Con efficace metafora, così spiega il suo progressivo allontanamento dalla scultura tradizionale: «Sono un grande artista, sono troppo sensibile. Il mio male è più grave della mia forza creativa. E allora io lavorerò a rovescio. Mi sono cavati gli occhi. Gli occhi, che erano la mia malattia, di aver veduto tutte le statue del mondo. Convalescente, Sogno.
Sono le mie più gravi malattie. […] La Convalescente era mia figlia. Come lavoro quelle opere, senza guardare, con tutto l’essere fisicamente […]. Almeno le guardassi! È superata anche la vista. È proprio il sentimento che lavora come un fermento». Una “figlia” al pari di altre terre refrattarie come La veglia (1931, esposta alla Biennale di Venezia del 1932), o Il bevitore (1928, terracotta da stampo, esposta alla Biennale di Venezia del 1948), presenti nella mostra attuale.
Opere che hanno cambiato il modo consueto di considerare la scultura come “statua”, cioè, come l’artista dirà efficacemente in un celebre libretto del 1945, una «lingua morta» incapace di coinvolgere il pubblico, per concepirla invece quale frammento di realtà (il letto, la finestra, la parete, e così via) scolpita insieme alle figure umane: come se, per un qualche misterioso gioco del destino, gli oggetti intorno agli esseri umani si fossero materializzati in scultura.
Ovviamente a Treviso si possono ammirare molti altri capolavori: per esempio, la Venere dei porti (1932), appartenente, come molte delle opere esposte, al Museo Bailo; oppure sia il bronzo – del Bailo – sia il marmo della Donna che nuota sott’acqua, proveniente invece dalla Fondazione Cariverona. Quest’ultima scultura era stata notoriamente ispirata dal film White Shadows in the South Seas (1928, diretto da W. S. van Dyke, pseudonimo di Woodbridge Strong van Dyke II), proiettato ora al Bailo nella sala dedicata alla Biennale del 1942, comprendente Donna che nuota sott’acqua e altri lavori che vi erano stati esposti quali Torso di lottatore (1942, marmo) e Ritratto di Carlo Scarpa (1941, terracotta). Donna che nuota sott’acqua rappresenta uno dei vertici della scultura in marmo di Martini insieme a Tito Livio (1941-1942), conservato nel Palazzo liviano di Padova, di cui il museo offre il calco in gesso del 1967. Martini realizzò queste e altre sculture marmoree nei Laboratori artistici Nicoli di Carrara affidandone il modello in terracotta agli sbozzatori.
Rispetto al decennio precedente, quando aveva privilegiato le terrecotte, preoccupato sempre più da pletore di imitatori che sceglievano questa tecnica, Martini optò per altri materiali fra cui, appunto, il marmo. Che però adattava alla propria sensibilità cromatica. In quegli anni i suoi marmi provocarono infatti feroci polemiche fra critici come il classicista Ugo Ojetti – che li biasimava spinto dall’ossessione di recuperare la grande tradizione della cultura italica del Quattro e del Cinquecento, che lo avrebbe portato, di lì a breve, a schierarsi apertamente con le visioni antimoderne più cupe del nazismo – e critici come lo scrittore Massimo Bontempelli, che invece ne apprezzava – rispetto in particolare all’altorilievo della Giustizia corporativa di Milano (1937) – l’“aspetto narrativo”. Poiché Martini, come è stato osservato, cercò di trasporre nel marmo le qualità pittoriche, direi quasi astratte, ma anche popolari – e dunque non auliche – della terracotta. Una foto scattata alla Biennale di Venezia del 1942 – che mostra davanti alla Donna che nuota sott’acqua Joseph Goebbels, famigerato ministro tedesco della Propaganda e sostenitore della crociata contro la cosiddetta “arte degenerata” (“Entartete Kunst”), mentre osserva la scultura con un sorriso quasi di scherno, accompagnato dal segretario della Biennale, Antonio Maraini, con una espressione pressoché simile sul volto, e dal più serio Alessandro Pavolini, ministro della Cultura popolare (Minculpop) del Regno d’Italia, il dicastero omologo a quello di Goebbels in Germania – conferma in effetti i dubbi verso Martini da parte dell’Italia più retriva.
Continuando l’elenco copioso di opere esposte dobbiamo ricordare il Tobiolo (1933), La pisana (1928), I leoni di Monterosso (1933-1934): solo per citarne alcune. Apre e chiude il percorso espositivo, nel chiostro del Bailo, il gigantesco gruppo dell’Adamo ed Eva (1931, pietra di finale), acquistato da una sottoscrizione pubblica e donato al museo negli anni Novanta. Un’opera, per inciso, che i coniugi Ottolenghi avevano commissionato quell’anno all’artista per collocarla nella loro villa di Acqui Terme (Alessandria).
Testimonianza di quanto lo scultore fosse autonomo nelle proprie scelte rispetto alla volontà dei committenti, che desideravano una scultura più tradizionale: Martini, infatti, non collocò come voleva un’iconografia consolidata l’albero e il serpente ben visibili a lato dei protagonisti, ma dietro di loro, quasi a volerli nascondere. Fra le curiosità della mostra, il ritrovamento di alcuni filmati girati a Treviso negli anni Sessanta, in particolare uno che illustra non solo la città, ma anche, e soprattutto, l’allestimento della mostra del 1967, cui si è fatto cenno.
Come si ricordava, ampia la varietà di tecniche che propone la mostra fra opere possedute dal museo e altre giunte per l’occasione: dalle rare “cheramografie” (vale a dire incisioni degli anni Dieci tratte da una matrice in argilla, che ovviamente consentiva tirature assai limitate), di cui il museo è ricco; ai bozzetti in terracotta; alle ceramiche; al nutrito numero di dipinti, circa quaranta, tutti eseguiti dalla fine degli anni Trenta in poi. Da sottolineare, infine, che i numerosi prestiti vengono sia da privati, sia da istituzioni pubbliche come il Museo civico Arturo Martini di Vado Ligure (Savona), la Galleria internazionale d’arte moderna Ca’ Pesaro di Venezia, la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma.