NATURALISMO
LA SCOPERTA DELLA REALTË

Nell’ultima stagione di quello che viene chiamato Gotico internazionale, agli inizi del XV secolo, nelle tavole dipinte, nelle miniature e nella scultura si iniziano a trovare con frequenza dettagli realistici, tracce evidenti di un’attenzione e di un atteggiamento nuovi nei confronti del mondo visibile, magari in contesti ancora pienamente “gotici”.

La Toscana e l’area borgognona-fiamminga furono le prime ad avviarsi su questa strada. In Toscana lo strumento ideale di accesso al mondo reale sarà individuato nel primo Quattrocento nella prospettiva lineare, nelle Fiandre invece la rappresentazione del mondo sensibile passerà per la costruzione di uno spazio reso unitario dalla diffusione della luce.

La prima strada faceva appello alla concezione di un ordine razionale della natura, che andava compresa e riorganizzata attraverso una ridefinizione geometrica e volumetrica dei rapporti spaziali; l’altra procedeva su un percorso più empirico e sensibile agli effetti illusionistici, alla ricerca di una credibile rappresentazione della densità atmosferica, degli aspetti superficiali della materia, degli effetti di luce e di ombra che l’occhio percepisce nella sua esperienza quotidiana. Due impostazioni diverse che avrebbero portato a esiti differenti, ma con un comune obiettivo di rappresentazione artistica, nell’ambito di quello che oggi chiamiamo naturalismo. Fu in quel periodo che, in Europa, iniziò l’avventura dell’arte come rappresentazione del reale: all’arte veniva affidato un compito che si sarebbe attuato lungo un percorso destinato ad arrivare fino alle avanguardie del Novecento.

Un comune obiettivo, dicevamo, e più condiviso di quanto a volte si pensa. Perché in Europa il linguaggio artistico ai primi del Quattrocento era già cosmopolita e transnazionale, grazie alla “portabilità” di altaroli, taccuini, codici miniati, arazzi (ma anche avori, e oreficerie) e a mediatori attivi negli scambi come Claus Sluter, Melchior Broederlam, Lorenzo Monaco, Gentile da Fabriano, Pisanello, il Maestro delle Ore Boucicaut, e i fratelli Limbourg, con i loro dettagli naturalistici inseriti in contesti spesso fiabeschi e a volte spazialmente improbabili. Una vicenda in cui va sottolineata la centralità del libro: mai come in questa straordinaria stagione creativa ogni ipotetica distinzione di rango o di ruolo fra pittore e miniatore cade e perde ogni senso logico.

Miniatore era il Maestro delle Ore Boucicaut (attivo a Parigi nel primo quarto del XV secolo ma probabilmente originario di Bruges, da alcuni identificato in Jacques Coene) il quale, nel volume miniato che, in mancanza di dati anagrafici più precisi, gli presta il nome (le Heures du Maréchal de Boucicaut, 1410-1415), presenta alcune scene in cui l’evento sacro, in primo piano, è realizzato secondo stilemi tradizionali, mentre nei fondali di contesto l’attenzione dell’artista per la realtà che lo circonda si fa evidente: pastori, paesani, pescatori, greggi, abitazioni rivelano una assoluta libertà creativa.

E l’esigenza di rendere conto dei diversi piani spaziali in cui si collocano gli elementi rappresentati viene risolta spesso con un anticipo sorprendente di quella prospettiva atmosferica che scolora i paesaggi via via che si procede in lontananza fino a rendere nebulosi, evanescenti e celesti i monti più distanti, fino a confondersi col celeste del cielo. È una tecnica pittorica che cerca di rendere conto dell’effetto provocato sull’intensità e la tonalità dei colori percepiti dall’occhio dallo stratificarsi dell’aria nel passaggio da vicino a lontano. Fenomeno che sarà al centro delle ricerche di ottica e delle sperimentazioni pittoriche di Leonardo da Vinci (Gioconda, Annunciazione e altre opere) come di Piero della Francesca (Ritratti dei duchi di Urbino).


Maestro delle Ore Boucicaut, Pierre Salomon a colloquio con Carlo VI, miniatura dalle Demandes à Charles VI (1412 circa), f. 4 v; Ginevra, Bibliothèque.


Jean Malouel (?), Grande Pietà rotonda (1400-1415); Parigi, Musée du Louvre. L’opera fu dipinta per Filippo l’Ardito, duca di Borgogna. Malouel aveva lavorato, in precedenza, alla corte del re di Francia Carlo VI.


Maestro delle Ore Boucicaut, Visitazione, miniatura dalle Heures du Maréchal de Boucicaut (1410-1415), ms 2, f. 65v; Parigi, Musée Jacquemart-André.

Lo stesso Maestro delle Ore Boucicaut (che Panofsky in Early Netherlandisch Painting definisce «pioniere del naturalismo»), in una scena delle Demandes à Charles VI (1412 circa, Ginevra, Bibliothèque) mostra come nonostante fosse ancora lontana una costruzione prospettica “scientifica”, era possibile rendere credibile l’impostazione spaziale di una scena di interni. Al foglio 4 si vede Pierre Salmon, il segretario del re di Francia Carlo VI, a colloquio col suo sovrano in una sontuosa stanza da letto; una finestra aperta mostra un cielo stellato e le ante spalancate propongono un accenno di raffigurazione in scorcio; il letto su cui siede il re e la poltrona che gli sta accanto non propongono nessun punto di fuga compatibile con una visione realistica, ma la scena ha ugualmente profondità, e l’aprirsi della stanza sull’esterno attraverso la finestra accresce la naturalezza della scena.
I modi in cui si cercava un approccio a una rappresentazione spaziale “corretta” mostrano con chiarezza la diversità di percorsi e di approcci tra il Rinascimento nordico e quello fiorentino. In ambito fiammingo non vedremo mai la teorizzazione di tipo geometrico-matematico che a Firenze trova la sua prima formulazione nel lavoro di Filippo Brunelleschi che tra 1416 e 1420 traccia le regole della rappresentazione di uno spazio tridimensionale su una superficie piana fondata su un punto di fuga unico e centrale verso il quale convergono tutte le perpendicolari al piano della superficie stessa. In questo modo, va notato, l’artista offriva al fruitore il “proprio” punto di vista, in una prima, significativa affermazione di sé da parte dell’artista stesso. Studi e teorizzazioni che saranno portati avanti da figure come Melozzo da Forlì, Luca Pacioli, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, e che rendono chiara l’impostazione razionalistica del contesto culturale italiano nei confronti del problema. Un’impostazione che era debitrice del crescente interesse per l’antichità greco-romana - frutto degli studi umanistici e degli scavi archeologici -, comprensibilmente meno vivo nel Nord Europa, se non altro per ragioni di distanza geografica, oltre che di discontinuità culturale.


Nelle opere fiamminghe l’illusione di uno spazio reale arrivò circa un decennio più tardi, ed era frutto di messe a punto empiriche e intuitive, forgiate sull’esperienza e sull’applicazione costante alla riproduzione più mimetica possibile di ciò che l’occhio vede. Potremmo dire che la conquista di una spazialità naturalistica fosse in quel contesto il risultato di applicazione e buone pratiche di atelier. E il risultato non fu dissimile da quello “fiorentino”, sul piano dell’accettabilità della scena. L’artista fiammingo non appare interessato a sistematizzare in senso matematico le proprie tecniche di rappresentazione(6). Molto a lungo questa circostanza è stata considerata come un difetto di capacità di elaborazione teorica, una certificazione di “primitivismo” in rapporto all’arte italiana. Si trattava, molto più probabilmente, di scarso interesse a sistematizzare in forma diversa da quella dipinta un problema già brillantemente risolto nella prassi realizzativa. D’altra parte, come scrive lo stesso Leonardo da Vinci, «prospettiva non è altro che sapere bene figurare lo ufizio dell’occhio»(7).

Più che a una ben organizzata, aperta, chiara, simmetrica costruzione spaziale, l’artista fiammingo appare interessato alle molteplici variazioni e sfumature di tono atmosferico che scorrono fluide tra un ambiente e l’altro, agli effetti di luce viva e di ombre portate, ai riflessi su una superficie lucida o al loro spegnersi su una materia opaca.

Erwin Panofsky identifica questo risveglio nelle arti visive come “Ars nova”, riprendendo il termine da quello già in uso per il rinnovamento musicale che caratterizzò il mondo fiammingo e francese già a partire dalla seconda metà del XIV secolo e collocandolo a coronamento di un percorso coerente svolto in ambito nordeuropeo nel corso del Medioevo.

Una sorta di Rinascimento innervato di Medioevo. Centro di quel rinnovamento, in musica come in pittura, la corte dei duchi di Borgogna - la più cosmopolita d’Europa - e i centri urbani più attivi del ducato. Gli artefici principali, come vedremo, erano nella quasi totalità originari dei Paesi Bassi.

(6) Sul tema cfr. C. Harbison, La Renaissance dans les pays du Nord, Parigi 2000, pp. 34-35; ediz. orig. Londra 1995.

(7) Leonardo da Vinci, Ms A, f. 3r.

Al servizio di Filippo l’Ardito, dal 1398 troviamo Jean Malouel, in fiammingo Jan Maelwel (letteralmente, Gianni Dipingibene). Era nativo della Gheldria (Nimega 1365 circa - 1415), oggi regione olandese, entrata a far parte del ducato di Borgogna nel 1373. Stabilitosi a Digione, sede della corte, ebbe occasione di lavorare con lo scultore Claus Sluter (Haarlem 1340 circa - Digione 1405 circa) per la certosa di Champmol, il convento eletto dai duchi come proprio luogo di sepoltura. Per Champmol dipinse un polittico (1398) ed eseguì la policromia della più importante opera di Sluter, il Pozzo di Mosè (o dei profeti, 1396-1405). Di questa struttura (in realtà un grandioso Calvario sovrastato da una croce, opera complessa al punto che Huizinga la descrive come un’enorme e complicata torta di alta pasticceria) resta oggi solo un gruppo scultoreo di sei figure di profeti (con qualche traccia della policromia antica) che rappresenta il primo, potente esempio di naturalismo in area borgognona. Le figure dei profeti hanno una marcata fisicità, espressioni e tratti ben individuati, le vesti appaiono sorprendentemente realistiche fin nei dettagli, ogni personaggio appare in movimento; ogni elemento del Pozzo parla un linguaggio diverso da quello del Gotico internazionale, un linguaggio nuovo, che riconduce i soggetti raffigurati in un contesto reale. Si può quasi dire (dovendo fare i conti con l’esiguità dei reperti giunti fino a noi) che il naturalismo di un’intera generazione di artisti attivi a Digione sia nato lì, a Champmol, con questo gruppo scultoreo di Sluter.



Claus Sluter, Pozzo di Mosè (o dei profeti) (1396-1405), due particolari; Digione, certosa di Champmol.

Se di Malouel restano pochissime opere, tra le quali va segnalata la Grande Pietà rotonda del Louvre (1400 circa) - solo attribuita ma considerata il primo tondo rinascimentale -, molte sono le miniature ancora oggi visibili dei suoi tre nipoti, i fratelli de Limbourg, Pol, Hermann e Jehannequin, anch’essi nati in Gheldria, ma attivi nei maggiori centri artistici del Nord Europa. Dopo un apprendistato come orefici a Parigi (vi sono documentati nel 1399), li troviamo alla corte di Filippo l’Ardito, a Digione, nel 1402-1403; moriranno in quella città durante l’epidemia di peste del 1416. Nel loro lavoro ricorrono i rimandi a un’intera costellazione di modelli artistici loro contemporanei e precedenti, dalla pittura senese a Sluter (molte loro costruzioni immaginarie hanno l’aria di lavori “di alta pasticceria”), a un altro maestro di quella generazione, Melchior Broederlam (1355 circa - 1411 circa, anch’egli al servizio di Filippo l’Ardito). Dopo la morte di Filippo l’Ardito (1404) rimangono, come lo zio Malouel, al servizio del figlio subentrato del duca, Giovanni senza Paura, ma dopo un anno passano a lavorare per il fratello di Filippo, il duca Jean de Berry. Mecenate e collezionista, Jean commissiona ai Limbourg Les belles heures du duc de Berry (1405-1410 circa; New York, Cloisters), in cui vediamo una Fuga in Egitto debitrice dell’analogo soggetto dipinto da Broederlam nel Dittico di Digione (parte di un polittico realizzato nel 1393-1399 per la certosa di Champmol, ora nel Musée des Beaux-Arts di Digione).


Melchior Broederlam, Dittico di Digione (1393-1399); Digione, Musée des Beaux-Arts.

Il dittico presenta un’Annunciazione e una Visitazione nell’anta sinistra, la Presentazione al tempio e la Fuga in Egitto in quella destra. In entrambe le tavole due esili ma articolate architetture inquadrano una delle scene rappresentate, isolandole dalle altre due, inserite nel paesaggio.

L’Annunciazione e soprattutto la Presentazione al tempio di Broederlam mostrano una dipendenza dalla pittura senese, in particolare da Ambrogio Lorenzetti. Rispetto al modello, la prospettiva è qui più “scoscesa” e obliqua, mentre i punti di fuga si moltiplicano, caratteristiche costanti della pittura nordica del periodo. L’atmosfera generale è tipicamente cortese: nella Visitazione la Vergine sotto all’elegante mantello blu lascia intravedere un abito di broccato finemente intessuto; nell’Annunciazione l’intento narrativo dell’artista si concentra sui dettagli, aprendo una porta sul fondo della loggia alla sua sinistra, a mostrare un accenno di interno privato; la Fuga in Egitto mostra un san Giuseppe che esce da ogni tipizzazione standard per manifestare la sua estrazione popolare nei tratti e nei gesti, oltre che nell’assenza di nimbo: lui solo, circostanza infrequente nella raffigurazione di un santo, qui decisamente e sorprendentemente umanizzato; mentre nel paesaggio - anch’esso toscaneggiante - la cura naturalistica nella raffigurazione di piante e rocce si infrange nel tradizionale fondo oro che costituisce il cielo.
La Fuga in Egitto delle Belles heures dei Limbourg appare dotata di maggiore energia e vivacità, più sciolta nel suo inserire cenni naturalistici in un contesto ancora pienamente gotico internazionale.
Ma il capolavoro dei Limbourg è Les très riches heures du duc de Berry, codice miniato iniziato nel 1411, lasciato incompiuto alla morte dei fratelli nel 1416 e terminato poi da altri miniatori solo nella seconda metà del secolo. Il duca di Berry lasciava ai Limbourg la massima autonomia, lavoravano per lui da soli e in esclusiva ed erano alloggiati in abitazioni di lusso. Condizioni ideali per concepire opere d’arte che non dovevano necessariamente tenere conto della concorrenza, per avere a disposizione i colori più preziosi - e il loro blu di lapislazzuli cattura l’attenzione a un primo sguardo -, e per elaborare una propria visione sulla base delle fonti e dei modelli preferiti. Il codice è una delle opere più straordinarie della pittura europea, di formato 21 per 29 cm, costituito da 206 fogli con le abituali preghiere dei libri d’ore divise per temi liturgico-devozionali con un calendario, miniature di varia dimensione e otto “soggetti eccezionali” (un Uomo anatomico, la Pianta di Roma, episodi dell’Antico e del Nuovo testamento). I Limbourg ne realizzarono circa la metà. Trascureremo qui le attribuzioni alle diverse mani dei tre fratelli per esaminare brevemente il loro contributo essenziale al rinnovamento della pittura europea di inizio Quattrocento. La loro opera rappresenta un punto di equilibrio fra le scuole fiamminga, italiana e francese.

La rappresentazione della società del tempo riflette rigide suddivisioni di classe; il mondo si divide tra signori, militari, commercianti, pastori e contadini. Questi ultimi vivono costantemente all’ombra di sfarzosi castelli che dominano la scena; sono descritti come individui rozzi e volgari ma al tempo stesso è proprio nei dettagli delle loro raffigurazioni che troviamo la maggiore adesione alla realtà. Nella scena del calendario con il mese di Febbraio vediamo una scena invernale: la neve ricopre campi e villaggi, il bosco è spoglio, le pecore si stringono nell’ovile. Il fumo esce dal camino di un ambiente di cui vediamo l’interno, una donna solleva un po’ la veste davanti al fuoco per scaldarsi, poco più in là un contadino e la moglie la alzano fino a scoprire i genitali; è considerata la prima raffigurazione di nudo che non abbia come soggetto Adamo ed Eva o un soggetto grottesco. Il paesaggio è reso con realismo, una figura sulla destra soffia per scaldarsi le mani mentre si affretta verso la casa; alle spalle del taglialegna, le tracce dei suoi passi sono rimaste nella neve.

Nei mesi di Marzo e di Ottobre i contadini in primo piano intenti all’aratura e alla semina e i loro animali mostrano le loro ombre proiettate sul terreno, una novità nelle descrizioni del genere; avere un’ombra significa esistere nella realtà, significa essere raffigurati in quanto esseri individuali in un momento dato della propria esistenza; negli altri mesi le ombre non appaiono perché la luce è diversa, o il cielo coperto; è la luce a dare un’evidenza visiva a ogni oggetto raffigurato, e la sua assenza o il suo cambiamento ne modificano l’aspetto o il colore: ora è il dato dell’esperienza fisica - mutevole nel tempo e nello spazio - a dettare l’immagine al pittore, non più l’idea della cosa in sé.

Un’altra rivoluzione è accennata nello stesso libro; la scena con il Paradiso terrestre riesce a mettere insieme tutta l’astrattezza simbolica di un “hortus conclusus” perso in un contesto fantastico con un’evidente attenzione naturalistica e una delicata sensualità nella raffigurazione dei nudi dei due progenitori: anche questa nuova attenzione al corpo umano avrà uno sviluppo nell’arte europea proprio nel corso del secolo che allora iniziava(8).


Fratelli de Limbourg, Fuga in Egitto, miniatura da Les belles heures du duc de Berry (1405-1410 circa), quaderni 5-10; New York, Cloisters.

Febbraio, f. 2 v del Calendario.


Ottobre, f. 10 v del Calendario.


Marzo, f. 3 v del Calendario.


Paradiso terrestre, f. 25 v.

La svolta verso una rappresentazione sempre più sofisticata della realtà arrivò negli anni Trenta con Jan van Eyck e il perfezionarsi della pittura a olio, con le sue inedite potenzialità di intensità cromatica. È al servizio - come “varlet de chambre” - del duca Filippo il Buono che Van Eyck consolidò la sua fama, ottenne le migliori committenze, realizzò i suoi capolavori. Nei suoi dipinti appaiono evidenti quella dimensione intima del sacro, quella ricerca di finezza e di effetti illusionistici che saranno costitutivi di tutta la stagione quattrocentesca della pittura fiamminga Nella pittura di Van Eyck (Maaseyk 1390 circa - Bruges 1441) nuovo è il trattamento della luce, che avvolge, si rifrange, cola sugli oggetti conferendo loro sostanza, materialità, consistenza reale, creando effetti di ombre sovrapposte e di diversa intensità, definendo lo spazio e la profondità; la luce si trasforma in ogni parte del dipinto contribuendo così da protagonista alla narrazione della scena(9).

Van Eyck fu un genio rivoluzionario - con radici salde nella tradizione del suo tempo e del suo territorio - che stabilì i nuovi standard europei del naturalismo. Un Adamo e una Eva, ancora, ci consentono di averne un esempio efficace e di tornare sui due progenitori nella scena del Paradiso terrestre dei Limbourg. Si tratta delle figure che anche in questo caso - come nella miniatura dei Limbourg - manifestano il più alto grado di realismo nel contesto in cui sono collocate: il Polittico di Gand (o Adorazione dell’Agnello mistico) di Hubert e Jan van Eyck (1426-1432, Gand, San Bavone)(10).

Nel vasto programma simbolico del polittico le figure e le scene sono molte, Adamo ed Eva si trovano nella parte interna, alle due estremità superiori. La loro realizzazione è pressappoco contemporanea a quella dei progenitori nella Cacciata dal Paradiso terrestre di Masaccio in Santa Trinita a Firenze (1425). Insieme alle immagini dei due donatori, all’esterno, sono le figure più realistiche del polittico, al punto che nell’Ottocento i canonici di San Bavone li rimpiazzarono con due copie vestite. I corpi nudi sono descritti nei dettagli con grande attenzione, la luce è naturale, Adamo avanza il piede destro quasi a voler uscire dalla nicchia in cui si trova; appaiono come due individui in carne e ossa costretti nel ruolo di statue e sottratti al contesto abituale, l’Eden. Adamo ha le mani e il volto più scuri del resto del corpo, come accade a chi lavora all’aperto; a patto che sia vestito, ovviamente, e Adamo nell’Eden non lo era: forse Van Eyck copiava un modello dal vivo? Cancellare la differenza di colore sarebbe stato semplice, ma forse qui l’intento era aggiungere alla raffigurazione un ulteriore tassello di realtà.


Jan van Eyck, Polittico di Gand (1426-1432), particolari con le due figure di Adamo ed Eva; Gand, San Bavone.

La Madonna del canonico Van der Paele di Van Eyck (1436, Bruges, Groeningemuseum) costituisce il primo esempio di “sacra conversazione” (Madonna col Bambino, santi ed eventuali donatori) concepita in un ambiente unitario e su un’unica tavola; un modello di superamento della “forma polittico”, per questo soggetto, che sarà seguito dal Beato Angelico nella Pala di San Marco (1437-1440, Firenze, museo di San Marco) e da Domenico Veneziano nella Pala di Santa Lucia dei Magnoli (1446, Firenze, Gallerie degli Uffizi)(11). Rispetto agli esempi fiorentini, la costruzione spaziale di Van Eyck è meno efficace, il pavimento appare eccessivamente ripido, ma la sensazione di trovarsi di fonte all’affermazione del sacro come componente essenziale dell’esperienza di ciascuno di noi è evidente, i personaggi sono “davvero” al cospetto della Madonna col Bambino, con una scioltezza che le due citate pale fiorentine non possiedono. E questo effetto è dovuto soprattutto alla credibilità di una luce interna diffusa in ogni parte del quadro con estrema naturalezza. Ciò non toglie che le sue figure sacre restino sempre in una dimensione sovrannaturale, visioni realistiche di un aldilà; è come se l’artista portasse la realtà quotidiana a un livello più alto, più vicino al sacro. Come vedremo, il suo contemporaneo Robert Campin farà esattamente il contrario.


Jan van Eyck, Madonna del canonico Van der Paele (1436); Bruges, Groeningemuseum.

(8) Per chi amasse soffrire sorridendo, è proprio sulle Très riches heures du duc de Berry che infierisce Mr Bean, finendo per distruggere il manoscritto, nell’episodio Mr Bean in biblioteca, 1990; il video è su Youtube.

(9) Per una più estesa analisi dell’opera dell’artista cfr. C. Spantigati, Van Eyck, fascicolo monografico allegato ad “Art e Dossier”, n. 131, febbraio 1998.

(10) Per un’analisi del polittico nella sua complessità rimandiamo al sito www.closertovaneyck.kikirpa.be - immagini e dettagli in altissima definizione - e alla citata monografia di C. Spantigati; di chi scrive, sul restauro del polittico: Van Eyck nascosto e ritrovato, in “Art e Dossier”, n. 349, dicembre 2017, pp. 52-57.

(11) Cfr. M. L. Koster, L’Italie et le Nord: le point de vue florentin, in Le Siècle de Van Eyck, cit., pp. 79-93.

Il naturalismo di Van Eyck è analitico, meticoloso, decide che consistenza e statuto materiale dare a un oggetto e procede a fornirgliene le manifestazioni esteriori inequivocabili usando colore, luce e atmosfera. Il suo ruolo alla corte di Filippo il Buono gli consente di avere il tempo e i mezzi per dedicarsi a questo obiettivo senza ostacoli. Il duca nel 1435 dichiara, a proposito del suo “varlet de chambre” che «non potremmo trovarne un altro che ci sia altrettanto gradito, né altrettanto eccellente nella sua arte e nella sua scienza»(12).

Più che intima, addirittura domestica e decisamente meno contemplativa appare la dimensione del sacro in un altro protagonista dei primi decenni del XV secolo, Robert Campin. Alcuni studiosi hanno messo in relazione gli sviluppi dell’arte fiamminga con un atteggiamento mentale di impostazione nominalistica piuttosto diffuso nel Nord Europa nella versione di Occam - per il quale solo gli oggetti percepiti con i nostri sensi possono rientrare fra gli obiettivi conoscibili con la ragione e l’esperienza(13); e nell’opera di Campin è facile cogliere la presenza quasi tangibile degli oggetti d’uso quotidiano, in una dimensione che riporta la verità della fede in una accezione decisamente terrestre, legata all’esperienza di ciascuno.


La figura di Robert Campin è stata oggetto di studi e di contrapposizioni critiche, ma si tratta certamente di uno dei principali protagonisti - forse il più rivoluzionario - dell’umanizzazione del divino che caratterizza i primi decenni del Quattrocento fiammingo. Nato negli anni Settanta del Trecento a Valenciennes (oggi Francia, allora ducato di Borgogna), visse a Tournai (cittadina del Belgio francofono), dove morì nel 1444. Dopo la “rivoluzione democratica” di Tournai del 1428 - una delle molte che videro le città europee del XV secolo attraversate da disordini per la ribellione di cittadini e artigiani esasperati dalla pressione fiscale -, Campin lavorò per la nuova classe dirigente, accettando un incarico come funzionario. Col ritorno dei governanti precedenti subì un processo per condotta licenziosa (aveva un’amante) e fu condannato. Continuò comunque a lavorare ma il suo prestigio calò sensibilmente.

La sua identificazione con il Maestro di Flémalle non è ancora del tutto accolta come una totale sovrapposizione.





Robert Campin (attribuito), Trittico de Mérode (1427); New York, Metropolitan Museum of Art. Dettagli a perdita d’occhio si spargono in ogni angolo del trittico, la credibilità e il realismo della rappresentazione sono la prerogativa della pittura di Campin, insieme a una certa “domesticità” che rende il sacro parte dell’esperienza quotidiana (la Vergine col Bambino e l’angelo sono privi di aureole); caratteri che non escludono la leggibilità simbolica dei molti oggetti raffigurati. Ogni pannello è ambientato in un luogo diverso di una scena comunque unitaria. Colpiscono, in particolar modo, nel pannello destro la familiarità col lavoro di Giuseppe, intento al suo lavoro fra trucioli e attrezzi; la scena urbana che ci giunge attraverso la sua finestra e la porta aperta nel cortile del pannello sinistro, quello con i donatori; infine il contrasto tra il realismo nella resa dei particolari e l’approssimazione nella costruzione prospettica.
Nel catalogo di opere preso in esame dagli studiosi alcune opere denunciano mani diverse, una delle quali è frequentemente ormai attribuita a un giovane Rogier van der Weyden, attivo proprio nell’atelier di Robert Campin per alcuni anni a partire dal 1427. Con lui anche un altro artista di rilevo, Jacques Daret, e un ignoto artista a cui parte della critica attribuisce il Trittico de Mérode, ritenuto di mano meno rigorosa e raffinata rispetto alla produzione di Campin e dei suoi due più fedeli allievi, appunto Van der Weyden e Daret(14).

In ogni caso Campin ebbe un ruolo fondamentale, con la sua attivissima bottega, negli sviluppi della pittura del suo tempo. Come Masaccio a Firenze, nello stesso giro di anni, a Tournai Campin sovvertì l’ordine convenzionale e il linguaggio del Gotico internazionale riportando i protagonisti delle storie sacre a una dimensione terrena, accessibile. La Madonna Salting (o del parafiamma, 1430 circa, Londra, National Gallery) è emblematica di questo atteggiamento mentale: un robusta madre di famiglia siede in un interno borghese, la finestra è aperta su un villaggio fiammingo, ha un bimbo in grembo e lo sta allattando, l’aureola della Vergine è un parafiamma in vimini. La scena presenta un evidente anacronismo, per il pubblico del tempo vedere la Madonna in una casa che poteva essere quella in cui vivevano essi stessi doveva apparire decisamente originale. E quella Madre doveva apparire molto diversa dalle realistiche ma inaccessibili Madonne di Van Eyck. Se anche un’aureola smette di apparire sovrannaturale è evidente che il messaggio è non solo che ogni oggetto può avere un significato simbolico, ma che il divino è potenzialmente in ogni cosa. Non servono orpelli o visioni ultraterrene, tantomeno esibizioni di ricchezza e ambientazioni fastose in immaginari regni dei cieli. Il divino è sceso fra di noi, anche la città che si vede fuori dalla finestra di casa della Vergine è la nostra.

Un’idea di devozione popolare che non esclude partecipazione e fede nel senso profondo del messaggio evangelico, ma che si pone in contrasto con la Chiesa ufficiale, nel solco della “Devotio moderna”, movimento molto diffuso nel Nord Europa che già dal XIV secolo tendeva a spostare in una dimensione più intima e personale l’esperienza spirituale, rispetto al dettato della Chiesa di Roma. Nel secolo successivo, una versione ancora più “casalinga” della maternità della Vergine l’avremo con Gérard David che nella Madonna della zuppa di latte (1520 circa, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts) replica un modesto interno borghese, in cui una madre qualunque - del tutto “desacralizzata” e senza nimbo - nutre un figlioletto che impugna un cucchiaino.

In Campin troviamo un’anticipazione dei movimenti che nel secolo XVI daranno vita alla Riforma. Naturalmente egli continuava a dipingere “la Madonna”, la madre del Signore, ma avviava un processo che la pittura olandese avrebbe portato a compimento nel secolo XVII, con le prosaiche scene di intimità familiare di Pieter de Hooch (Madre che allatta con bambino e cane, 1658-1660, San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco), vere “maternità laiche”(15).

Nella pittura di Van Eyck, come in quella di Campin e in genere per la pittura del tempo, si pone il problema del simbolismo degli oggetti raffigurati. Nell’arte medievale l’intento simbolico appare prevalente, quasi ogni oggetto ha un’esplicita chiave di lettura simbolica. La presenza di un grappolo d’uva o del vino accostati alla figura di Gesù era letta come un’allusione alla Passione, all’equivalenza vinosangue, all’Eucaristia e all’Ultima cena. L’accresciuta verosimiglianza delle cose d’uso quotidiano, dei frutti della natura, delle suppellettili nel contesto del naturalismo fiammingo ha posto il problema del loro status: una semplice materialità aveva preso il posto di una simbologia manifesta e pervasiva? La risposta di Panofsky(16) è stata quella di un “simbolismo nascosto” che sarebbe andato a sostituire quello esplicito: significati “altri” dissimulati dietro una parvenza di realtà. Questa ipotesi è ritenuta oggi fuorviante; al tempo, la leggibilità dei simboli non doveva apparire per niente nascosta (forse lo è per noi oggi): la verosimiglianza andava ad aggiungersi a quella valenza simbolica, ne trasferiva positivamente il valore nella nostra quotidianità. Ma l’immagine di un oggetto non era più semplice rimando a un concetto astratto - non soltanto, almeno -, e una serie di “cose” - anche “inutili”, di puro contesto - andavano a popolare quelle scene dipinte rappresentando soltanto se stesse(17).


Gérard David, Madonna della zuppa di latte (1520 circa); Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts.

(12) Cit. in F. Elsig, op. cit., pp. 10-11. 

(13) C. Harbison, op. cit., p. 42. 

(14) Cfr. L. Campbell, Robert Campin, the Master of Flémalle and the Master of Mérode, in “The Burlington Magazine, vol. 116, n. 860, novembre 1974, pp. 634-646.

(15) Per una trattazione più estesa del naturalismo pittorico nel Seicento olandese, di chi scrive: Pittura olandese. Il Secolo d’oro, fascicolo monografico allegato ad “Art e Dossier”, n. 310, maggio 2014; Id., La pittura olandese del Secolo d’oro, Firenze 2015.

(16) E. Panofsky, in Early Netherlandish Painting, Cambridge (Mass.) 1953.

(17) Sul tema cfr. S. Todorov, Éloge de l’individu, Parigi 2004, pp. 101-104.

Alla stessa “corrente” ideologica di Campin, potremmo dire, appartiene il suo collaboratore Jacques Daret, nato a Tournai (1404 circa - dopo il 1468), attivo anche ad Arras e a Bruges. Daret rimane più legato alla tradizione miniaturistica (le sue aureole sono raggi dorati del tutto astratti) ma le atmosfere riconducono a una semplicità che appare molto lontana da ogni preziosismo cortese.

Alla corte di Filippo il Buono, a sostituire Van Eyck (seppure con un ruolo diverso), nel 1441, è Rogier van der Weyden, francese (il suo nome era Roger de la Pasture, poi tradotto in fiammingo) nato a Tournai verso il 1399, probabile allievo a Gand di Hubert van Eyck, collaboratore di Robert Campin tra il 1427 e il 1432(18). Van der Weyden fu uno dei maggiori protagonisti della prima stagione quattrocentesca della pittura fiamminga, prolifico e di successo; divenne pittore ufficiale a Bruxelles, dove morì nel 1464. Nel suo lavoro opera una sintesi fra l’estrema chiarezza espositiva di Campin e il sottile, distaccato mondo di Jan van Eyck. Gioca il suo talento illusionistico sul crinale di uno spericolato esperimento di adesione alla “nuova” maniera del realismo fiammingo coniugato con le convenzioni espositive della tradizione gotica.

La sua tavola con la Deposizione di Cristo del Prado (1435 circa, probabilmente parte centrale di un trittico) è una scena di teatro della devozione popolare (rimanda alle rappresentazioni dei Misteri) adattata a una cornice che ne geometrizza la struttura compositiva; le figure sono disposte in uno spazio unitario e descritte con estremo realismo, ma come rese astratte da uno schema che privilegia rimandi formali e simmetrie, e le piega a riempire irrealmente l’intero spazio disponibile. Il concetto di fondo - Passione di Cristo e com-passione della Vergine sono specchio dello stesso disegno divino, un modello che ogni credente è chiamato a condividere - è reso manifesto dall’identica postura “a specchio” della madre e del figlio, entrambi sostenuti ai due lati da san Giovanni e da Giuseppe di Arimatea e chiusi ai due margini esterni da due figure dolenti fortemente espressive; si costruisce così un ritmo interno di linee, di pieni e di vuoti che scorre come un’onda lungo tutta la scena. L’adesione sentimentale al dramma è altissima, il senso del tragico domina la scena e invita appunto alla compassione, nonostante le possibili distrazioni rappresentate dal virtuosismo pittorico esibito in dettagli sontuosi come la splendida veste di Giuseppe.

Se per Van Eyck un viaggio in Italia è solo supposto come probabile, di Rogier sappiamo (grazie al racconto di Bartolomeo Facio) che vi si trascorse del tempo fra 1449 e 1450, che visitò Roma e Firenze, tra le altre città, che ebbe rapporti col Beato Angelico e altri artisti. Dell’Angelico poté ammirare la Pietà (1438-1440), allora una delle predelle della Pala di San Marco e ora alla Alte Pinakothek di Monaco; opera della quale dette una propria versione nel suo Compianto e sepoltura di Cristo degli Uffizi (1450 circa). Là dove l’Angelico fornisce una sintetica, semplificata, solenne meditazione sul mistero della morte e resurrezione di Cristo, Van der Weyden affolla la scena, aggiunge dettagli, allarga lo sguardo, costruisce un paesaggio che si perde in lontananza e scolora. Il confronto è uno dei più efficaci manifesti del divergere di due scuole diverse, di due modi di interpretare il naturalismo.


Rogier van der Weyden, Deposizione di Cristo (1435 circa); Madrid, Museo del Prado.

Beato Angelico, Pietà (1438-1440); Monaco, Alte Pinakothek. Nel Compianto degli Uffizi Van der Weyden fornisce una propria interpretazione della Pietà dellÕAngelico.

Petrus Christus, Pietà (1455-1460); Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts.


Rogier van der Weyden, Compianto e sepoltura di Cristo (1450 circa); Firenze, Gallerie degli Uffizi.

Come accade per molti artisti fiamminghi del tempo, pochissime sono le notizie biografiche su Petrus Christus. I documenti lo dicono nato a “Baerle” (verso il 1410), ma di paesi con questo nome nei Paesi Bassi ce ne sono due. Il suo stesso nome è un’illazione contemporanea, fondata sulla firma «petr. XPI», che compare su sei suoi dipinti. In ogni caso fu soprattutto a Bruges che svolse la sua attività (vi arrivò attorno al 1444) e fu lì che morì nel 1475 o 1476. Appartiene dunque alla generazione successiva a quella degli iniziatori. La sua Pietà (1455-1460, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts) ci consente un confronto con la Deposizione di Van der Weyden. Le somiglianze sono evidenti, soprattutto nella figura della Vergine, e nel movimento generale delle figure, ma Christus si è qui del tutto liberato dalle scelte compositive di Rogier e colloca la scena in un ampio paesaggio.


Petrus Christus, Sacra Famiglia (1460-1467 circa); Kansas City, Nelson-Atkins Museum of Art.


Petrus Christus, Natività (metà degli anni Cinquanta del XV secolo); Washington, National Gallery of Art.


L’artificio di inquadrare la scena in una cornice realistica, come una finestra, una porta o, come in questo caso, un arco, è frequente in area fiamminga. Serve a creare una connessione tra lo spazio dell’osservatore e quello del quadro. Ma in questo caso serve anche a distinguere il Vecchio testamento - cui appartengono le scene scolpite nell’arcata -, monocromo, dal Nuovo, colorato.


Jan van Eyck, Madonna di Lucca (1436); Francoforte, Städelsches Kunstinstitut und Stadtische Galerie.

Un dipinto in particolare può consentire di comprendere meglio la collocazione di Petrus Christus nel contesto artistico in cui lavorava. Si tratta della Sacra Famiglia del Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City (1460-1467 circa). La piccola tavola evidenzia il debito dell’artista nei confronti dei protagonisti della generazione precedente; in particolare di Van Eyck, al quale rimandano le pieghe del manto della Vergine che ricordano quelle della veste della Madonna di Lucca, come pure il frutto sul davanzale della finestra presente, insieme a un lampadario molto simile, anche nella camera dei coniugi Arnolfini; ma in un’atmosfera domestica che, come il paesaggio urbano che si intravede all’esterno, richiama decisamente Robert Campin.

La Natività (metà degli anni Cinquanta del XV secolo, Washington, National Gallery of Art) è una delle opere principali di Christus, un’esemplificazione della sua capacità di tenere insieme i capisaldi dell’“Ars Nova”, un complesso messaggio iconografico (caduta e resurrezione, colpa e punizione, Antico e Nuovo testamento, celebrazione del mistero eucaristico) in un’atmosfera di luminosa e tranquilla semplicità.
Da sottolineare il naturalismo del paesaggio, che ingloba un’ipotesi di Gerusalemme in un villaggio delle Fiandre, e quello dei pastori che si appoggiano al muretto in secondo piano, o i rustici zoccoli di san Giuseppe, e il cielo che scolora all’orizzonte delimitato geometricamente dalle capriate del tetto; il virtuosismo nella resa dei dettagli dell’arcata scolpita in primo piano (da segnalare l’ombra che la statuetta di Eva proietta sulla sua porzione di nicchia). Ma al tempo stesso nella scena principale vediamo angioletti fuori scala come in una miniatura di cinquant’anni prima. Tutto questo in un’impostazione prospettica che si accosta a quella “italiana”, adottando un unico punto di fuga: Christus fu il primo, nelle Fiandre, a fare uso del sistema prospettico unitario.
Questa tavola ci conduce a un’analoga composizione di un altro artista della stessa generazione, Dirk Bouts (1415 circa - 1475), nato in Olanda, ad Haarlem, ma attivo a Lovanio, città universitaria del Brabante fiammingo. È uno dei pannelli del Trittico della Vergine del Prado (1445 circa, che ha in realtà quattro tavole), raffigurante una Natività.

La composizione è simile a quella di Christus (circostanza dovuta forse a episodi di collaborazione fra i due artisti, quasi coetanei), comprende il gioco geometrico delle capriate a inquadrare il cielo, l’arcata con rilievi e i pastori appoggiati a un muretto.

Nella sua produzione restano tra le altre due opere singolari per la scelta iconografica. Un’Ultima cena (1464-1467, Lovanio, San Pietro) che rappresenta la prima declinazione di questo soggetto in area fiamminga e che presenta una prospettiva lineare “italiana”, e due pannelli con Il giudizio di Ottone (1470-1475, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts) che raffigura scene esemplari della vita dell’imperatore del Sacro romano impero Ottone III (XI secolo).




Dirk Bouts, Ultima cena pannello centrale del polittico del Santissimo sacramento (1464-1467); Lovanio, San Pietro.
A rendere inconfondibili i dipinti di Bouts sono l’accentuato allungarsi delle figure e la profusione di dettagli nelle vesti, spesso decisamente eleganti, ancora legate al gusto cortese del Gotico internazionale.


Nella Cena di Lovanio Bouts affida a Gesù un ruolo sacerdotale, lo raffigura nel momento dell’Eucaristia, con gli apostoli attorno a un tavolo quadrato, due servitori compunti in piedi e due spettatori al di là di una finestrella. Una scena realistica nei dettagli e ieratica nei volti impassibili e l’atmosfera sospesa. La sua versione personale dello stile di Van der Weyden, con figure allungate, contorni incisi, un forte senso del mistero religioso favorirono il successo dei lavori suoi e del suo atelier, molto attivo nell’esportazione, soprattutto verso la Germania, dove questa impostazione generale avrebbe fatto scuola per alcuni decenni.

A un ambito che potremmo definire franco-fiammingo apparteneva Jean Fouquet (Tours 1415/1420 circa - 1481); ebbe un’attività prevalentemente di miniatore, ma la sua opera più nota oggi è il Dittico di Melun (1450 circa, Berlino, Gemäldegalerie), realizzato dopo un soggiorno in Italia e particolarmente a Roma, a Firenze e a Ferrara. Alla metà del XV secolo era alla corte di Carlo VII, re di Francia, e per il suo tesoriere Etienne Chevalier eseguì il dittico, che ritrae lo stesso Chevalier con santo Stefano nell’anta sinistra e la Madonna del latte col Bambino nella destra; nei tratti della Vergine forse si celano quelli di Agnès Sorel, amante del re. La figura femminile - così ieratica e medievale nella sua astrazione - è una sintesi di preziosismo nordico e volumetria italiana; le due figure maschili appaiono realisticamente individuate nei tratti somatici, come è tipico di Van Eyck, ma sono collocate in una città italiana dalle architetture classicheggianti.



Il Trittico Portinari, di Hugo van der Goes (1477-1478, Firenze, Gallerie degli Uffizi), arrivò a Firenze nel 1483 - dopo un lungo viaggio via mare fino a Pisa, a poi lungo l’Arno - su committenza di Tommaso Portinari, direttore del Banco dei Medici a Bruges. La sua presenza in città ispirò artisti come Botticelli, Piero di Cosimo, Leonardo da Vinci, e soprattutto Domenico Ghirlandaio, che due anni dopo dipinse un’Adorazione dei pastori di evidente gusto “nordico” per uno dei soci di Portinari, Francesco Sassetti, destinata alla sua cappella di famiglia in Santa Trinita.


Jean Fouquet, Dittico di Melun (1450 circa); tavola con il donatore e santo Stefano: Berlino, Gemäldegalerie; tavola con la Madonna del latte col Bambino: Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.


La tavola aveva nel trittico di Van der Goes un evidente modello, basti guardare all’inserimento dei tre pastori sulla destra o alla rinnovata attenzione ai dettagli, alle cose, agli oggetti, insieme naturalistici e simbolici, secondo il costume nordico, ma il dipinto del Ghirlandaio era solo un episodio del momento di grande interesse e ammirazione per la pittura fiamminga a Firenze.

Il trittico doveva stupire già ad ante chiuse, con un’Annunciazione in “grisaille” a simulare un’opera di scultura, con un effetto di profondità illusionisticamente realizzato e un vivace gioco di ombre. Uno dei banchi di prova del talento mimetico di un pittore è l’imitazione di qualcosa che è a sua volta imitazione del reale: una statua, o un rilievo. Una specie di mimesi al quadrato, in cui la pittura rivendica un primato sulla scultura paradossalmente proprio rinunciando al colore, rinunciando cioè agli effetti speciali che il colore consentirebbe in termini di aderenza alla realtà per misurarsi sullo stesso terreno di chi dà forma alla pietra(19). Nella scena di Adorazione all’interno colpisce il contrasto fra l’estrema naturalezza del paesaggio, delle figure e del dettaglio della natura morta centrale (allegoria della Passione e dell’Eucaristia) e - come nella Natività di Petrus Christus - l’uso della scala gerarchica nelle proporzioni dei personaggi - le figure dell’evento sacro sono circa due volte più grandi dei comuni mortali -, retaggio arcaico apparentemente incompatibile con una visione realistica del mondo. In realtà questo bisogno di coerenza, per noi oggi razionalmente indispensabile, era allora inesistente. L’illusionismo naturalistico era ritenuto compatibile con la fede e il sovrannaturale, e nessuna incredulità sopraggiungeva a guastare la festa degli occhi e dell’anima. D’altronde, è vero che alcuni personaggi sono pastori ritratti nella loro quotidiana concretezza, ma non dimentichiamo che in questo stesso dipinto altri hanno le ali e appaiono in grado di volare.





Hugo van der Goes, Trittico Portinari (1477-1478); Firenze, Gallerie degli Uffizi;

(18) Sull’artista rimandiamo a M. Tazartes, Van der Weyden, fascicolo monografico allegato ad “Art e Dossier”, n. 286, marzo 2012.

(19) Su questo tema cfr. Monochrome. Painting in Black and White, catalogo della mostra (Londra, National Gallery 2017-2018; Düsseldorf 2018), a cura di L. Packer e J. Sliwka, Londra 2017.

Van der Goes era nato a Gand nel 1440 circa; fu un artista molto considerato, al tempo, uno dei più talentuosi e preparati dal punto di vista tecnico, capace di lavorare sui particolari con una qualità del colore traslucido, sontuoso - rara anche per una scuola che di questa capacità aveva fatto una specializzazione. Attorno ai quarant’anni fu colto da accessi di follia, si ritirò in un convento presso Bruxelles e vi morì nel 1482.

Fu probabilmente uno dei suoi maestri Juste de Gand, noto tutt’oggi, nei testi italiani, come Giusto di Gand (ma si trova in Vasari come Giusto da Guanto, altrove è Giusto Tedesco…). Il vero nome era Joos van Wassenhove (Gand 1435/1440 - 1480). La ragione dell’italianizzazione è il suo trasferimento a Roma, e poi alla corte di Urbino, nel periodo 1468-1475. In quel contesto ebbe modo di conoscere l’opera di Piero della Francesca e di Melozzo da Forlì. L’istituzione dell’Eucaristia (o Pala del Corpus Domini, 1473-1474, Urbino, Galleria nazionale delle Marche) fu realizzata a Urbino e corredata di una predella già dipinta da Paolo Uccello nel 1467-1469; il Cristo appare in piedi in una chiesa, nell’atto di somministrare il sacramento agli apostoli; sulla destra assiste alla scena Federico da Montefeltro con la sua corte; italiana appare la costruzione prospettica, mentre fiamminghi sono il paesaggio che si intravede da due aperture laterali, l’attenzione alla gestualità, soprattutto delle mani, e i dettagli degli oggetti.


Giusto di Gand, L’istituzione dell’Eucaristia (o Pala del Corpus Domini) (1473-1474); Urbino, Galleria nazionale delle Marche.





Hans Memling, Trittico Donne (1470 circa); Londra, National Gallery. Memling, a Bruges, trova la formula ideale per ingraziarsi l’esigente pubblico locale e – come in questo caso – internazionale (il committente è l’inglese John Donne): una saggia commistione di naturalismo garbato, ricchezza di tessuti e suppellettili, ritrattistica di convincente ma tutt’altro che spietata resa fisiognomica.

Hans Memling chiude in qualche modo il percorso fin qui delineato, che nasce nella miniatura tardo-gotica, come abbiamo visto, e che si aprirà di lì a poco agli sviluppi cinquecenteschi con Hieronymus Bosch, fino a Pieter Bruegel e oltre. Tedesco di nascita (Seligenstadt 1435/1440 circa - Bruges 1494), Memling fu probabilmente allievo di Van der Weyden a Bruxelles attorno ai vent’anni, ma trovò la sua città e il successo a Bruges, dove si trasferì dopo il 1464. Doveva far parte della buona borghesia cittadina, perché esercitava il mestiere senza appartenere alla gilda dei pittori. Un rapporto particolare lo aveva con l’ospedale di San Giovanni, che conserva tuttora molte sue opere ed è diventato Memlingmuseum. La sua versione della pittura del maestro è meno drammatica, più equilibrata e ferma nella costruzione e nella disposizione delle figure, vi prevale un senso di tranquilla monumentalità. La sua qualità principale è la maestria nel trattamento di passaggi di tono delicati fra luce e ombra; meno analitico di Van Eyck, non rinuncia comunque a dettagliare paesaggi riconoscibili (nel Reliquiario di sant’Orsola la città di Colonia appare perfettamente delineata), decorazioni, abiti, piante. Una delle sue opere più rappresentative è il Trittico Donne (1470 circa, Londra, National Gallery). Sir John Donne conobbe Memling al matrimonio di Carlo il Temerario con Margherita di York, nel 1468, in quell’occasione dovette commissionargli il polittico. La scena presenta un’ambientazione unitaria sui tre pannelli: a sinistra san Giovanni Battista, al centro la Madonna col Bambino, due angeli, due sante e i donatori (la famiglia dello stesso Donne), a destra san Giovanni Evangelista. Da notare è il trattamento dei simboli che identificano le due sante, fisicamente vicini alle due figure ma concettualmente parte del paesaggio: Caterina, a sinistra, ha la ruota del martirio rappresentata da quella di un mulino, Barbara, a destra, ha in mano una torre (sua abituale connotazione) ma la tiene in modo da poter ingannare chi, a un primo sguardo, potrebbe immaginarla fare parte dello sfondo.


Maestro di Maria di Borgogna, Maria di Borgogna in preghiera (1477 circa), miniatura dal cod. 1857, c. 14v; Vienna, Österreichisches Nationalbibliothek.

Un compendio, ancora una volta, dell’essenza dell’arte fiamminga, con un solo punto di fuga ma “alto”, col tipico effetto “in salita” del pavimento, una luce pervasiva, ombre accurate e credibili, paesaggio sconfinato, volti diafani e compunti.
Memling era un «borgognone fiammingo nato in terra tedesca», come lo definì Friedrich Schlegel, era un pittore attivo in un luogo e in un periodo in cui nelle Fiandre era possibile dichiararsi borgognoni, far parte dell’Impero, parlare neerlandese, aver avuto una formazione artistica in Francia o in Italia, commerciare lana con gli inglesi e tessuti con i toscani, lavorare per un duca o per un mercante.
Possiamo chiudere idealmente la nostra carrellata su questa fase fondamentale della pittura fiamminga ed europea ancora con una miniatura di un maestro anonimo, dipinta per Maria di Borgogna, figlia di Carlo il Temerario e sposa di Massimiliano d’Asburgo, gli ultimi di una serie gloriosa di duchi di Borgogna durata quasi un secolo; con la salita al trono imperiale di Massimiliano (1486) la coesione del ducato verrà a mancare e niente sarà più come prima. La scena raffigura la stessa Maria di Borgogna in preghiera (1477 circa, Vienna, Österreichisches Nationalbibliothek). Maria compare in primo piano, con un libro di preghiere in mano, intenta alla lettura; l’oggetto della sua preghiera è al di là di una finestra aperta su una chiesa, è la Vergine col Bambino adorata dalla stessa Maria (con altre figure della sua corte) che torna per una seconda volta a essere raffigurata. La pittura fiamminga mette spesso in scena la meditazione del laico sul mistero della fede; un dialogo senza intermediari, una compresenza di sacro e umano e al tempo stesso l’evidenza di una distanza; la dimensione privata e quotidiana che si intreccia a quella divina, secondo un progetto perseguito per decenni dagli artisti fiamminghi del Quattrocento: mostrare l’evidenza del trascendente nella realtà contingente.

PITTURA FIAMMINGA DEL QUATTROCENTO
PITTURA FIAMMINGA DEL QUATTROCENTO
Claudio Pescio
Agli inizi del XV secolo, due diversi 'rinascimenti' prendono forma in Europa: il Rinascimento di riscoperta della classicità, e della scienza prospettica italiano, e il rinnovamento naturalistico fiammingo, fondato sul realismo e sulla luce. Il dossier affronta il periodo di formazione e affermazione di quest'ultimo in area borgognona-franco-fiamminga, dalle prime prove nell'ambito della miniatura fino all'ultimo decennio, attraverso artisti come i Limbourg, Robert Campin, Van Eyck, Van der Weyden, Petrus Christus, Van der Goes, Memling. Si assiste così alla nascita di una pittura ammirata al tempo nell'intero continente, soprattutto in Italia, votata alla riproduzione meticolosa del dato visivo, alla prima definizione dei generi pittorici, al miracolo della luce naturale che dà forma allo spazio.