UN DRAMMA IN ATTO

Nel gennaio 1941, nel clima di instabilità economica, sociale ed emotiva della guerra in atto, Ponti, staccatosi da Gianni Mazzocchi e dalla direzione di “Domus” a causa di un dissidio sulla linea editoriale

mazzocchi vorrebbe dare più spazio alla moda, egli invece all’arte - fonda “Stile” con l’editore Aldo Garzanti (“Lo stile nella casa e nell’arredamento”, recita inizialmente il titolo). Lo concepisce come un laboratorio sperimentale aperto a molte collaborazioni, come un diario personale che egli firma con una serie di pseudonimi (Archias, Artifex, Miros, Serangelo, Tipus), come un campo delle sue lotte, un ricettacolo delle sue riflessioni, un banco di prova delle sue iniziative. Il titolo “Stile” si riferisce a un “modo di essere”, risultato di una cultura che abbia assimilato tutto ciò che è nuovo nell’arte, nell’artigianato, nella scienza, nell’industria, nella tecnica, nel costume, nella moda e che diventi consapevole impegno di una comunità. 

La rivista, in cui esordisce la figlia Lisa, è un campo aperto al mondo che ricerca e sperimenta, è, come lei lo definisce, un disordine vivente, una piazza affollatissima nella quale giungono tutti, non soltanto le firme note (Moravia, Malaparte, Porzio, Irene Brin), non soltanto pittori come De Chirico, Campigli, De Pisis, Guttuso, scultori come Martini, poeti come Sinisgalli, architetti come Gardella, De Carli, B.B.P.R., Albini, Ridolfi, ma anche scrittori sconosciuti che pubblicano i loro racconti, versi, testimonianze, diari, oltre a fotografi e artisti esordienti che presentano le loro opere. Ponti pubblica i loro progetti realizzati, corredati da testi esaustivi, veri studi approfonditi, in cui vi è sempre una nota di approvazione e di lode: «Mi si rimprovera un troppo facile ottimismo laudativo […]», scrive, «ma sono contento di ricevere questo rimprovero piuttosto che quello opposto: dell’astioso pessimismo o dell’ingeneroso giudizio, o peggio del giudizio settario, che ho in orrore [...] Le idee altrui quando discuto, mi seducono sempre, hanno su di me un’attrattiva dialettica grandissima»(22). Però, aggiunge, ripetendo una frase di sua nonna, «i domà coi stüpid hoo mai foa la pas» (soltanto con gli stupidi non mi sono mai inteso)(23).


“Stile”, 1, 1945.


“Stile”, 4, 1945.

(22) C. Rostagni, G. Ponti, Stile di, Milano 2016 p. 161.
(23) Ivi, p. 160.

“Stile” attraversa le vicende critiche della guerra e del ribaltamento delle alleanze e assume il sottotitolo di “Rivista per la Ricostruzione”. Le copertine di “Stile” sono spesso dei veri e propri manifesti politici per combattere la fame e la miseria del dopoguerra. 

Mosso da un sesto senso, in qualunque landa si trovi, Gio Ponti riesce anche a scoprire, a conoscere e a collaborare con i migliori artigiani. È il più grande talent scout delle “mani d’oro” che si trovano in tutta l’Italia. 

Nel gennaio 1943 esce il suo articolo Ritratto dell'artigiano, un tentativo di preservare, davanti all’opinione pubblica, il valore, la grazia di una professione che, con il progredire dell’industria e, ancor più, con il ruolo totalizzante che l’industria ricopre durante il tempo di guerra, tende a passare in secondo piano e a perdere la sua funzione di attività capace di dare un senso alla vita. «Gli artigiani conservano il senso più felice del loro lavoro », scrive. «Sono una classe proba che non sbaglia la vita che fa da sé, che ha i suoi maestri; è una classe nella quale ogni uomo è un individuo […] e non lavora soltanto, ma opera, cioè crea, cioè lavora pensando, perché la cosa gli riesca bene [...] Quanti ne ho conosciuti di galantuomini e sant’uomini artigiani, di quanti ne ho guardate le industriose mani, da papà Magnoni ebanista in Milano, a Zortea, placido ceramista di Bassano del Grappa, al vecchio incisore in legno al quale mi condusse Giampiero Giani, a Nino Ferrari sbalzatore di rame in Brescia, ardente come un fraticello, “chiamato” come pochi altri al suo mestiere […] Di amici artigiani ne ho moltissimi, da Corio Cavanese a Venezia, da Trieste (o Sbocchelli!) a Salerno, da Faenza a Firenze, da Albissola a Napoli, dalla Sardegna (o meravigliose sorelle Coroneo!) alla Sicilia»(24)

Ponti è vicino al popolo aristocraticamente e,certo, anche paternalisticamente, come un nobile dei tempi andati. Memorabili rimangono le sue collaborazioni con l’emiliano Lino Sabattini, raffinato maestro dell’argento, e col professor Paolo De Poli, padovano, impareggiabile artista dello smalto. 

I bombardamenti di Milano del febbraio e dell’agosto 1943 hanno su di lui l’effetto di una rivoluzione catartica, intesa a mutare la situazione dalle radici. «Le distruzioni sono state tanto immani», scrive, «che determinano possibilità di mutamenti dianzi non concepibili»(25). Nel 1944 uscirà Cifre parlanti, ciò che dobbiamo conoscere per ricostruire il paese, nel 1945 Verso la casa esatta, con l’obiettivo di fornire a tutti una serie di progetti di case e una documentazione sugli elementi necessari. 

Durante la Repubblica di Salò (settembre 1943 - aprile 1945) Ponti manda una lettera a Ermanno Amicucci, allora direttore del “Corriere della Sera” e molto vicino a Mussolini, ricordandogli che la casa è un diritto proclamato dal congresso di Verona e sollecitando un calendario di scadenze: «Io sto preparando su questa questione altri articoli», scrive, «perché essi abbiano effetto occorre che la pubblicazione sia programmatica e settimanale […].Vorrei un giornale tutto vivente delle questioni di esistenza e di idee, per le quali oggi vi è una sete grandissima e che solo possano essere sostegno ed alimento della vita, mentre altri argomenti mi paiono soltanto un lenimento, pigro ed abitudinario»(26). Non ha mai ottenuto, come avrebbe voluto, una rubrica fissa di architettura, «argomento capitale e fondamentale, [...] collegato alla sistemazione sociale, al lavoro, alla civiltà, al volto del nostro paese»(27) ma promuove parecchi studi per l’unificazione degli elementi costruttivi; cerca persino di organizzare una serie di attività imprenditoriali ed edili per «far partire la macchina della costruzione in tempi veloci»(28).


Cigno (1956), smalto su rame eseguito da Paolo De Poli.


“Stile”, 3, 1945. Dopo i bombardamenti, Milano è in ginocchio, la gente non sa più dove abitare. Gio Ponti affronta il tema della casa raffigurando tre fasce di popolazione: le prime due, che rappresentano la grande maggioranza, manifestano chiedendo la casa. Soltanto un piccolo gruppo di privilegiati, raffigurato in basso, non si agita e non ha bisogno di nulla.


Toro (1956), smalto su rame eseguito da Paolo De Poli.


Diavolo (anni Cinquanta - Sessanta), smalto su rame eseguito da Paolo De Poli.

(24) Id., Ritratto dell’artigiano, in Gio Ponti e il Corriere della Sera, 1930-1963, cit., pp. 414-415.
(25) Id., La città di domani, in Gio Ponti e il Corriere della Sera, 1930-1963, cit., p. 479.
(26) Id., Lettera a Emanuel Amicucci, direttore del “Corriere della Sera”, in Gio Ponti e il Corriere della Sera, 1930-1963, cit., p. 792.
(27) Ivi, p. 785.
(28) A. Di Virgilio, Nota biografica, in Gio Ponti e il Corriere della Sera, 1930-1963, cit., p. 924.

Il 16 gennaio 1944 esce sul “Corriere” un articolo di Ugo Ojetti, Razionale e ragionevole, sull’architettura razionalista, «un’architettura del tiralinee» tutta «gelida monotonia ed angoli retti»(29). La risposta di Ponti in difesa dell’architettura razionalista non appare sul quotidiano subito dopo, nei giorni successivi, ma soltanto qualche settimana più tardi, indebolendo l’efficacia dei suoi argomenti. Questa vicenda lo colpisce così amaramente da indurlo a sospendere la collaborazione col “Corriere” l’8 febbraio 1944. La riprenderà nel dopoguerra, ma soltanto nel 1948. Infatti, a causa della sua adesione al regime fascista, sarà ostracizzato per qualche anno. Le sue iniziative sulle attività imprenditoriali per la ricostruzione non andranno a buon fine e i suoi studi, benché circostanziati e condotti con metodo scientifico, non verranno presi in considerazione. 

Tuttavia, grazie alla regia occulta del “Migliore”, cioè Palmiro Togliatti, le esclusioni in Italia non sono definitive. Ponti, non ammesso alla Triennale del 1948, verrà reintegrato in quella del 1951. 

Nel dopoguerra la censura tornerà a essere di attualità. Al “Corriere” imperano, quali giudici sull’architettura e sull’arte, Borgese, Papini e Soffici. Gli attori sono cambiati e Ponti assume, come sempre, un ruolo anomalo. Fra le lettere inviate al nuovo direttore Missiroli, ce n’è una, non spedita, in cui egli protesta per i tagli, le indebite manomissioni e l’inserzione di frasi da parte di «chi si sente dittatore anche dei pensieri altrui»(30)

Quando ritorna a dirigere “Domus”, nel 1948, Ponti è il divulgatore di un concetto di modernità che si è esteso ai nuovi materiali, ai nuovi linguaggi, al design. È cambiata anche la veste grafica della rivista, dove tutto viene accolto in una pagina ricchissima, intasata di immagini. Scrive Manolo De Giorgi nella introduzione a Domus 1940-1949: «Visivamente ci sono vent’anni di differenza fra le copertine di Ponti e quelle di Ernesto Rogers: le prime sono degli environments già “alla Fluxus”, dove tutto interagisce e si confonde, le seconde sembrano il 30 e lode del miglior allievo del Bauhaus […] la Domus di Rogers [direttore nel 1946-1947] è la rivista colta di un paese che ha perso la guerra.


“Domus”, febbraio 1932.

(29) U. Ojetti, Razionale e ragionevole, in Gio Ponti e il Corriere della Sera, 1930-1963, cit., p. 910.
(30) G. Ponti, Lettera a Mario Missiroli, direttore del “Corriere della Sera”, in Gio Ponti e il Corriere della Sera, 1930-1963, cit., pp. 802-803.

La Domus di Ponti è la rivista di un paese che dalla guerra ha guadagnato qualcosa, l’ha quasi vinta, per come è riuscito a suscitare un’etica della reazione […]. Sono gli anni in cui si sente il vento d’oltre oceano. Nella Domus rinata compaiono come battitori liberi i trentenni Vittoriano Viganò e Paolo Chessa dallo sguardo analitico, radicale e internazionale. A loro Ponti lascia la libertà totale nel concepire e immaginare il servizio e così il disegno striscia sotto le immagini oppure foto evocative e metaforiche accompagnano l’illustrazione di un progetto»(31)

Dietro alle belle affermazioni di Manolo De Giorgi c’è una forte ragione: Lisa Ponti, che il padre ha totalmente coinvolto in “Domus”, un po’ come Ercole fece con Atlante, mettendogli la terra sulle spalle («Me la tieni un momento?»). Lisa lavorerà per più di quarant’anni con quel profondo spirito di leggerezza che le viene dal suo gusto innato e da un altrettanto innato talento per la comprensione della poesia e dell’arte contemporanea. Lei, figlia di tanto architetto e cognata di Alberto Rosselli, di architettura ne sa abbastanza, anche se questa non è la sua professione. Una mancanza che diventa un atout: non deve nulla a nessuno e “Domus”, come una mongolfiera carica di architettura, anche grazie alla “carta bianca” concessa dall’editore Mazzocchi, prende il volo verso l’arte. 

Come nel mondo della moda il responsabile del casting sceglie le modelle, così in “Domus” Lisa sceglie le immagini, rinfrancata dalla severa fiducia che il padre le ha trasmesso fin dai tempi di “Stile”. Restituire a Cesare quel che è di Cesare significa affermare che senza Lisa Licitra Ponti la “Domus” del secondo dopoguerra non avrebbe potuto essere così internazionale, così artistica, così contemporanea e così diversa dalle riviste di sola architettura. 

Arrivano a “Domus” le splendide foto di Ettore Sottsass, che un caso sorprendente e fortuito ha portato a collaborare con la rivista. Da studente un po’ troppo sicuro di sé, aveva espresso un giudizio ingeneroso su Ponti, descrivendolo come l’esponente di una borghesia oscurantista e retriva. I due si erano poi incontrati, riconoscendosi, in treno. Quel signore “intenso” gli aveva spiegato con voce calma che forse si sbagliava e l’aveva invitato alla redazione di “Domus”. Alla domanda su che cosa facesse, Sottsass aveva risposto: «Disegno architetture che non costruirò mai». Ponti aveva voluto vederle, le aveva guardate con attenzione e le aveva fatte immediatamente pubblicare. Da quel momento Sottsass incomincia a frequentare la direzione di “Domus” dove, grazie a Lisa, spira un’aria elettrizzante e fantasiosa, e non se ne andrà più.


“Domus”, febbraio 1952; copertina dedicata al decoro di facciata disegnato da Dova e realizzato dalla ditta Fulget di Bergamo su un’architettura di Marco Zanuso.


Gianni Mazzocchi, Gio Ponti e Lisa Ponti.

(31) M. De Giorgi, Vicissitudini degli anni ’40, in Domus 1940-1949, ristampa, Milano 2006, p. 13.

Ecco com’era Ponti: invece che legarsi al dito le critiche di Sottsass, riconosce immediatamente il valore del giovane architetto e lo aiuta a “partire”. Quella di Sottsass è forse la più importante, ma Ponti ha inventato decine e decine di startup. Da artista Ponti capta, come un animale che sente il terremoto arrivare prima degli altri, le cose che devono succedere in futuro: The true artist helps the world by revealing mystic truths (Il vero artista aiuta il mondo rivelando verità mistiche) scrive Bruce Nauman con la sua opera al neon (1967). 

Sono di questo periodo le architetture mediterranee: Villa Donegani (1940), tutta di muro bianco con piccole finestre per favorire i giochi del sole e dell’ombra, e la piscina per l’hotel Royal (1948) a Sanremo: una vasca dalla forma non convenzionale, in cui gli ospiti amavano spesso tuffarsi da una palma a bordo piscina. 

La casa è sempre la scena, animata da nuove invenzioni: le sculture in rame smaltato di Paolo De Poli e i mobili fantasmagorici nati dalla collaborazione ventennale con l’amico artista milanese Piero Fornasetti. 

Questo, dal 1940 al 1950, è anche il decennio dell’orrore per ciò che è avvenuto di irreparabile nella civiltà. Nel 1940 Ponti aveva dipinto, per il Palazzo del Bo a Padova, un celebre affresco, allegoria delle forze del bene e di quelle del male, dei sogni e degli incubi della storia. Il bene, la civiltà, è in alto, rappresentata dalle discipline umanistiche, dalle scienze e dalle arti. In basso è il caos infernale dell’origine, che persiste nel tempo. «Ho dipinto […] lì accanto », scrive «due grandi figure: sorgono da un campo di ossami, è lo sterminato campo di ossa dietro di noi e davanti a noi e tra quelle ossa, denari, libri, corone, decorazioni, lettere d’amore, musiche […]. Tutto fa la stessa fine se l’uomo non costruisce e rispetta l’arcano tempio della sua civiltà»(32)

Il critico d’arte Edoardo Persico diceva che gli architetti italiani non riescono a sollevarsi al di sopra della funzionalità dell’opera perché non hanno la fede in un’idea trascendente della morale dell’architetto. Gio Ponti era stato fascista, ma un antifascista come Persico stimava il suo lavoro, perché vi vedeva una libertà non allineata, quasi che l’architettura fosse una religione a servizio dell’uomo. Il suo stile non è fascista, è pontiano, senza la romanità esaltata da Piacentini. Gio Ponti, infatti, segue il suo tempo cercando di indirizzarlo. Ciò che rimane non sono le sue parole, non conosciute da tutti, ma la sua architettura che comunica subliminalmente con milioni di persone con parole di pietra, di cemento o di vetro. 

Nel terribile anno 1944 egli incomincia anche a scrivere un libretto per una pièce teatrale con musica e coro, una meditazione sulla umanità sofferente di cui è testimone e partecipe, perché vuole «essere con i vivi, con i morti, con tutti»(33). Protagonisti, nel fatale ritorno alla natura che è l’esito di ogni guerra, sono gli umili estranei ai «giochi terribili di tecnica, politica e organizzazione»(34)

La vita e le arti, declinate al plurale, sono due ossessioni, due tarli che occupano, soprattutto in questi anni, il suo immaginario. Nel già citato Dipinto in pubblico, articolo per il “Corriere” mai pubblicato, si tratta della sua propria vita: «Qui è espressione di me, non è espressione pittorica. Io non mi compiaccio nell’opera, io voglio dire soltanto l’irreprimibile angoscia […] del mio cuore, l’angoscia che non si staccherà più dalla mia vita, e le mie parole - cioè le mie pennellate - sieno rotte d’angoscia e sieno anche impazzite d’angoscia»(35). Questa è la sua reazione alla guerra.


Ritratto di Gio Ponti di fronte alle decorazioni ceramiche Richard-Ginori da lui realizzate per un bar, presentato su "Domus" nel 1931.


Camera da letto di Gio Ponti e Piero Fornasetti presentata alla IX Triennale di Milano nel 1951, prototipo unico. L’armadio e il letto sono stati disegnati da Ponti, le litografie sono di Fornasetti. Negli anni Cinquanta e Sessanta, ogni mercoledì, dopo la lezione al Politecnico, Ponti pranzava dai Fornasetti. I due artisti, a tavola, oltre a mangiare, disegnavano, progettavano, discutevano e lavoravano divertendosi. Nascono così, quasi per gioco, mobili progettati da Gio Ponti avvolti dai disegni di Fornasetti così sapientemente serigrafati da apparire come immagini proiettate.

(32) G. Ponti, Dipinto in pubblico, cit., p. 835.
(33) L. Falcone, Interni, oggetti, disegni (1920-1976), Milano 2005, p. 42.
(34) L. Crippa in Ponti e la via italiana alla modernità, in Gio Ponti e l’architettura sacra, Cinisello Balsamo 2005, p. 46.
(35) G. Ponti, Dipinto in pubblico, cit., p. 835.

GIO PONTI
GIO PONTI
Jean Blanchaert
La presente pubblicazione è dedicata a Gio Ponti (Milano, 1891-1979). In sommario: Introduzione; Un pittore mancato?; Educazione classica; ''Domus'' e l'architettura, ''anello di fidanzamento dell'uomo con il mondo''; Un dramma in atto; Il mistero della forma; Sostanza di cose sperate. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.