UN GRANDE INIZIATORE
DEL "CONTEMPORANEO"

L’inglese William Blake (1757-1827) segna un eccezionale punto di svolta nella storia dell’Occidente, in tutti i possibili settori: filosofia, scienza e, ovviamente, arte.

Forse, grattando nei ricordi scolastici, ogni lettore di questo dossier ricorda la tradizionale suddivisione delle epoche storiche, tra cui le due più recenti, l’età moderna, che andrebbe dal Rinascimento alla fine del Settecento, quindi l’età contemporanea, nome vago ed equivoco, che l’opinione pubblica preferisce indicare col termine più incisivo di “moderno”, tanto che varrebbe quasi la pena di sostituirlo con “postmoderno”, a costo di farlo retrocedere molto al di qua dell’uso corrente, secondo cui un tale termine sarebbe riservato solo agli ultimi decenni del Novecento. Ritornando alla periodizzazione ufficiale, proprio Blake ci fa capire quanto sia errato collegarla alla Rivoluzione francese, che fu una specie di sintesi finale di quanto era nato nei secoli precedenti, con il razionalismo, l’empirismo, l’illuminismo. Ma che cosa sostituire a questi movimenti, e al loro comune confluire negli “immortali princìpi” del 1789? Blake ebbe l’intuizione che, per parafrasare il nostro Dante, occorreva tenere “altro cammino”, tuffarsi a profetizzare svolte di là da venire. Per capirlo, bisogna vedere in lui un anticipatore di Freud, sul piano di quanto riguarda le scienze dell’uomo, e di Einstein, per l’ambito fisico-matematico. D’altronde, Blake non era poi così solitario su questa strada, come potrebbe apparire a prima vista, dato che suoi pressoché coetanei furono proprio due nostri illustri scienziati.


Thomas Phillips, Ritratto di William Blake (1807); Londra, National Portrait Gallery.


Una pagina dal Matrimonio del cielo e dell’inferno (1790-1793); Washington, Library of Congress.

Il primo, Luigi Galvani, col famoso fenomeno delle rane morte, capaci però di guizzare a contatto con una ringhiera metallica, scoprì che gli esseri viventi sono portatori di una energia «novissima», l’elettricità. Peraltro, il fenomeno era noto fin dai tempi della grecità, che avendone riscontrato il manifestarsi provocato dall’ambra, detta “electron” in greco, aveva coniato senza saperlo quello che sarebbe stato un protagonista primario della nostra vita a venire, l’elettricità, magari da congiungere subito a un fenomeno apparentato, il magnetismo. Accanto a Galvani, va subito menzionato Alessandro Volta, che nel 1800 tondo tondo presenta a Napoleone, in Milano, la pila battezzata proprio col suo nome, un ritrovato in cui è da vedere il primo generatore di corrente elettrica nella nostra storia. Ma che c’entra Blake con questi personaggi, lontani se non negli anni, almeno nei settori coltivati, ignari di lui come egli lo era di loro? Eppure, per la forza dei tempi, dello “Zeitgeist”, gli uni e l’altro affermavano che all’inizio di tutto c’è un’energia incontenibile, ribollente al fondo della materia come della vita psichica. Quel gestire folle delle rane, creatrici di corrente elettrica a contatto con un elemento metallico, aveva portato a coniare un vocabolo su misura, l’essere “galvanizzati”. Tutto l’Occidente fu pronto a impadronirsi del neologismo traducendolo nelle proprie lingue, e così nacquero il “galvaniser” francese e il “to galvanise” inglese. Naturalmente Blake non ebbe bisogno di rane o di pile, ma in forza di intuizione arrivò a risultati analoghi, predicando il primato dell’energia, dell’emozione, dell’invenzione su vecchie facoltà statiche e frenanti. 


La tigre (1825 circa), dai Canti dell'esperienza (prima edizione, 1794); New York, Metropolitan Museum of Art.

Il nostro personaggio non era certo dedito a esperimenti da laboratorio, diversamente dai due scienziati italiani, ma era pronto ad affidare subito in partenza le sue scoperte a un saggio fondamentale, The Marriage of Heaven and Hell (“Il matrimonio del cielo e dell’inferno”), con una serie di postulati, detti da lui «proverbi infernali», tutti rivolti a celebrare le forze vive, le acque sorgive prorompenti, contro le acque morte, che imputridiscono nelle paludi provocando il sorgere di epidemie e pestilenze. Allo stesso modo chi, nella sua vita psichica, resta troppo passivo, troppo ligio alle regole stabilite, rischia di cadere nella nevrosi, come un secolo dopo avrebbe detto con maggiore competenza proprio Freud. Blake era pronto a giocare queste sue intuizioni basilari su ogni piano, per esempio a un grado di sudditanza agli imperativi dell’ordine e dell’autoritarismo egli associava la condizione dei poveri cavalli. Siamo soliti scorgere nei destrieri dei campioni di esuberanza e ardimento, egli al contrario ne compiangeva il triste destino che spesso li vede soggiacere alla castrazione per renderli docili, sottomessi. A suo avviso lo stesso fenomeno a livello metaforico succede negli esseri umani, se cedono troppo alle pressioni delle autorità costituite. Blake va fino in fondo, e così, al destino triste e remissivo dei poveri cavalli contrappone l’immagine aggressiva della tigre.

Per questa via, da una prima rapida presentazione del saggista-filosofo che era in lui, approdiamo pure alla sua efficacia in quanto poeta. Non c’è scolaro dell’universo anglofono che non abbia dovuto apprendere a memoria proprio la lirica La tigre, da lui dedicata a questo animale selvaggio, che nella sua visione diviene il portatore dell’energia insita nell’atomo, o ancor più nell’elettrone. Questa e altre liriche si trovano nelle sue due raccolte giovanili, i Songs of Innocence (“Canti dell’innocenza”), 1789, seguiti dai Songs of Experience (“Canti dell’esperienza”), 1794.


L’agnello (1825 circa), dai Canti dell’innocenza (prima edizione, 1789); New York, Metropolitan Museum of Art.

Ma in fatto di anticipazioni di cui Blake è stato largamente prodigo, bisogna correre ancora più in avanti, portarci a chi a sua volta nei decenni centrali del secolo scorso ha elaborato una perfetta sintesi del pensiero di Freud e di Einstein, Marshall McLuhan, procurandone anche un solido radicamento nella tecnologia. Se si vuole avere una rapida ma esauriente immersione nel McLuhan-pensiero, basterà leggere The Gutenberg Galaxy, del 1962, tradotta in italiano qualche tempo dopo. Con lui ritorniamo al tormentone dei periodi storici, in quanto il tedesco Gutenberg, in un altro anno tondo, il 1450, ha inventato la prima “macchina industriale” dell’Occidente, la tipografia, la stampa a caratteri mobili, capace di riversare sul mercato i libri a centinaia di copie, laddove prima di quel momento esistevano solo i codici stesi a mano, con lunghi tempi di esercizio e conseguenti alti costi. Qui appare l’estrema coerenza di Blake. Convinto annunciatore dei tempi nuovi, che non saranno più da dirsi “moderni”, egli rifiuta proprio lo strumento della tipografia, in quanto gli sembra inanimato, incline a cadere negli stereotipi, in copie conformi e senza anima.

Inoltre la tipografia provoca una mortale divisione tra lo scrivere e il disegnare, tra la parola e l’immagine. Il nostro autore parte lancia in resta contro questo crimine storico, e anche in ciò ha una intuizione precorritrice dei tempi a venire, che dovremo deciderci a definire “contemporanei”, o postmoderni. Questi saranno dominati dai computer, dove come ben sappiamo l’infausta cesura scompare, e siamo perfettamente in grado di far convivere parole e immagini, come avveniva prima di Gutenberg nei preziosi codici miniati, dove i copisti, gli amanuensi, e i pittori intervenivano fianco a fianco sulla stessa pagina. Con straordinaria coerenza Blake rifiuta di affidare i suoi scritti, saggi o liriche, allo strumento tipografico, ritorna invece alla “stampa”, ma prendendo la parola nel senso originario, consistente in una matrice unica, su cui un solo autore scalfisce i tratti su uno strato di cera, facendoli poi corrodere dall’acido, quindi inchiostrandoli e imprimendo (la francese “presse”) le lastre su fogli, uno alla volta, con rinuncia totale al “grande numero”. Ma perché Blake rilancia un simile sistema arcaico, che sembrava del tutto messo fuori gioco dai “tempi moderni”? Lo fa per due ragioni, perché da un lato sa bene che non raggiungerà mai il “grande numero” capace di rendere conveniente la tipografia, non avrà acquirenti in abbondanza dei suoi prodotti, e dunque nessun tipografo avrebbe accettato di lavorare per lui in pura perdita. Ma più forte e decisiva una ragione ideologica, di chi si rifiuta alla scissione “moderna” tra le due metà dell’operazione, le vuole riaccorpare, anticipando di due secoli quanto oggi otteniamo comunemente con un computer o addirittura con un “telefonino”.


Pagina dai Canti dell’innocenza e dell’esperienza (1825 circa), (prima edizione, 1794); New York, Metropolitan Museum of Art.

BLAKE
BLAKE
Renato Barilli
La parola d’ordine, nella produzione e nel pensiero di William Blake (Londra 1757-1827), è “immaginazione”. Attorno a questo concetto costruisce la sua fama di poeta e pittore, e anche di stravagante, mistico cultore della Bibbia come dell’assoluta libertà creativa. Un artista fuori dal coro; vicino, certo, alla sensibilità romantica, ma alla perenne ricerca di quelle che lui stesso definisce “le porte della percezione”, con una definizione la cui fortuna arriverà fino alle esperienze con gli allucinogeni di Huxley e a quelle di un’intera generazione di rocker. Coltiva la sua arte visionaria da autodidatta. Insofferente a ogni accademia, aderisce a tutti i movimenti di ribellione: una figura divisiva e affascinante.