Outsiders

SE QUESTO È UN UOMO
LE IBRIDAZIONI DI TETSUYA ISHIDA

di Alfredo Accatino

Un viaggio alternativo nell’arte del Novecento, alla scoperta di grandi artisti, opere e storie spesso dimenticate: Tetsuya Ishida

In Giappone esiste un luogo, la foresta Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, che vanta il maggior numero di suicidi per chilometro quadrato al mondo: trenta/quaranta l’anno, settantotto nel 2007, tanto che una serie di cartelli sparsi sul territorio invita a riconsiderare le proprie intenzioni.

Sono quasi tutti giovani, quasi tutti maschi.

Lavoratori che vivono l’ansia del successo e della perfezione, in una società che li obbliga a conformarsi per ricoprire ruoli sociali precisi. Chi non si adegua, si sente espulso dal sistema. Chi lo fa, a volte esplode. Li puoi vedere barcollare il venerdì sera, completamente ubriachi, vestiti di tutto punto, la testa appoggiata a un lampione, a volte con la valigetta in mano.

È questo il mondo che un grande artista ha raccontato con la sua opera visionaria, sintomo di una sofferenza esistenziale che la crisi economica vissuta in Giappone a partire dagli anni Novanta aveva acuito, e che egli sembra aver introiettato.

Lui, però, fa parte della minoranza di suicidi, il 2,1% tra gli uomini e il 3,6% tra le donne, che scelgono di venire travolti da un treno. Percentuale esigua, perché le compagnie ferroviarie si riservano di far pagare ai familiari i ritardi procurati al traffico.

Un evento tragico, che avvenne il 23 maggio 2005, quando Tetsuya aveva solo trentun anni, al passaggio a livello di Machida (Tokyo), ancora oggi classificato come “incidente ferroviario”, perché privo di certezze documentali. Anche se tutti gli indizi vanno in quella direzione, anche se i temi ricorrenti del lavoro e della morte, nella sua arte, sono sempre rappresentazione di suoi autoritratti.

Tetsuya Ishida, nato il 16 giugno 1973, è il maggiore rappresentante di quella che i critici hanno chiamato la “Generazione perduta giapponese” (1991-2001).

Con una formazione quasi da autodidatta, da ragazzo rimane fortemente colpito da una mostra di Ben Shahn (artista americano di origine lituana oggi in parte dimenticato), soprattutto dalla sequenza di opere ispirata all’incidente del Daigo Fukuryū Maru (Drago fortunato) del 1954, in cui pescatori giapponesi rimasero esposti alle radiazioni di un test nucleare condotto dall’esercito degli Stati Uniti.

Inizia quindi a disegnare, poi a dipingere.

Nel 1993, ventenne, partecipa a Parallel Visions: Modern Artists and Outsider Art al Setagaya Art Museum (Tokyo), nella prima mostra in Giappone incentrata sull’arte outsider, cultura che diventa la sua area di riferimento. Si laurea quindi in Visual Communication Design nel 1996, creando una frattura profonda con la famiglia che avrebbe desiderato per lui una laurea scientifica, e che considera le sue opere una manifestazione perversa.

Tetsuya apre una casa di produzione audiovisiva ma, soprattutto, inizia a focalizzarsi su uno stile immediatamente riconoscibile, creando nell’arco di dieci anni duecentodiciassette opere a olio su tela (molte delle quali scoperte solo dopo la sua morte) che esporrà una dozzina di volte a Ginza, il quartiere dei divertimenti e dell’arte contemporanea di Tokyo.

I suoi quadri, anche di grande formato, richiedono molto lavoro per l’assoluta attenzione ai dettagli, con un utilizzo di colori dai toni tenui. Ogni sua opera trasmette tristezza, claustrofobia, alienazione. Giovani uomini che prendono tutti i suoi lineamenti, irreggimentati con la giacca e la cravatta in azioni dissennate, automi ibridati di una società glaciale e costrittiva. Un gioco ambiguo tra surrealismo e precisionismo che appare infarcito di cultura manga, di citazioni cinematografiche e letterarie, come nelle metamorfosi uomo-oggetto, che compare in queste pagine, chiaramente ispirata a Kafka (Body Fluids, 2004 circa).

Lascia la sua compagna Hiromi Toyoda, dicendole: «Sono così felice di stare con te che non posso più dipingere», ma finisce per chiudersi in se stesso e nel lavoro.

Inizia così uno stato depressivo che si acuirà negli ultimi mesi della sua esistenza.

Chiusa la piccola casa di produzione, per mantenersi e per provvedere alle ingenti spese in materiali artistici, trova lavoro in una tipografia e come guardiano notturno, non lontano dal negozio di belle arti da cui si rifornisce. Inizia però a scontrarsi con il direttore della tipografia che, come racconterà, «gli rende la vita infelice» e, infine, viene cacciato, con l’accusa infamante di essere in parte responsabile della morte accidentale di un collega, schiacciato da un camion.

La fine è nota, ma la sua creatività rimane una pietra miliare di questo inizio millennio.

Un monito che dovremmo continuare a vedere e ascoltare.

Inquietante il fatto che il Giappone abbia creato la parola “Karoshi”, per indicare la morte da troppo lavoro. Tema che, per fortuna, non fa parte delle tante angosce di noi italiani.


Untitled (2001 circa).


Body Fluids (2004 circa).

ART E DOSSIER N. 408
ART E DOSSIER N. 408
APRILE 2023
In questo numero: FINESTRE SULL’ARTE: Il potere della duchessa di Federico D. Giannini; BLOW UP: Werner Bischof:L’occhio, inedito, per il colore di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Arturo Martini a Treviso - Frammenti di realtà di Sileno Salvagnini ; GRANDI MOSTRE. 2 - Manet e Degas a Parigi - Amici e rivali di Valeria Caldelli ...