PUNCTI

È il 1922. Marcel Temporal invita alcuni giovani a partecipare con i propri lavori alla sezione urbana del Salon d’Automne. Chiede a Le Corbusier di realizzare «una bella fontana o qualcosa del genere».

Le Corbusier accetta l’invito e si presenta con la “maquette” di un’abitazione e con il progetto di una città. La casa si chiama «Citrohan», un gioco di parole per non dire «Citroën». Il prototipo raffigura una scatola bianca su pilastri, con un tetto piano e una terrazza praticabile. In parte sollevata su pilotis in cemento armato, essa ospita al piano terra gli impianti di riscaldamento e uno spazio per l’automobile. È dotata di un soggiorno a doppia altezza illuminato da ampie finestre planari di tipo industriale; cucine, bagni e camere sono collocati nel retro. 

Le Corbusier definisce la casa Citrohan, una «machine à habiter», intendendo con tale affermazione l’idea di un’abitazione messa a punto a partire dalle questioni più basilari ed essenziali del vivere. «Se si sradicano dal proprio cuore e dalla propria mente i concetti sorpassati di casa e si esamina la questione dal punto di vista critico e oggettivo, si arriverà alla casa-strumento, casa in serie, sana (anche moralmente) e bella dell’estetica degli strumenti di lavoro che accompagnano la nostra esistenza». Una casa concepita come un’automobile e attrezzata così come si dispongono gli arredi delle cabine delle navi. 

La casa Citrohan si basa su dei principi che implicano l’adesione a una visione ben più vasta che non si limita alla sola scala dell’architettura: con essa sorgerà la Ville contemporaine per 3 milioni di abitanti - il numero dei cittadini residenti a Parigi nel 1910. Attraversata da uno spirito di razionalità e disciplina, la città è pensata secondo principi di ordine, divisione e regolarizzazione. La serialità organizza gli edifici: a un nucleo centrale di ventiquattro grattacieli di sessanta piani si affiancano edifici a sviluppo mistilineo (“à redents”) alti sei piani ed edifici a corte alti cinque piani. 

L’organizzazione regola la circolazione distinta su livelli diversi. Gli edifici a corte, chiamati Immeubles-Villas, saranno composti dalla sovrapposizione di unità abitative organizzate su due livelli, una declinazione della casa Citrohan.


casa Citrohan (1922), maquette.


casa-studio per Amédée Ozenfant (1922), in una foto del 2004; Parigi.

immagine di casa La Roche-Jeanneret (1923-1925); Parigi.


immagine di casa La Roche-Jeanneret (1923-1925); Parigi.


progetto per Ville contemporaine per tre milioni di abitanti (1922).

Nell’insieme Le Corbusier espone «la manifestazione magnifica e potente del XX secolo»: la casa è concepita come uno strumento e la città non ha più nulla dell’organica configurazione di quella storica. 

Nel frattempo, con suo cugino Pierre Jeanneret, è impegnato nella realizzazione di alcune abitazioni e atelier su dei piccoli lotti suburbani attorno a Parigi. I clienti - come il suo amico Amédée Ozenfant, il banchiere e collezionista di dipinti Raoul La Roche, il fratello Albert Jeanneret o il pittore americano Cook - sono parte di quella che Wynglham Lewis chiamava «bohémien dell’alta borghesia». Tali commesse gli permettono di comprendere come trasformare le sue intenzioni in costruzioni reali. E di iniziare a mettere a punto degli elementi che diventeranno delle costanti nel suo lavoro. 

In aderenza con i principi puristi, i volumi sono netti e lineari, le facciate e gli spazi interni sono studiati secondo “tracés régulateurs” basati sulla geometria del triangolo e sulla sezione aurea. Prevale il bianco oltre all’utilizzo di colori primari per gli interni. 

L’utilizzo dello scheletro di cemento consente di sollevare i volumi dal terreno tramite pilotis a sezione circolare; di creare ampie finestrature che inondano gli spazi di luce e di utilizzare le coperture come terrazze-giardino; esso inoltre permette l’articolazione di ambienti interni che variano per dimensioni e altezze. Qui, scale, rampe e passaggi sopraelevati, come avviene nei transatlantici, permettono di godere di una pluralità di punti di vista. Mentre impianti, attrezzature domestiche, semplici sedie Thonet, radiatori, nude lampadine a bulbo, finestre di produzione industriale, corrimani a sezione circolare, semplici contenitori metallici, sono gli “objet-type” che compaiono nei suoi dipinti: oggetti che «tendono verso un tipo determinato dalle forme tra l’ideale di massima utilità e le esigenze di produzione industriale».


Villa Cook (1926-1927), foto del 2006; Boulogne-sur-Seine (Francia).


Villa Cook (1926-1927), foto del 2006; Boulogne-sur-Seine (Francia).

Padiglione della rivista “L’Esprit Nouveau”, Exposition internationale des Arts décoratifs et industriels modernes, Parigi 1925. una veduta dell’esterno.


particolare dell’interno. Questa immagine è tratta da Le Corbusier e P. Jeanneret, OEuvre complète (1910-1929), a cura di W. Boesiger e O. Stonorov, Zurigo 1964.

Convergono, in tali abitazioni e in quelle successive, il sistema Dom-ino, le cubiche abitazioni imbiancate a calce e l’alternarsi di spazi stretti e ampli tipici degli agglomerati mediterranei, i coevi progetti di Adolf Loos e Tony Garnier e, insieme, le anonime case-studio costruite a Parigi nella prima parte del secolo, oltreché quel composito immaginario estetico che Le Corbusier sta costruendo all’interno della rivista “L’Esprit Nouveau”. 

Quando nel 1925 partecipa all’Exposition internationale des Arts décoratifs et industriels modernes di Parigi, Le Corbusier ha già raggiunto un controllo dei suoi mezzi di espressione: costruire il padiglione della rivista “L’Esprit Nouveau” è l’occasione per dimostrare concretamente il suo concetto di riproducibilità messo a punto in occasione della precedente esposizione. Il padiglione è, in scala reale, quella singola unità abitativa che tramite un processo di moltiplicazione, avrebbe composto gli Immeubles-Villas”. Mentre il “Plan Voisin” presentato all’interno del padiglione, adatta il piano della Ville contemporaine al caso concreto di Parigi: il centro storico della città va assolutamente demolito per fare posto alla nuova città della civilizzazione macchinista.


Quartieri moderni Frugès (1924-1927), in una foto del 1995; Pessac (Francia).


Plan Voisin, plastico esposto al padiglione della rivista “L’Esprit Nouveau”, Exposition internationale des Arts décoratifs et industriels modernes, Parigi 1925.

Il principio della serialità della costruzione che dalla singola unità abitativa è trasferita alla scala dell’intera città, trova contemporaneamente la sua attuazione nei Quartieri moderni Frugès a Pessac. Le Corbusier convince un industriale di Bordeaux ad applicare le tecniche più avanzate del tempo per realizzare un intero quartiere. Indica come parole d’ordine dell’intervento: standardizzazione, industrializzazione e taylorizzazione. L’obiettivo è di ridurre i costi di costruzione per rendere le abitazioni accessibili alle classi meno abbienti e di utilizzare per tutta la lottizzazione un unico sistema strutturale in cemento armato. Chiaramente Le Corbusier non ha un’esperienza tale da raggiungere un risultato ottimale. Eppure il quartiere testimonia il tentativo di impostare il problema dell’abitazione come bene di consumo di massa attraverso l’applicazione di un unico principio: a partire dal modello della casa Dom-ino, attraverso una serie di combinazioni, si possono mettere a punto differenti tipologie abitative fino ad arrivare a quelli che il loro autore chiama grattacieli (edifici alti quattro piani!). 

Quando nel 1926 Michael e Sara Stein e Gabrielle De Monzie gli chiedono di progettare una villa a Garches, poche miglia a ovest di Parigi, Le Corbusier ha già definito quali sono le “leggi” del suo fare, i cosiddetti “Cinque punti di una Nuova Architettura”: i pilotis, il tetto giardino, la pianta libera, la facciata libera e la finestra a nastro. Si tratta di soluzioni generiche volte a trascendere le specificità dei singoli casi, elementi di un sistema fondato su «vérités irrécusables». Eppure, nell’atto pratico, nelle sue costruzioni, queste “regole” contengono sempre delle “eccezioni”, evidenziando in tal modo quanto poco in realtà l’architettura possa essere soggetta a canoni. 

Così, in villa Stein-de-Monzie non compaiono i pilotis ma l’impaginato delle finestre fa intuire che la facciata è una semplice membrana; il tetto giardino non è visibile eppure un volume che ricorda la ciminiera di un transatlantico allude alla percorribilità dell’ultimo piano. In aderenza al principio della “pianta libera”, ogni livello dell’abitazione è pensato e distribuito in modo diverso eppure una regola attraversa tutti gli spazi: l’alternarsi degli opposti.


Villa Stein-de Monzie (1926-1928); Garches (Francia). Veduta del fronte principale in una foto del 2006.


veduta del retro.

Da spazi stretti si accede a spazi espansi; i pilastri segnano i punti di un ritmico spazio cartesiano, ma insieme morbide pareti accompagnano i movimenti del corpo. Le facciate e le piante sono concepite a partire dal numero aureo e sulla base di tracciati regolatori, quindi attraverso espedienti proporzionali provenienti da lontano e sperimentati nel tempo, eppure numerosi elementi “imprevisti” contraddicono tali leggi universali. Le facciate di villa Stein-de-Monzie sono attraversate da corpi plasticamente autonomi ed elementi che recano in sé qualcosa dell’immaginario che compare in “L’Esprit Nouveau”. Il prospetto sul retro, per esempio, è segnato da una poderosa rampa di scale e da un curvo volume destinato a deposito: allusioni a volumi navali; mentre, nel prospetto principale, compaiono corpi aggettanti e l’ingresso è segnato da un grande elemento a sbalzo che richiama un ponte levatoio retto da tiranti simili a quelli degli aeroplani. 

L’universo macchinista dialoga con l’architettura attraverso suggestioni formali. 

D’altronde, le architetture di Le Corbusier raramente presentano innovazioni in ambito costruttivo.


Tre fotografie di villa Savoye Poissy (1928-1931); Poissy (Francia). l’esterno.

Veduta dell’interno.


Veduta dell’interno.

La dialettica tra regola ed eccezione, tra memoria e universo macchinista, l’utilizzo di tracciati regolatori sia in pianta che in alzato, i “Cinque punti della nuova architettura” e qualcosa di più o di meno di essi trovano la loro più compiuta realizzazione nella villa Savoye. Questo bianco parallelepipedo staccato dalla natura tramite pilotis e solcato dalle “fenêtres en longueur”, questo “oggetto” che allude con i suoi sistemi proporzionali all’ordine e all’armonia di quiete opere classiche, cela un interno spazialmente complesso e articolato. L’apparente rigore cartesiano è infatti contraddetto da un compenetrarsi degli spazi interni ed esterni e dalla “promenade architecturale”: un percorso ascetico che divide e insieme connette gli spazi e che in un inanellarsi di inaspettate visioni in movimento conduce sul tetto-giardino. Lì, dove si recupera la superficie sottratta alla natura, si offre una visione scultorea della stessa. Semplice e complessa, cerebrale e sensuale, villa Savoye è la massima espressione di un percorso ideativo e intellettuale iniziato molti anni addietro: al pari del Partenone o di una Ferrari, è un “oggetto di lusso” che ha raggiunto il suo climax.


Solarium dell’appartamento per Charles de Beistegui (1929-1931); Parigi.

Pranzo al faro (1928).


La ballerina e il piccolo felino (1932).

Una volta raggiunto tale climax, Le Corbusier inizia a inserire nei suoi dipinti radici, sassi, conchiglie: «questi frammenti di elementi naturali, schegge di pietra, fossili, pezzi di legno, queste cose martirizzate dagli elementi, l’usura, l’erosione, la dissoluzione, non solo hanno delle qualità plastiche, ma anche uno straordinario potenziale poetico». Per non correre il rischio di ripetersi, Le Corbusier amplia il suo spazio ideativo. Agli oggetti prodotti in serie, semplici e ordinari, agli “object-type” affianca gli “objets trouvés”, e insieme sinuose figure femminili. Lo spazio rigido, ordinato e stereometrico del purismo si affastella di nuovi elementi. Attraversati da echi surrealisti, i quadri di Le Corbusier diventano progressivamente sempre più complessi e tengono insieme più soggetti.


Villa di Madame Hélène de Mandrot (1929-1932); Le Pradet (Francia).


casa del Weekend (1935); La Celle-Saint-Cloud (Francia).

Ed è proprio un ironico e surreale capovolgimento tra natura e artificio ciò che è possibile sperimentare all’ultimo piano dell’appartamento parigino di Charles de Beistegui. Costruito su tre livelli, il suo attraversamento permette una progressione di ambienti dal significato diverso che ha il suo apice in una surreale stanza a cielo aperto: un solarium dotato di un manto erboso e di un camino. La riflessione sull’età della macchina si arricchisce di elementi primordiali. E così, se in Provenza la villa di Madame Hélène de Mandrot mostra contemporaneamente la combinazione tra la tecnologia universale del telaio in acciaio e l’artigianato locale delle costruzioni in muratura, nella periferia di Parigi la casa del Weekend può essere considerata come una capanna primitiva nell’epoca macchinista. 

Tutto ciò coincide con gli anni Trenta, quando Le Corbusier amplia la sua sfera di azione. Sono gli anni dei Congressi internazionali di architettura moderna (CIAM), tentativo di mobilitazione collettiva; di nuove opportunità lavorative in Nord Africa, Brasile, nei Tropici e nel Mediterrano; mentre, in Europa, una serie di concorsi e commesse istituzionali lo pongono di fronte alla progettazione di alcuni edifici ad alto valore rappresentativo. 

Di fronte a programmi ben più complessi di quelli relativi all’abitazione, Le Corbusier e Pierre Jeanneret rompono la tradizionale configurazione compatta dell’edificio a carattere simbolico e ne identificano le singole parti. All’iconografia tradizionale monumentale si sostituisce così una «machine à habiter» collettiva.


Cité de Refuge (1929-1933), edificio per l’Armée du Salut, in una foto del 2005; Parigi.

padiglione svizzero alla Città universitaria (1929-1933), foto del 2005; Parigi.


padiglione svizzero alla Città universitaria (1929-1933), foto del 2005; Parigi.

Sia l’Unione centrale delle cooperative dei consumatori a Mosca, il cosiddetto Centrosojuz, che la Cité de Refuge a Parigi sono immensi corpi rettilinei con facciate realizzate interamente a doppi vetri - “pan de verre” - su cui si stagliano i volumi degli spazi pubblici e di rappresentanza. Sebbene tali spazi entrino in relazione con la città in modo diverso, in entrambi i casi essi trovano dimora in volumi fuori scala che si stagliano su sfondi continui e sono accostati o allineati come in un sistema classificatorio. Passerelle e passaggi coperti ne garantiscono i collegamenti. Le due costruzioni sanciscono anche un primato tecnologico: rudimentali sistemi meccanici di ventilazione e riscaldamento sono volti a rendere queste «machine à habiter» degli edifici collettivi autosufficienti. Sistemi che però si sono rivelati non in grado di garantire condizioni climatiche efficienti: il “pan de verre” dell’Armée du Salut è stato sostituito da finestre. 

Con la costruzione del padiglione svizzero alla Città universitaria di Parigi, Le Corbusier dimostra concretamente come le moderne tecniche costruttive possono essere impiegate in un edificio pubblico: i pilotis sollevano la costruzione per lasciare il terreno libero alla circolazione. Al volume regolare destinato a residenze studentesche si affiancano due corpi piegati e disassati che ospitano le parti comuni e i servizi. A essi si accede attraverso il portico definito dall’edificio e che può anche essere utilizzato come spazio di relax. Qui compaiono i nuovi elementi qualitativi presenti nei suoi quadri: i pilotis assumono per la prima volta una conformazione plastica evidenziata dal cemento lasciato a vista e al vetro sono affiancate la pietra bugnata e le lastre di cemento.


Ville radieuse (1930), maquette.

Ma Le Corbusier accumula diverse sconfitte. A Ginevra il progetto della Società delle nazioni, per esempio, è escluso dall’elaborazione finale; mentre a Mosca il palazzo dei Soviet, se valutato in rapporto al magniloquente progetto vincitore di Boris Iofan, è semplicemente inaccettabile. In tutti i casi si tratta di edifici collettivi concepiti come “laboratori”: «In quegli anni dal 1929 al 1934 […] volevamo che ogni elemento costruttivo fosse la prova sperimentale che ci permettesse di adottare le necessarie iniziative urbanistiche». La cornice di riferimento di questi progetti è costituita infatti dalla Ville radieuse: rivisitazione della Ville contemporaine, essa è concepita come un grande parco totalmente destinato a pratiche collettive e la cui continuità è garantita da edifici sollevati dal terreno tramite i pilotis. Le Corbusier propone la sua utopia a Mosca, Anversa, Buenos Aires, Manhattan, con indifferenza per qualsiasi contesto culturale, politico o economico. Nel 1935 è a Manhattan: «I grattacieli sono troppo piccoli e vicini tra di loro!» afferma strategicamente per esaltare la sua Ville radieuse; arriva addirittura a sperare che Mussolini possa realizzare il suo sogno ideale. In effetti, per sua stessa ammissione, Le Corbusier non si lega stabilmente ad alcuna ideologia: «Capitalismo, borghesia, proletariato? Non rispondo che con un termine che esprime la mia linea di condotta e determina la mia attitudine rivoluzionaria: umano».


Case Jaoul (1952-1956); Neuilly-sur-Seine (Francia). l’interno.


Case Jaoul (1952-1956); Neuilly-sur-Seine (Francia). una veduta dell’esterno.

Nel secondo dopoguerra, quei motivi che erano all’opera nella produzione degli anni Trenta diventano predominanti: materiali naturali, il “béton brut”, linguaggi legati alla cultura mediterranea e una vena di primitivismo si affiancano agli elementi della civilizzazione meccanicista. Significativo è il raffronto tra le case Jaoul e la vicina villa a Garche realizzata venticinque anni prima. Nella casa Jaoul il tetto piano punteggiato da forme scultoree diventa sede di un manto erboso. L’estetica di superfici bianche diventa arcigna e parla un linguaggio spontaneo: le superfici intonacate in bianco sono sostituite da pareti in mattoni pieni. La “fenêtre en longueur” lascia il suo posto a infissi dalle dimensioni eterogenee, incorniciati e rivestiti da pannelli in legno. Il livello tecnologico della costruzione riflette in parte una produzione artigianale dovuta alla manodopera impiegata: operai algerini forniti di attrezzature rudimentali. Mentre gli ambienti interni, scansiti dalle volte catalane, sono caratterizzati da un’illuminazione irregolare e drammatica, molto lontana da quella luce chiara e continua che aveva caratterizzato le case del periodo purista. Come evidenziato dai suoi abitanti, si tratta di ambienti «belli e tristi come un museo». Come “bella e triste” doveva apparire - questa volta agli occhi di Le Corbusier - l’Unité d’habitation. 

Concepita come soluzione normativa e universale per un modo di vita possibile in un sistema industriale e realizzata in più località - a Marsiglia, a Nantes, a Briey-en-Forêt, a Meraux, a Firminy e una a Berlino - l’Unité è, ancora una volta, solo un “pezzo” di quell’utopia rappresentata dalla Ville radieuse. È all’interno di quel piano infatti che Le Corbusier concepisce le “unités”: edifici che combinano residenza e attività collettive e che sono organizzati nello spazio secondo l’ottocentesca conformazione “à redents”. Milleottocento è in effetti il numero della popolazione previsto per la micro-società dell’Unité: il medesimo numero suggerito da Charles Fourier, più di un secolo prima, per il suo falansterio. Eppure, rispetto a quella del suo predecessore, l’utopia dell’Unité è di ben poca entità. 

Commissionata dal ministro della Ricostruzione francese per far fronte alla carenza di alloggi, l’Unité d’habitation di Marsiglia è un imponente superblocco sollevato da terra tramite ciclopici pilotis e che parla la lingua plastica e brutalista del cemento lasciato a vista.


Unité d’habitation (1946-1952); Marsiglia.


Unité d’habitation (1946-1952); Marsiglia.

il Modulor e gli studi sulla successione di Fibonacci. Questa immagine è tratta da Le Corbusier, Modulor 2 1955 (La Parole est aux usagers). Suite de ÒLe ModulorÓ 1948, Boulogne 1955.


Ozon, Opus I (1947).

convento domenicano di Sainte-Marie de la Tourette a Eveux (Francia, 1952-1960), foto del 2004.


convento domenicano di Sainte-Marie de la Tourette a Eveux (Francia, 1952-1960), foto del 2004.

Come negli altri suoi lavori, vi convergono le riflessioni degli anni precedenti. 

La casa Citrohan e le cellule dei monaci della certosa d’Ema sono i modelli per la distribuzione degli appartamenti. I “Cinque punti dell’architettura” vengono assoggettati a una serie di sistemazioni legate all’esperienza: il problematico “pan de verre”, per esempio, viene adesso protetto da frangisole (“brise-soleil”). Le dimensioni in pianta e alzato sono regolate dal Modulor. 

Messo a punto negli anni precedenti, si tratta di un sistema proporzionale che sfida il mito dell’uomo vitruviano e si basa sulla successione di Fibonacci. Erede dei “tracés régulateurs”, il Modulor permette di conferire all’edificio un ordine matematico che si serve di proporzioni universali. Sul tetto giocheranno i bambini in mezzo a una natura artificiale, composta da elementi scultorei che alludono al ponte di coperta di una nave. 

Quando nel 1953 realizza il convento domenicano di Sainte-Marie de la Tourette, vicino a Lione, Le Corbusier può misurarsi con il tema di una comunità che vive organicamente. Qui, “leggi” e modelli di riferimento costruiti nel corso di anni di studio ancora una volta si stratificano e si scontrano. L’architettura è frutto di una ricerca tormentata: ogni costruzione segna degli avanzamenti e, a volte, delle rinunce. 

Nel convento di La Tourrette, i pilotis cilindrici o plastici sono sostituiti da pilastri a piastra; le finestre sono costituite da soluzioni plurime: nicchie aggettanti in corrispondenza delle celle, e “ondulatoires” - montanti in cemento - segnano le pareti vetrate. Le misure del Modulor determinano tutte le dimensioni degli spazi. Il cortile appare come un tumultuoso scontrarsi di “objets trouvés”: camini, cilindri, volumi piramidali si affastellano sui percorsi inclinati che abitano la corte. Il tema di una comunità ideale dà luogo a un edificio che costruisce un’immagine problematica. E mentre La Tourrette è in costruzione, è proprio la realizzazione di un altro edificio religioso che lascia smarriti gli architetti del tempo. 

«Le Corbusier ci ha traditi!», titolano le riviste dell’epoca. 

L’architetto della ragione, l’architetto della macchina, realizza una costruzione primitiva, arcaica, evocativa. Libera da modelli e in un intrecciarsi di motivi puristi, surrealisti e neoplastici, la cappella di Notre-Dame-du-Haut, a Ronchamp, capovolge tutte le “certezze” attribuite a Le Corbusier. Il suo bianco è materico, le sue superfici sono rugose; le sue pareti sono ciclopiche; la sua copertura è in cemento armato eppure non è piana: è un grande volume plastico, che insieme appare leggerissimo.


Cappella Notre-Dame-du-Haut (1950-1955), in una foto del 2015; a Ronchamp (Francia).


Cappella Notre-Dame-du-Haut (1950-1955); Ronchamp (Francia). una veduta posteriore dell’esterno.


Cappella Notre-Dame-du-Haut (1950-1955); Ronchamp (Francia). Una veduta dell’interno.

Gli standard e la razionalità non hanno accesso allo spazio del sacro. È qui che l’architettura può “commuovere”. 

E quando nel 1950 è nominato dal governo indiano consigliere architettonico governativo per realizzare la capitale dello Stato indiano del Punjab che ha raggiunto l’indipendenza; quando finalmente ha l’occasione concreta di realizzare una delle sue utopie, Le Corbusier, ancora una volta, scuote ogni certezza. In aderenza con gli standard urbanistici propugnati nella Carta d'Atene e basati sulla zonizzazione, fornisce delle indicazioni di massima per il piano della città e si concentra piuttosto nella progettazione degli edifici del “Campidoglio”. Un Campidoglio singolare poiché non occupa il centro della città bensì la sua periferia. È lì, infatti, in un enorme e desolato territorio circondato dalle imponenti vette dell’Himalaya, che Le Corbusier costruisce una rappresentazione che va ben oltre l’assolvimento di alcune funzioni istituzionali. Una rappresentazione di ordine “cosmico”. 

Al pari dei luoghi sacri indiani in cui i templi terrazzati sono collegati tra di loro mediante percorsi obbligati e articolati, gli edifici del Segretariato, dell’Alta corte di giustizia e del Parlamento (il Palazzo del governatore non viene realizzato) sono grandi costruzioni isolate che si guardano a distanza: tra loro si sviluppa un paesaggio composto da vasche d’acqua, terrapieni, piattaforme, percorsi artificiali e completato dal Monumento della mano aperta. E se l’edificio del Segretariato, con i suoi duecentocinquanta metri di lunghezza, allude alla potenza sovrumana e ordinatrice della burocrazia, se l’edificio dell’Alta corte di giustizia richiama la civiltà romana costruendo l’immagine di un antico acquedotto abitato, nell’edificio del Parlamento Le Corbusier concentra elementi dalle plurime valenze simboliche. Qui infatti un impianto simile a quello del convento di La Tourrette è contrassegnato da un portico la cui copertura descrive il profilo di una mezzaluna rivolta verso il cielo e da due enormi volumi che lo sormontano: un iperboloide troncato in obliquo e una piramide sghemba. Sedi rispettivamente della sala dell’Assemblea e di quella del Senato, queste due «grandi forme primarie» s’intrecciano con plurimi segni esoterici del contesto indiano (la forma a mezzaluna rivolta verso l’alto, per esempio, è simbolo di fertilità) e si innestano in un impianto industriale moderno. Nel complesso l’immagine del Parlamento è duplice e contraddittoria.


Alta corte (1951-1955); Chandigarh (India).


Il “Campidoglio” (1951-1963); Chandigarh (India).


Edificio del Segretariato (1958); Chandigarh (India).


particolare della facciata.

Palazzo dell’assemblea (1951-1965); Chandigarh (India). l’esterno.


Palazzo dell’assemblea (1951-1965); Chandigarh (India). particolare dell’interno.

A Chandigarh, Le Corbusier chiude un ciclo intellettuale aperto cinquant’anni prima: di fronte alla vastità della natura, realizza colossali e solenni “rovine”. Tra di esse, a ridosso della cosiddetta Fossa della considerazione, pone il Monumento della mano aperta. Nella sua copia di Così parlò Zarathustra, accanto alle parole: «Je voudrais donner et distribuer jusqu’à ce que les sages parmi les hommes soient redevenus joyeux de leur folie, et les pauvres, heureux de leur richesse», Le Corbusier ha annotato: «= la Main Ouverte». Sintesi tra una colomba della pace picassiana e una mano, si tratta di un simbolo della speranza e del cambiamento: «Aperta a ricevere la ricchezza che il mondo ha creato, per distribuirla alle genti del mondo, la Mano Aperta doveva essere il simbolo della nostra epoca, [...] l’era dell’armonia»(*).


Toro XIII (1956).


Monumento della mano aperta (1951); Chandigarh (India).

(*) Le Corbusier, in The Open Hand. Essays on Le Corbusier, a cura di R. Walden, Cambridge (Stati Uniti) 1977.

LE CORBUSIER
LE CORBUSIER
Gabriella Lo Ricco
Un dossier dedicato a Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Edouard Jeanneret-Gris (La Chaux-de-Fonds, 1887 - Roccabruna, 1965). In sommario: La formazione: radici duplici; ''L'Esprit Nouveau''; Puncti. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.