IL MISTERODELLA FORMA

Entrambe, la vita e le arti, sono oggetto di riflessione in quel diario erratico che è L’architettura è un cristallo (1945), ripubblicato due anni dopo con il titolo Amate l’architettura.

Si tratta di una collezione di idee, riflesso di quelle che si sono accumulate nel tempo, quindi - sottolinea l’autore - non inventate, ma trovate. È un libro «fatto come si dipinge»(36), con molti strati di colore, ritocchi, ripensamenti: è, alla fine, un vero e proprio dipinto. Sta quindi al lettore cogliere il capo del filo che, come in un quadro il dettaglio significativo, porta al cuore dell’argomento. Il punto di partenza è il suo primo incontro con l’architettura, la descrizione, cioè, del momento in cui egli dice di riuscire a liberarsi dall’accademia e a trovare la sua espressione, originale e autonoma. Ciò avviene durante la costruzione di una cappella cimiteriale, la cappella per la famiglia Borletti (1929), quando si accorge che i suoi tentativi di raggiungere le belle forme non approdano a nulla e che invece gli elementi architettonici più comuni, non elaborati, sono la parte migliore del progetto. È l’architettura stessa che lo ispira: procedendo sperimentalmente, senza partire da presupposti teorici, egli riesce a cogliere il concetto di quel particolare edificio da cui nasce, inequivocabilmente logica, la forma. «Esiste», scrive, «una logica episodica, illogica, che procede con faticosi tentativi, per constatazioni a posteriori e recuperi, empirica. Essa, attraverso il mestiere, ci conduce, per le sue vie traverse di casi ed anche di immaginazioni, a quei traguardi dei quali, finalmente, riconosciamo la sostanza logica»(37)

Era uscito in quegli anni (1934), per la Nuova Italia (Firenze), L’arte come esperienza di John Dewey (1859-1952). Secondo questo autore, che ridefinisce l’esperienza in rapporto alla qualità ed è particolarmente significativo per Ponti e per gli architetti e gli artisti della sua generazione, nell’arte è presente, concentrata, sublimata, tutta la vita. Essa, l’arte, scaturisce da una relazione emozionale con le cose, che appaiono piene di significato.


Grattacielo Pirelli (1956); Milano.

(36) G. Ponti, Amate l’architettura, cit., p. VIII.
(37) Ivi, p. 55.

Allo stesso modo, Ponti parla di rapporti che si instaurano fra l’opera e chi la sta progettando: essi conducono, in modo chiaro e inequivocabile, verso l’espressione artistica, che egli chiama «la forma di una sostanza». Se si obbedisce a questi rapporti, la costruzione, cioè la sostanza, si esprime finalmente in forma poetica: in una architettura che è arte. 

«Dico spesso», scrive Ponti, «obbedire all’edificio: ciò mi conduce ad addentrarmi in un argomento che mi è caro: quello di considerare la natura veramente appassionante di quei rapporti singolari che a un certo punto insorgono - è la parola - fra l’opera in progetto e chi la sta progettando; rapporti che, se obbediti - eccoci al punto - conducono a visioni generali e lucide sull’architettura, [...] e tendono felicemente a rendere gli architetti subordinati all’opera […]. Solo per questa via essi ricevono l’architettura nelle sue vere leggi»(38). Il simbolo più antico, perfetto, spontaneo, ma che nel modo più sapiente incarna queste leggi è l’obelisco: «L’obelisco, sibillino, metafisico - non per nulla inciso di segni indecifrabili - rappresenta l’architettura arcana, non funzionale»(39)

Nel suo essere conclusa, misteriosa e perfetta, come se nessuno l’avesse creata, l’architettura incorpora in sé le leggi della natura, cristallizzandole. 

Quando l’architettura si rinaturalizza diventando rudere, i valori formali sfumano dietro a qualcosa di ancora più misterioso e di più grande: «la misura dell’uomo, della sua eroicità»(40). Gli italiani accettano la patina, le cose mangiate dal tempo. Nel rudere rimane l’arte. La superficie, quando non è modificata, quando è affidata all’azione dei secoli, rivela la profondità dell’opera. 

Eterne, secondo Ponti, conservate, cioè, in un eterno presente, sono le tracce dell’uomo e le tracce dell’arte: «Non esiste il passato, tutto è contemporaneo nella nostra cultura. Esiste solo il presente nella rappresentazione che ci facciamo del passato e nell’intuizione del futuro. […] L’arte, pur essendo un momento della storia, è come suo valore, fuori della storia. 

[...] Ci serve questo passato per costruire le abitazioni d’oggi, completamente mutate di impiego, di dimensione e struttura, ci serve questo passato per costruire in acciaio o in quella meravigliosa materia che è il cemento armato? Non ci serve»(41)


Grattacielo Pirelli (1956), veduta degli interni con mobili Arflex (Alberto Rosselli) e Rima (Gio Ponti); Milano.


Interno del Grattacielo Pirelli in costruzione.

(38) Ivi, p. 25.
(39) Ivi, pp. 45-46.
(40) Ivi, p. 116.
(41) Ivi, pp. 93, 96, 97.

Nel 1958 viene pubblicato Il mestiere dell’architetto, di Ernesto Nathan Rogers, di fatto un controcanto ad Amate l’architettura. Questi due mondi, di Ponti e di Rogers, che hanno entrambi condizionato profondamente la cultura e la concezione architettonica della loro epoca, sono l’uno l’opposto dell’altro ma s’illuminano a vicenda. Diversità che si riscontrano anche nella concezione dell’arte: per Rogers un elemento che approfondisce la sua etica, per Ponti un assoluto che condiziona la vita, obiettivo finale e unico della sua ricerca. Nel concetto di mestiere di Rogers vi è l’ideale comunitario e la relazione con il contesto. Ponti invece ha in mente la bottega rinascimentale, dove tutte le idee e le invenzioni provengono dal maestro. 

Dicono alcuni critici di Ponti che la Torre Velasca di Ernesto Nathan Rogers, nel suo alludere a una torre medievale, dialoghi con Milano e che la città la riconosca, perché conserva in sé, in filigrana, la memoria dei suoi volti passati, mentre il Grattacielo Pirelli sarebbe paragonabile a un capo di “haute couture”, sorta soltanto per farsi ammirare, perfetta e conclusa nella sua aristocratica bellezza. Bruno Zevi si spinse addiritura a dichiarare che il Pirelli è un mobile bar ingigantito alla scala della città meneghina. In realtà le due torri, come i due architetti che le hanno realizzate, sono amiche. 

Sempre secondo i critici di Ponti, egli non concepisce l’architettura come dialogo con il contesto, appunto, come essa era nata nella “polis” del mondo greco, che ne aveva formalizzato per la prima volta, e per sempre, la teoria, ma come una forma che nasce da se stessa.

È difficile però cogliere in quel sistema di complessità che è Ponti, dicono altri, il suo stile, il segreto alla radice dei diversi aspetti del suo talento, perché egli non ha tempo da dedicare alla spiegazione del suo lavoro. È un poeta, agli altri l’esegesi. 

Gio Ponti è un intero mondo che del secolo trascorso rappresenta tutte le diverse fasi, rinnovandosi a sua volta ogni decennio, un artista che sospinge il passato nel futuro senza fermarsi mai, senza ancorarsi ad alcuna certezza. 

Ci sono molti architetti milanesi che sono diventati designer per vedere realizzate le loro idee. La mancanza di committenze e di spazi edificabili li ha spinti a ciò. Le loro creazioni sono architetture bonsai. Gio Ponti, invece, mago del disegno, del design e delle relazioni, di committenti ne aveva, e terreni edificabili pure, in tutto il mondo. Se gli altri architetti per lavorare hanno dovuto rimpicciolirsi, egli invece ha potuto ingrandire, anche in scala 1/1000, i suoi oggetti di disegno-design, facendoli diventare edifici. 

«In una generazione lontana da quella dei figli che hanno ucciso il padre», osserva Marco Romanelli, «Ponti comincia a essere considerato un imprescindibile punto di riferimento […] Egli ci libera da un tipo di architettura che era bloccato in strettoie politiche e accademiche, più teorica che sentita nell’anima»(42)

Nelle università, nel secondo dopoguerra, di Ponti non si poteva parlare. 

Lo studio milanese Ponti Fornaroli Rosselli si sposta, nel 1952, nel grandissimo spazio di via Dezza che ospita anche la redazione di “Domus”, e che vedrà la nascita di “Stile e industria” a opera di Alberto Rosselli, genero di Ponti. Ponti è ora nei suoi anni più inventivi, ma anche più essenziali, scopre e promuove la “sedia-sedia” e il “tavolo-tavolo”, cioè le loro forme originarie. Inventa la sedia Superleggera per Cassina (1957) fortissima e semplicissima.


Sedia Superleggera (1957), modello 699; ditta Cassina di Meda (Monza e Brianza).


un gruppo di sedie Superleggera, (1957), modello 699, accatastate nello stabilimento Cassina di Meda (Monza e Brianza).

(42) M. Romanelli, Prologo, in Gio Ponti. A World, Milano 2002.

Dall’inizio del decennio le navi da lui arredate, Conte Grande, Andrea Doria e Conte Biancamano, viaggiano come araldi della bellezza italiana nel mondo portando le ceramiche di Melotti, Fontana, Leoncillo, le opere di Sironi e Campigli. Sono questi gli anni in cui si sposta da Stoccolma, dove progetta e realizza l’Istituto italiano di cultura (1954), al Venezuela, dove costruisce la Villa Planchart (1955) e la Villa Arreaza (1956) a Caracas, a Teheran, dove edifica la Villa Nemazee (1957), a New York, dove si reca nel 1958 con Melotti, per realizzare la sede dell’Alitalia sulla Quinta strada, a Baghdad, dove vede sorgere, su suo progetto, il palazzo degli Uffici governativi (1958). 

La Villa Planchart è «posata sul suolo come una farfalla»(43), con i muri che appaiono senza peso, distaccati come sono fra di loro, dalla copertura e dal suolo. Di notte è un’architettura disegnata dalla luce che filtra da queste aperture. Magicamente, sulle colline che circondano Caracas, troviamo uno dei grandi capolavori di Ponti, realizzato in assoluta libertà con la totale fiducia dei committenti, i coniugi Anala e Armando Planchart. Come scrive Fulvio Irace «nella forma chiusa e non articolata della villa Planchart, Ponti fornisce una serena lezione di stile, rifiutando la suggestione vernacolare ma anche il pittoresco semplificato dell’internazionalismo moderno»(44).


Gio Ponti ritratto all’Air Terminal Alitalia a New York nel 1958 in una fotografia spiritosa con il figlio Giulio sullo sfondo.

(43) L. Ponti, op. cit., p. 169.
(44) Gio Ponti, catalogo della mostra promossa dal Comitato organizzatore del Salone del mobile (Cosmit) (Milano, aprile 1997), a cura di F. Irace, Milano 1997, p. 76.

Istituto italiano di cultura (1954); Stoccolma.


Villa Planchart (1955); El Cerrito (Caracas).


Villa Planchart (1955), veduta degli interni; El Cerrito (Caracas).

Il Grattacielo Pirelli (1956), un «piccolo grattacielo affilato (m 127,10 di altezza; 18,50 di profondità al centro; 70,40 di larghezza)»(45), si basa sul sottile equilibrio di un rapporto minimo fra larghezza e altezza, che la spregiudicata bravura di Pier Luigi Nervi ottiene, ricorrendo alla massima sottrazione di peso. È antico, nella sua modernità, come un obelisco o una meridiana.
È del 1951 il Secondo Palazzo Montecatini che, accanto al primo, crea uno spazio di architettura razionalista industriale nel cuore di Milano, simbolo per i suoi abitanti di un’età feconda di relazioni e confronti, scaturiti all’interno dell’utopia della città per tutti, giusta, razionale, bella.

Primo e Secondo Palazzo Montecatini (1936 e 1951); Milano.


Secondo Palazzo Montecatini (1951); Milano.

(45) L. Ponti, op. cit., p. 180.

GIO PONTI
GIO PONTI
Jean Blanchaert
La presente pubblicazione è dedicata a Gio Ponti (Milano, 1891-1979). In sommario: Introduzione; Un pittore mancato?; Educazione classica; ''Domus'' e l'architettura, ''anello di fidanzamento dell'uomo con il mondo''; Un dramma in atto; Il mistero della forma; Sostanza di cose sperate. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.