LA PRATICA
DEL "COLLASSO"

È ora finalmente di esaminare le opere visive di questo eccezionale protagonista, che però non si possono intendere a prescindere da un universo di motivazioni dove “tout se tient”.

Come artista propriamente inteso, siamo di nuovo di fronte a una coerenza ferrea di chi respinge tutte le lusinghe del “moderno”, i criteri del realismo-naturalismo, che Blake vede concentrati nella persona di Sir Joshua Reynolds, il dominatore della scena artistica londinese, dall’alto della Royal Academy.

Agli occhi del nostro oscuro, non apprezzato operatore, quell’alto principe delle arti appare come un corruttore, come un pessimo esempio da seguire, tanto da rivolgere un ringraziamento al cielo per averlo reso diverso da quel personaggio. Coraggio estremo di chi, dal basso, dall’oblio, lancia un guanto di sfida contro un personaggio che viceversa siede al vertice della piramide. Ma a dire il vero Blake salva, dalla ecatombe che proclama, due rappresentanti eccezionali del “moderno”, Michelangelo e Raffaello, gli unici da cui accetta di cogliere suggerimenti e ispirazione. Del resto non nascondiamoci che il primo tra i due proprio nel “moderno” godeva di una posizione difficile. Certo, il Vasari non aveva mancato di celebrarlo, ma sappiamo bene che poi il Buonarroti è stato posto in mora, in sospensione nei secoli successivi, per il suo accanito antropocentrismo che lo induceva a trascurare completamente il paesaggio, l’ambiente, l’atmosfera. Il che non si può certo dire per Raffaello, genio totalizzante, ma al nostro artista di lui piacciono le immagini composte, aggraziate, portatrici di equilibrio e simmetria.


Newton (1795); Londra, Tate Britain.


Giuseppe d’Arimatea tra le rocce di Albion (1803-1810); Washington, National Gallery of Art.

Viceversa il nostro artefice è pronto a imprecare contro gli eccessi che la modernità ha saputo raggiungere sulla via di un pittoricismo troppo compromesso con le contingenze. Una testa di turco, un capro espiatorio per lui è Rembrandt, accusato addirittura di dipingere con lo sterco, cioè di far subire alla sacra immagine dell’uomo un eccesso di corrosione ambientale.

Potremmo finalmente entrare in cronaca diretta considerando una incisione che Blake ricava proprio da Michelangelo, Giuseppe d’Arimatea. Prima di venire a una caratterizzazione di quest’opera, vale la pena indugiare ancora in una notizia preparatoria. Blake non ha mai fatto il tradizionale viaggio a Roma che a quei tempi assegnava quasi un titolo professionale agli artisti. Non vi si è recato sia per mancanza di mezzi, sia soprattutto perché preferiva dialogare coi maestri ideali nel segreto delle sue stanze, gli bastava che i loro capolavori gli giungessero attraverso riproduzioni, incisioni eseguite da suoi illustri o anonimi predecessori.

Un tratto tipico di ogni intervento visivo blakeano sta in una tendenza a comprimere le figure, non rispettandone le proporzioni. Il culto delle regole anatomiche è stato il criterio su cui si è retto tutto il “moderno”, col relativo sistema delle accademie, invece la “nuova scienza” di cui Blake è esponente ci dice che i corpi sono fatti di acqua, di vuoto, di interstizi, per cui conviene “collassarli”, come in astronomia si dice delle stelle che si comprimono, in tal modo accrescendo il loro potenziale energetico. Così pure Blake vuole che ogni sua figura sia contratta, schiacciata, il che però la carica di un enorme potenziale energetico. In tal modo egli pratica un tratto assolutamente tipico del “contemporaneo”, quale la deformazione, un intervento sulle misure “corrette” che ne provoca l’alterazione. Su questa via Blake non è stato un iniziatore assoluto, in quanto preceduto da esponenti della generazione anteriore, ognuno dei quali ha praticato in modo simile un suo modulo di deformazione. Füssli, per esempio, ha allungato le figure, rendendole allampanate e smunte, ma in alternativa era anche pronto ad appallottolarle. Goya tendeva a schiacciarle, e così via, la porta d’ingresso all’età contemporanea pretende che in ogni caso non si rispettino le proporzioni “da manuale”.


Dio crea Adamo (1795); Londra, Tate Britain.

Vediamo ora alcune di queste straordinarie stampe blakeane, quando si presentano come pezzi unici, fuori cioè dalle sequenze dettate dagli album illustrativi di libri. Assolutamente tipico Dio crea Adamo, dove il Padre eterno è il solito vegliardo possessivo e assiderante che tiene schiacciato sotto di sé il povero Adamo, secondo una perfetta “profezia” di quanto denuncerà in seguito Freud, dell’istanza genitoriale pronta a castrare il figlio. Da notare che Adamo, a ribadire la sua completa soggezione all’autorità paterna, risulta avvolto tra le spire di un serpente, che però potrebbe essere una ennesima profezia, in questo caso di carattere tecnologico, volta a prefigurare il solenoide, cioè quella spirale che circa un secolo dopo, secondo l’insegnamento del nostro Pacinotti, avvolgendo un elemento meccanico, e ospitando a turno un flusso elettrico e uno magnetico, avrebbe generato un movimento. Da notare ancora le strane radiazioni, simili alle ali di un pipistrello, o alle fragili sagome di un aquilone, che si levano dalla massa contratta del Dio Padre, facendone un emettitore di energia. Inoltre, come sempre, l’artista non si esime dall’arricchire il nudo tracciato grafico con un fitto tessuto pittorico, anche se di ambigua lettura, mare tempestoso o notte corrusca e insondabile.

In un’altra di queste stampe, sempre moltiplicate, ma con l’aggiunta di sapienti tocchi pittorici per ridare a ciascuna di esse un rilievo autonomo, il solito Dio Padre, assiso su un trono che partecipa del suo algore e pertanto diviene anch’esso coperto di ghiaccio, condanna il povero Adamo, protendendo un braccio scheletrico verso di lui ma non è certo il gesto enfatico e generoso del Dio di Michelangelo, bensì soltanto un arido legamento, un tramite per trasmettere anche al povero rampollo lo stesso stato di glaciazione totale.


Dio giudica Adamo (1795); Londra, Tate Britain.
Oltre a evitare, con ricorso a una sapiente manualità, la stereotipia dei caratteri a stampa, introdotti dalla rivoluzione gutenberghiana, Blake otteneva anche il vantaggio di editare tante copie quante gliene venivano richieste dal ridotto gruppo di suoi estimatori.

Però a riscontro di tanto rigore invernale resta il fatto che dalla statua di ghiaccio della divinità parte una palla di fuoco incandescente. Blake non è mai per la quiete e la staticità, quindi, se con una mano contrae e irrigidisce, con l’altra suscita un esubero di tumultuose energie. Che in lui ci sia pur sempre una disistima verso il Vecchio Testamento ce lo dimostra anche l’immagine dedicata a Nabucodonosor, assimilato del tutto a Urizen, a un vecchione privo di forze, strisciante al suolo. Invece, curiosamente, e in contraddizione con una filosofia di condanna di tutta la stagione razionalista-illuminista, un trattamento di favore è concesso a Newton che se ne sta contratto, ripiegato in se stesso, ma con membra abbastanza giovanili e in buona salute, oltretutto insignito della facoltà di brandire un compasso onde poter svolgere i suoi tracciati geometrici. Però il foglio su cui si esercita la sua scienza, dopo un tratto in piano, non tarda ad arricciarsi, la curva tallona al fianco l’angolo retto e tutti i suoi derivati troppo ossequiosi nei confronti dell’angolo retto.


Nabucodonosor (1795); Londra, Tate Britain.

Inoltre l’intera scena è divisa in due da una diagonale implacabile, come se fosse una carta da gioco, con la metà superiore immersa nelle tenebre, quelle stesse tenebre che tante volte incontriamo nei dipinti di Füssli, mentre l’altra metà si concede delle marezzature, ma vaghe e volutamente indecifrabili.
Quello stesso compasso dalle aste rigide, come per una agopuntura, in un’altra stampa viene concesso al solito vegliardo corrispondente a Dio Padre, o a Urizen, in questo caso la barba e la capigliatura canute appaiono scosse come da un vento cosmico che le trascina verso l’esterno (L’Anziano dei giorni, controfrontespizio da Europa: una profezia dove il personaggio rappresenta Urizen che lotta nelle acque del materialismo). Inutile ripetere che a contrasto con questo versante invernale, di inferno ghiacciato, di congelamento delle energie, sottoposte a una implacabile rimozione col solito sapore pre-freudiano, sorge l’immagine radiosa di Orc o Los. E nel suo caso è più che giusto che dal corpo, presentato in totale presenza piana, frontale, parta un fascio di raggi solari. Il Figlio è il nuovo Dio della creazione, egli viene ad annunciare che il regno del Padre e della rimozione è finito, di conseguenza si aprono all’umanità prospettive incoraggianti (Giorno lieto). Forse il regno delle ombre e della morte è stato ancora capace di fare qualche vittima, lo scorgiamo nella stampa intitolata Pietà, dove troviamo il corpo di una giovane steso al suolo, quasi di una Ofelia appena ripescata dalle acque mortali, con carni ancora rosee e una fluente veste candida che ne sottolinea l’innocenza, mentre in questo caso Orc prende le forme di un angelo appunto della pietà, posto a riscontro simmetrico del cadavere, dunque collocato secondo una perfetta orizzontale, anche lui affidato a una carnagione rosea, trascinato da un destriero investito, almeno in questa occasione, di un ruolo salutifero. Che comunque Dio, anche nella versione raggelante di Urizen, possa essere fonte di energia, ce lo dimostra un’altra stampa, in cui Il Signore risponde a Giobbe da una nube di vento. Infatti egli ci appare al centro di un turbine vorticante su se stesso. Volendo, dal turbine si arriva agevolmente alla turbina, così come dal serpente di una incisione già vista si arrivava al solenoide. Ovvero, Blake ha sempre un piede calcato pure sul versante dell’innovazione tecnologica a venire. Il Dio, sia esso in versione biblica o evangelica, ha degli aiutanti, per esempio nella persona di san Michele, che in un’altra stampa arriva addirittura a imprigionare Satana, e ancora una volta i due sono coinvolti entro un medesimo circuito, danno luogo a una coppia dinamica in preda a un furioso girotondo, inscritto entro una circonferenza che sembra una conchiglia contenente un nucleo non troppo accessibile. Infatti il contorno di quella sorta di amigdala è puntuto, spinato. In definitiva Satana esercita le sue prerogative, e dunque san Michele deve agire all’interno, come una perla che si sta formando dalle lacrime di un’ostrica.


Il Signore risponde a Giobbe da una nube di vento (1803-1805 circa); Edimburgo, National Galleries of Scotland.


L’arcangelo Michele incatena Satana (1805 circa); Cambridge (Massachusetts), Harvard Art Museums, Fogg Museum.


Giorno lieto (1794); Londra, British Museum.

Pietà (1795); New York, Metropolitan Museum of Art.

Satana esulta su Eva (1795); Los Angeles, J. Paul Getty Museum.


Cristo nel sepolcro, vegliato dagli angeli (1805 circa); Londra, V&A - Victoria and Albert Museum.


Il Sole alla porta d’Oriente (1816-1820); New York, Morgan Library & Museum.

La parabola delle vergini sagge e delle vergini folli (1805 circa); New York, Metropolitan Museum of Art.
Qui l’artista ricorre a un evidente simbolismo, per cui le vergini sagge svettano verso l’alto, diritte come fusi, come fiamme di candele portate a rispettare un’ascensione verticale. Mentre al contrario le vergini folli si attorcono nelle strette dell’errore.


Mosè e il roveto ardente (1800-1803 circa); Londra, V&A - Victoria and Albert Museum.

BLAKE
BLAKE
Renato Barilli
La parola d’ordine, nella produzione e nel pensiero di William Blake (Londra 1757-1827), è “immaginazione”. Attorno a questo concetto costruisce la sua fama di poeta e pittore, e anche di stravagante, mistico cultore della Bibbia come dell’assoluta libertà creativa. Un artista fuori dal coro; vicino, certo, alla sensibilità romantica, ma alla perenne ricerca di quelle che lui stesso definisce “le porte della percezione”, con una definizione la cui fortuna arriverà fino alle esperienze con gli allucinogeni di Huxley e a quelle di un’intera generazione di rocker. Coltiva la sua arte visionaria da autodidatta. Insofferente a ogni accademia, aderisce a tutti i movimenti di ribellione: una figura divisiva e affascinante.