concreta, visiva, simbiotica e via elencando, che sono tra i frutti più tipici dei nostri tempi “contemporanei” o postmoderni, forse immemori di quel lontano progenitore.

Si vedano appunto le liriche preziose, l’inno alla tigre (Canti dell’esperienza) o a una Rosa malata. Le parole sono stese in bei caratteri quasi di sapore gotico, come non ritroveremmo certo in qualsivoglia alfabeto concepito per la tipografia, ma soprattutto sono accorpate in blocchetti che si guardano bene dal sottostare alla “gabbia” tipografica, rettangolare, preferendo essere avvolti da tralci squisiti, flessuosi, come se le parole potessero nidificare tra i rami dei vegetali, simili a fiori o frutti di un rigoglioso giardino. Col che, siamo di nuovo a una anticipazione messa in atto dalla nostra fonte inesauribile, con un altro salto con l’asta Blake ci trascina nel cuore della stagione fin-de-siècle, di fine Ottocento, che prenderà il nome di Art Nouveau, o, dalle nostre parti, di Liberty, con grande esibizione del cosiddetto fitomorfismo, cioè di forme ispirate al mondo dei “phytà”, detto in greco, delle piante. Che sono proprio quegli aspetti di legame col mondo degli organismi cui la rivoluzione di Gutenberg aveva opposto un netto rifiuto.


Frontespizio dal Libro di Urizen (1815 circa); Washington, Library of Congress. La prima edizione con il titolo Il primo libro di Urizen è stata pubblicata nel 1794.


Una pagina da America. Una profezia (1793), con la raffigurazione di Orc; New York, Morgan Library & Museum.
Esempio tipico di una delle illustrazioni con cui Blake diventava editore di se stesso, procedendo a incidere su lastre sia le parole dei suoi testi, sia le relative immagini. Questo gli permetteva di fare ricorso a caratteri pieni di fascino, corrispondenti all’antica scrittura gotica, quale si usava nei codici stesi dagli amanuensi, e arricchita contestualmente di immagini, dette “miniature”, perché le lettere iniziali erano stese col minio.

Magari, volendo insistere su una chiave di annunci prodigiosi di stagioni a venire, in questa prassi singolare blakeana ci sta pure un presagio dei “writers” di oggi, in ogni caso si tratta di protestare contro il rettangolo, l’angolo retto, le coordinate cartesiane. Mi si permetta di aggiungere, in questa mia tumultuosa prefazione alla statura enorme del nostro autore, un altro elemento che ne ribadisce la coerenza, la fermezza. Era in lui pure una straordinaria capacità mitopoietica, che lo portò a creare delle figure capaci di raccogliere in sé, di concentrare gli esiti di tutta questa straordinaria meditazione.

La prima di tali icone è quella di un vecchione, caratterizzato da una barba candida che gli pende dal volto. A questa sua creatura Blake assegna un nome di totale invenzione, Urizen, su cui i commentatori si sono tormentati per rintracciarne le origini. Queste sembrano portarci in due direzioni. Forse la più probabile sta in un atto d’accusa contro la stagione dei razionalismi e degli illuminismi, che Blake trascina sul banco degli accusati. Che cos’è la vostra (la tua) ragione che avete elevato al rango di divinità suprema, come aveva osato fare proprio la Rivoluzione francese? Altro non è che un essere anziano, già quasi morto, un peso, un ostacolo, col che ritroviamo pure al solito un anticipo del Super-ego, per dirla con Freud, dell’autorità paterna che ci schiaccia, ci assidera, provoca in noi ogni specie di nevrosi, riducendoci allo stato dei cavalli in supina attesa di subire la castrazione.


Gioia di bambino, dai Canti dellÕinnocenza (1789); Washington, Library of Congress.


La divina immagine, dai Canti dellÕinnocenza (1789); Washington, Library of Congress.


La rosa malata (1825 circa), dai Canti dell’innocenza e dell’esperienza (prima edizione, 1794); New York, Metropolitan Museum of Art.

C’è però chi punta su un’altra etimologia, proveniente dal verbo greco “orizein”, il restringere, il racchiudere, da cui l’”orizzonte”, che è proprio quanto ci limita. Da qui è possibile giungere fino al nostro Leopardi, che si può considerare un allievo, per quanto inconsapevole, del grande inglese, ma certo il suo Infinito risponde a tutte le istanze del remoto progenitore. Per fortuna, a fare da contrasto a un simile ruolo raggelante, castrante il generoso e magnanimo Blake fa intervenire subito una figura di compenso, a cui dà di nuovo un nome di invenzione, Los o Orc, quasi evidenti, scoperti anagrammi dei due stessi principi della vita, quella cosmica proveniente dal Sole, inesauribile fonte di energia nucleare e quella degli organismi viventi, il Cor (cuore). Se Urizen è un vegliardo temibile e scostante, come talvolta può essere un padre troppo autoritario, Cor o Sol è il Figlio, un giovane baldo, pieno di energia, che infatti apre le braccia verso i quattro angoli dell’orizzonte.
Per completare la ricchezza di sensi del “sistema” Blake, a questo punto si può cogliere anche un risvolto teologico, infatti Urizen è il Dio biblico, collerico, vendicativo, punitivo, mentre Los od Orc è il Figlio, il Gesù del Vangelo portatore di amore e di perdono, venuto a incoraggiarci, a sostenerci nelle dure esperienze quotidiane.

BLAKE
BLAKE
Renato Barilli
La parola d’ordine, nella produzione e nel pensiero di William Blake (Londra 1757-1827), è “immaginazione”. Attorno a questo concetto costruisce la sua fama di poeta e pittore, e anche di stravagante, mistico cultore della Bibbia come dell’assoluta libertà creativa. Un artista fuori dal coro; vicino, certo, alla sensibilità romantica, ma alla perenne ricerca di quelle che lui stesso definisce “le porte della percezione”, con una definizione la cui fortuna arriverà fino alle esperienze con gli allucinogeni di Huxley e a quelle di un’intera generazione di rocker. Coltiva la sua arte visionaria da autodidatta. Insofferente a ogni accademia, aderisce a tutti i movimenti di ribellione: una figura divisiva e affascinante.