L’AFFERMAZIONE A ROMA DI UN ARTISTA
ESTREMO, FUORI DAGLI SCHEMI

L’ascendente savoldesco diventa avvertibile chiaramente nelle opere eseguite a Roma, già a partire dall’affresco citato di villa Lante (primi mesi del 1614).

L’opera cardine di questo periodo è sicuramente la meravigliosa Cacciata dei mercanti dal tempio in origine appartenente alla collezione di Vincenzo Giustiniani, eseguita forse fra il 1613 e il 1615. Un quadro dove le tracce dell’influenza del grande pittore bresciano si fondono mirabilmente con l’irruenza e il dinamismo dei teleri Contarelli di Caravaggio (in particolare del Martirio di san Matteo, in cui come si è visto lo stesso Cecco aveva posato come modello per il chierichetto).

L’opera è un tripudio di straordinari particolari realistici, di costumi raffinati (dai quali si percepisce l’evidente attrazione di Cecco per i bei vestiti), di corpi atletici agitati, di luci taglienti (come quella, pomeridiana, che illumina le bellissime colonne del fondo, attraversate da ombre nitide). In mezzo a tutta questa agitazione, colpisce il personaggio all’estrema sinistra, un “dandy” elegantissimo, infastidito da tanta confusione e rumore, in cui – proprio in occasione delle rinnovate riflessioni che ho fatto in occasione della mostra – mi è parso chiaro di riconoscere Cecco (ventisettenne, ventottenne? Forse non di più…): lo stesso volto largo, la bocca a cuore, i riccioli scuri, il naso con la punta arrotondata del San Giovanni Battista della Pinacoteca capitolina.

Gli studi di Francesca Curti per la mostra di Bergamo hanno portato alcune importanti aggiunte31: la presenza di «Francesco Boneri» nel 1617 fra i debitori di un fondaco che vendeva merci all’ingrosso, in una zona di Roma prossima al Palazzo della cancelleria (residenza del cardinal Montalto, vicecancelliere pontificio) e ancora a una riunione dell’Accademia di San Luca nel 1619. Quindi abbiamo quattro date sicure della presenza del pittore in città: 1614 (Bagnaia), 1617, 1619, 1620 (pagamento finale della Resurrezione Guicciardini) e sappiamo anche che era affiliato all’Accademia. Si può dunque ipotizzare che Cecco in questi anni sia stato costantemente a Roma. Si è anche potuto decrittare il significato della straordinaria natura morta di oggetti in primo piano nel San Lorenzo della Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella), che sono tutti collegati al cardinal Alessandro Peretti Montalto, il quale assume un ruolo probabilmente importante fra i committenti e i protettori di Boneri, considerato anche l’affresco che quest’ultimo eseguì per lui a villa Lante32 .

Potremmo forse spingerci a pensare che una figura così decisiva per l’ambiente culturale romano del tempo, come fu il cardinal Montalto, abbia accolto un pittore anticonformista e fuori regola come Cecco, probabilmente il più intellettuale fra i suoi compagni di strada della cerchia caravaggesca, e lo abbia coinvolto in un circolo di appassionati capaci di apprezzare le sue immagini enigmatiche ed eterodosse.

Alludo a composizioni tenacemente criptiche come le due versioni del Fabbricante di strumenti musicali (di Atene, di provenienza medicea come denuncia il monogramma sul retro della tela, e di Londra), al Flautista di Oxford, all’Angelo musicante di collezione privata, e soprattutto all’Amore al fonte di collezione privata, di cui parlo estesamente più avanti. Ma dei rebus ci appaiono anche i dipinti conservati a Madrid, cioè la Donna con colomba (Museo del Prado) e dell’Uomo con coniglio (Palazzo reale di Sant’Ildefonso), eseguiti, giudicando dallo stile, in un tempo successivo alle date citate sopra, forse nel terzo decennio del Seicento.

In anni maturi, probabilmente intorno al 1620 della Resurrezione, può collocarsi la Decollazione del Battista di collezione privata, di provenienza Pesenti come si è detto, popolata anch’essa di meravigliosi particolari costumistici (il rosso accecante della veste di Salomè) e brani di violenza cruda (il Battista bendato tenuto per i capelli dal boia che brandisce un enorme spadone con cui decapiterà la sua vittima).

In stretta prossimità cronologica, visti gli evidenti rapporti stilistici col quadro ex Pesenti, si situa il Crocefisso conservato in Spagna, per la prima volta esposto a Bergamo, inaudito capolavoro di illusionismo, dipinto sul davanti e sul retro. In particolare nella parte posteriore Cecco si spinge a imitare il legno della croce in modo sbalorditivo e a caratterizzare il brano di particolari crudi, al limite del sadismo, come i chiodi che dal davanti sporgono sul retro e vengono raffigurati ribattuti nel legno, col sangue che cola.

Cosa spinse Piero Guicciardini a scegliere Cecco per assegnargli una pala da eseguire per la sua cappella in Santa Felicita rimane un mistero. Non lo conosceva abbastanza? Davvero sperava che un artista così anticonformista si piegasse a realizzare un’immagine ortodossa e canonica, in linea con i princìpi che dovevano avere le immagini sacre da collocare in una chiesa? Cecco – di fronte a quella che con probabilità era la sua prima opera pubblica, cioè una pala d’altare – supera se stesso e raggiunge un risultato di sconvolgente oltranzismo.

Colpisce la determinazione radicale (e anche suicida al fine, in termini di carriera) di concepire la Resurrezione Guicciardini come l’omaggio aggiornato (e spinto fino alle ultime conseguenze) all’opera del suo maestro e compagno che più di tutte (per diverse ragioni) egli doveva avere in mente, come una indelebile “scena primaria”: il Martirio di san Matteo di Caravaggio in San Luigi dei Francesi. Quasi come se, offertagli finalmente l’occasione, egli ne approfittasse per rinverdire i contenuti della rivoluzione deflagrata dalla cappella Contarelli, per portarli ancora più avanti, dove forse nemmeno Merisi si sarebbe sentito di giungere.

L’occasione di Santa Felicita offriva al pittore la possibilità di ritornare, come nella casa di vicolo San Biagio che nel 1605 divideva con Merisi, nello stanzone buio delle pose, di far pendere un grosso lume dall’alto soffitto dello studio e di disporre i modelli come in un “tableau vivant”.


Cacciata dei mercanti dal tempio (1613-1615), particolare; Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.


Caravaggio, Martirio di san Matteo (1599-1600), particolare; Roma, San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli.


Cacciata dei mercanti dal tempio (1613-1615); Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.



San Lorenzo (1615 circa), particolare; Roma, Santa Maria in Vallicella (Chiesa Nuova), Stanze di san Filippo Neri.


Fabbricante di strumenti musicali (1615-1620); Atene, Pinacoteca nazionale - Museo Alexandros Soutzos.


Angelo musicante (1620-1622).

Fabbricante di strumenti musicali (1615-1620); Londra, Wellington Museum - Apsley House.


Flautista (1615-1620), particolare; Oxford, Ashmolean Museum.


Donna con colomba (1620-1622); Madrid, Museo Nacional del Prado. Alcuni dipinti di Cecco contengono dei veri e propri enigmi figurativi. Vorremmo ad esempio capire di più dei significati nascosti nei cosiddetti Fabbricanti di strumenti musicali di Atene e di Londra, opere misteriose che non hanno paragoni nell'ambiente artistico del secondo decennio a Roma. Così come si resta sbalorditi davanti all'Amore al fonte, così audace nei suoi contenuti omoerotici da rimanere senza fiato. Si può ipotizzare che questi dipinti fossero rivolti a una cerchia di committenti raffinati e consapevoli, e che lo stesso Cecco fosse un artista ben più intellettuale di tanti suoi colleghi della cerchia caravaggesca.

Uomo con coniglio (1620-1622); Madrid, Palacio Real.


Decollazione del Battista (1620 circa).

Ed è talmente fedele al metodo, Cecco, che, forse volontariamente, si dimentica di occultare le pareti dello studio, cosicché risulta evidente che tutta la Resurrezione non è altro che una seduta di posa: non è la raffigurazione di un evento prodigioso, è la raffigurazione dei modelli nello studio del pittore atteggiati nella messinscena della Resurrezione. Credo sia da rintracciare in questo la ragione principale dello scandalo, la sua francamente impossibile accettabilità (per Guicciardini, ma forse anche per l’epoca – a parte la mente spregiudicata di Scipione Borghese – che non era pronta a recepire un pensiero così crudo e destabilizzante): perché non c’è profondità a sinistra e la luce laterale taglia la parete dello studio, a ridosso della porta del sepolcro che vi è praticamente appoggiata; e Cristo non si libra certo nell’aria, ma anzi il pittore sottolinea con l’ombra che il piede destro del modello-Redentore poggia su una pedana rialzata, forse un soppalco dello studio, il cui soffitto incombe a pochi centimetri dalla sua testa. È chiaro che la pietra del sepolcro non chiude nessuna apertura; è solo una pietra addossata alla parete, e Boneri svela ulteriormente la situazione, mostrando una sbrecciatura dell’intonaco, proprio dove la porta è appoggiata.

Come ho detto, Cecco si spinge dove Caravaggio non era alla fine mai arrivato.

Torna così la domanda: perché lo fece, andando incontro a un rifiuto sicuro, chissà quanto inconsciamente cercato? Con sentimento moderno si potrebbe dire che il personaggio agì da irregolare, da anticonformista, o da intellettuale radicale (si direbbe oggi), quale egli verosimilmente era, uno che era disperatamente avanti, fuori degli schemi in tutti gli aspetti della sua esistenza, che raccoglieva il testimone di Merisi e lo gettava oltre, dove sentiva che la parabola del suo maestro poteva e doveva concludersi, certo col rischio di inaridirsi: giungere infine alla nuda e cruda rappresentazione della finzione del lavoro dell’artista, nient’altro che pose e modelli (e non importa se un culturista ante litteram incarna il Cristo risorto), ogni interpretazione un pretesto, il solo impegno per l’artista è la resa fedele dei corpi, dei costumi, degli oggetti.

Guicciardini, come si può presumere, non resse a tutto questo, meditò un’estate, rifiutò il quadro, lo vendette rimettendoci quaranta scudi, come si è già visto nel documento rivelatore dell’identità anagrafica, e il 18 ottobre 1620 spedì a Firenze solo due pale.

Lascia ancor più sbalorditi, per il suo osare, per la modernità dei sentimenti e della loro complicata raffigurazione simbolica, il dipinto più sorprendente di Cecco, cioè l’Amore al fonte di collezione privata. Boneri ne aveva già fatto una prova generale nel San Giovanni Battista di collezione Pizzi e ne fornirà una seconda versione, oggi frammentaria, conservata in collezione Koelliker. Cecco denuda il Battista e gli lascia come unico attributo l’aureola; ambienta la scena in un paesaggio di rocce e vegetazione di forte impronta veneta, dove il ricordo degli scenari minerali di Savoldo è palmare.

Ancora una volta le scelte iconografiche del pittore sono audacissime (nessuna delle versioni che conosciamo del Battista che si abbevera lo presenta nudo e senza la croce di canne intrecciate), tali da fare apparire l’immagine una scena profana in cui un modello nudo – preso da un’arsura che non sembra provocata solo dalla sete, ma da altri desideri – trova refrigerio e appagamento a una fonte.

Cecco recupererà la stessa posa, il modello e la fonte rocciosa per trasferirli in un altro contesto, quello appunto dell’Amore al fonte (iconografia del tutto inedita, priva di tracce in episodi della mitologia) che costituisce una delle più inquietanti sorprese dell’intera pittura del Seicento. Boneri infatti raffigura un quadro nel quadro, e a prima vista lo spettatore non se ne rende conto, poiché la superficie della tela che sta dentro occupa quasi per intero quella del supporto; ma a disturbare la quiete di una visione consueta interviene il drappo che pende su un lato del quadro, che ci fa ben presto capire che la tela è appoggiata a una parete.

Ad aggiungere una nota sbalorditiva e inspiegabile alla composizione già inconsueta giunge la constatazione che la freccia di Amore deposta sul terreno a destra – nel quadro interno – ha un’estremità nello spazio cosiddetto reale, nello spazio cioè dell’ambiente, a una parete del quale è appoggiata la tela, appena scoperta dal drappo rosso rialzato. La freccia è forse un ponte fra finzione e realtà? e quello che si guarda non è finzione perché un tempo era la realtà? un ponte fra passato e presente? sono concetti francamente ardui da assegnare a una mente che realizza questo dipinto probabilmente alla fine del secondo decennio o all’inizio del terzo decennio del XVII secolo. Però la freccia è stata collocata lì, metà nella zona del vero, metà in quella della tela appoggiata alla parete.


Resurrezione (1619-1620), particolare; Chicago, Art Institute.


Amore al fonte (1615-1620), proveniente dalla mostra del 1951 a cura di Roberto Longhi, bianco e nero per l’indisponibilità di un'immagine a colori di chiara leggibilità.


Amore al fonte (1615-1620), seconda versione.

San Giovanni Battista (1615-1620).


Ma al di là di questo, anche l’immagine raffigurata nel quadro nel quadro è tutt’altro che riposante, quanto a significati e interrogativi. Nel 1992 già mi provavo a sciogliere in chiave soprattutto affettiva l’enigma e non tardavo ad accorgermi che pure Herwarth Röttgen era giunto, pressoché contemporaneamente, ad analoghe conclusioni33. Mi pare palese cogliere nell’Amore al fonte un forte significato omosessuale, e che il quadro possa in qualche modo riallacciarsi al capolavoro Giustiniani di Caravaggio (parlo naturalmente dell’Amore vincitore) di circa vent’anni, avendo Cecco per modello. I lineamenti dell’Amore che si abbevera (e di conseguenza anche quelli del San Giovanni Battista Pizzi) potrebbero corrispondere a quelli di Boneri (un Amore che ha ormai varcato i trent’anni, con un doppio cerchio di rughe intorno al collo): dalla bocca carnosa al volto largo, al naso con la punta un po’ arrotondata, ai capelli ancora riccioluti. Ciò accentuerebbe il significato che il quadro comunque pare avere: un omaggio al maestro, mai dimenticato, spregiudicatamente evocato in questa scena, dove Cecco sembra recuperare il tempo in cui era il modello e il giovane compagno di Merisi, fino a diventare ancora modello per un quadro che Caravaggio non poteva certo più dipingere, ma che il suo amato reinventa spingendosi fino all’illusione di appoggiare l’opera alla parete dello studio. E il drappo che lo scopre, immaginiamo in seguito alla richiesta di uno spettatore in grado di comprendere, non può non ricordare la testimonianza di Joachim von Sandrart, che riportava appunto come l’Amore vincitore, in fondo alla galleria Giustiniani, fosse coperto da un drappo di velluto – in tal caso verde – e il marchese Vincenzo lo scopriva, con un sicuro colpo di teatro, per i visitatori che fossero in grado di apprezzare e capire (la sua qualità certo, ma anche il suo spudorato erotismo) quel capolavoro.

Tuttavia questa valenza intima e struggente, sottolineata senza mezzi termini dall’inequivocabile gesto di desiderio erotico compiuto da Amore nell’avvicinarsi alla fonte, non esaurisce di sicuro la selva di simboli di cui il quadro è disseminato e di fronte alla quale, ancora una volta, si resta (o almeno lo scrivente resta) senza risposte; a cominciare dall’ambientazione, dove una sorgente quasi lacustre sembra contigua al muro di un vicolo, con l’intonaco sbrecciato (come nella Madonna dei pellegrini di Merisi, e come Cecco stesso propone nella Resurrezione, rivelando senza mezzi termini la parete dello studio), per continuare con la serie di elementi collocati sul terreno: due colombe, una nera e una bianca, che si scambiano effusioni; due punte di freccia collocate una di fronte all’altra; due chiocciole; l’arco, che ha perso la corda da un lato; un grande fiocco e una grandissima faretra con un’elaborata fermatura, le frecce che sporgono da essa, e infine la freccia di cui si è ampiamente detto. Senza dimenticare l’inquietante presenza di un foglio bianco, su cui non è scritto nulla, attaccato su una sorta di lapide che sovrasta la fonte, che fa il paio col foglietto incollato alla porta del sepolcro nella Resurrezione.

Chissà qual era la destinazione di un quadro tanto enigmatico e tanto scandaloso, fortemente omoerotico nell’esibita sensualità; Cecco davvero potrebbe averlo dipinto per sé? o fu un committente sconosciuto che si lasciò affascinare dagli enigmi che Boneri poteva e sapeva comporre?

Forse non è un caso che Boneri continui a rimanere così misterioso; e se risulta strano che del seguace di Merisi rimangano, come si è visto, pochissime tracce, d’altra parte ciò potrebbe essere spiegabile con l’alterità del personaggio, il suo essere genialmente e forse anche drammaticamente “oltre”. Magari gli avrà nuociuto quel suo essere un “dandy” (è inequivocabile come si ritrae nella Cacciata dei mercanti dal tempio) con un’impalcatura intellettuale che sembra essere stata superiore rispetto agli altri compagni di strada della cerchia caravaggesca (ce lo suggeriscono dipinti così complessi come l’Amore al fonte, ma anche i rebus contenuti in alcuni dipinti che prima ho ricordato). Ma forse avranno giocato un ruolo negativo anche le sue probabilmente note tendenze sessuali, che quel soprannome dichiarava e che fino al 1650 almeno erano rimaste ben conosciute da tutti: Symonds ne è la prova, ma anche il resoconto di Giacomo Manilli34, che in quello stesso anno di fronte al David e Golia di Caravaggio della Galleria Borghese scrive che nel volto di Golia Merisi ritrasse se stesso e in quello di David il volto del «suo caravaggino».



Valentin de Boulogne, Apollo e Giacinto (1620-1622); Cherbourg, Musée Thomas Henry.


Antiveduto Gramatica, Suonatore di tiorba (1608-1610); Torino, Galleria sabauda.

Giovanni Baglione, Amor sacro e Amor profano (1602); Roma, Galleria nazionale d’arte antica - palazzo Barberini.


Juan Bautista Maino, Adorazione dei pastori (1612-1614); Madrid, Museo Nacional del Prado.


Bartolomeo Manfredi, Sdegno di Marte (1613); Chicago, Art Institute.

CECCO DEL CARAVAGGIO
CECCO DEL CARAVAGGIO
Gianni Papi
Bergamo – insieme a Brescia Capitale della Cultura 2023 – celebra con una grande mostra uno dei più misteriosi artisti del gruppo dei caravaggeschi italiani. Di Francesco Boneri (1580-1630), detto Cecco del Caravaggio, non si sa davvero quasi niente, quella aperta in questi mesi a Bergamo (della quale l’autore del dossier è cocuratore) è la prima mostra che gli viene dedicata, con una ventina di dipinti di Cecco a confronto con opere di suoi contemporanei, comprese quelle del suo maestro. Maestro nel senso che Cecco era detto “del Caravaggio” perché ne era un servitore, fin da giovanissimo e, sembra, anche amante. Una condizione di “familiarità” che lo vedeva nel ruolo di modello (forse per Amore vincitore, Davide e Golia e altre opere) ma anche in un certo senso di allievo, poiché dal maestro imparò a dipingere (e anche a usare il coltello nelle risse, pare). Un’occasione per capire meglio il suo percorso, e per apprezzare correttamente l’elevata qualità della sua pittura.