Grandi mostre. 1 
SAYED HAIDER RAZA A PARIGI

NERO, THE MOTHER COLOUR

La prima monografica europea dedicata all’artista indiano Sayed Haider Raza ripercorre in modo puntuale il suo percorso umano e professionale attraverso un centinaio di opere dalle quali traspare la sua propensione per l’astrattismo, per una intima ricerca sul colore e per la natura.

Riccarda Mandrini

Nell’autunno del 2000 la casa d’aste Saffronart, allora con una sola base a Delhi, iniziava la propria attività nell’ambito delle vendite di opere d’arte moderna indiana, un segmento di fatto poco noto, data la quasi totale assenza, a livello internazionale, di mostre e pubblicazioni specifiche al riguardo.

Il set, curatissimo, di opere all’incanto era in maggioranza dedicato ai lavori del Progressive Artists’ Group, un’associazione di artisti nata a Mumbai (all’epoca Bombay) alla fine di agosto del 1947, un anno cruciale per l’India. Formalmente la nascita del Progressive Artists’ Group fu inaugurata nelle settimane seguenti la storica data del 14-15 agosto. Il 14, il Pakistan, a maggioranza musulmana, affermava la propria sovranità come stato indipendente dalla multiconfessionale India, in quella che fu storicamente definita la “Partition of India” e la conseguente grande migrazione di quindici milioni di persone che varcarono la nuova frontiera tra i due paesi. Il 15, l’India celebrava la propria indipendenza dopo quasi due secoli di “British Raj” (colonialismo britannico).

I membri del Progressive Artists’ Group erano un gruppo di pittori – S. H. (Sayed Haider) Raza (1922- 2016), K. H. (Krishnaji Howlaji) Ara (1914-1985), M. F. (Maqbool Fida) Husain (1915-2011), F. N. (Francis Newton) Souza (1924-2002), S. K. (Sadanand K.) Bakre (1920- 2007), H. A. (Hari Ambadas) Gade (1917-2001), Akbar Padamsee (1928-2020), Krishen Khanna (1925), Ram Kumar (1924-2018), V. S. (Vasudeo Santu) Gaitonde (1924-2001) – più o meno coetanei, decisi a inaugurare un modo nuovo di fare arte, profondamente concettuale, che mirava all’arte astratta, prendendo le distanze o meglio in opposizione ai modelli intrisi di iconografia e cultura popolare indiana.

S. H. Raza e il Progressive Artists’ Group riuscirono a organizzare poche mostre insieme, tra il 1948 e il 1950. Il gruppo si disgregò quasi subito anche per via delle partenze di alcuni membri verso l’Europa. Raza ottenne una borsa di studio dal governo francese e, insieme al pittore Akbar Padamsee, lasciò Mumbai per Parigi, dove fu accolto dall’amico e co-fondatore del Progressive Artists’ Group, Ram Kumar.

Ed è a Raza (Parigi diventerà la sua seconda patria) che il Centre Pompidou, proseguendo nel proprio percorso di ricerca nell’ambito delle modernità internazionali storiche, dedica una mostra personale, S. H. Raza, la prima in Europa. Organizzata in cinque sezioni – “Minuit à Bombay”, “Paysages Recomposés”, “Les Feux de Paris”, “Géographies Sacrées”, “Formes Signifiantes” – l’esposizione percorre in modo puntuale il percorso antologico della vita e dell’opera dell’artista.

Quando Raza giunse a Parigi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, trovò una città vibrante, meta prediletta e rifugio di espatriati, di artisti europei, mediorientali e internazionali.

Iscrittosi all’École des Beaux-Arts, il giovane Raza fu immediatamente impegnato a trovare il proprio “mood” artistico e un modello di pittura che fosse suo, personale e autentico. Guardò all’École de Paris (gli artisti che ne fecero parte venivano come lui da diversi paesi), ma presto capì che questo non bastava a fare vibrare la sua tela. In India aveva portato avanti una ricerca profonda sul colore e sui suoi numerosi significati, stilisticamente decise di rimanere fedele a questa scelta, mentre da un punto di vista contenutistico non ebbe bisogno di prendere una decisione in merito.

Raza era nato e passò parte della sua gioventù nel Madhya Pradesh, un grande stato dell’India centrale circondato da foreste e da una vegetazione rigogliosa e fittissima.


Punjab (1969), Mumbai, Piramal Museum of Art.


Zamin (1971), Mumbai, Jehangir Nicholson Art Foundation.


POCHI I COLORI, QUALCHE SPRAZZO DI ROSSO, VERDE, A VOLTE BIANCO, CHE RIMANDAVA AGLI ESIGUI FASCI DI LUCE CHE FILTRAVANO DAL FITTO FOGLIAME DEGLI ALBERI NELLA FORESTA. NULL’ALTRO

La natura, lo sapeva, era parte della sua essenza fisica e spirituale di uomo e del suo essere artista. Per tutta la vita, trascorsa perlopiù all’estero, non cesserà mai di evocare l’eredità culturale dell’India. Alla sua natura dedicherà una narrazione poetica costantemente reinterpretata nel tempo. Nella sezione “Les Feux de Paris” sono esposte opere quali Église et Calvaire Breton e i diversi Sans Titre, in cui viene evidenziato come la sua iniziale ricerca volgesse verso il paesaggio e la campagna francese. Raza li ritrasse secondo una prospettiva effimera e vigorosa in una osservazione ripetuta che lo condurrà verso la più pura astrazione del soggetto. Nell’ambito di questa tipologia di ricerca ebbe al suo fianco un grande esperto in materia, l’amico e artista cinese, anch’egli espatriato, Zao Wou-Ki (1920-2013)(1). Nella prospettiva storiografico-artistica del periodo, entrambi sono considerati due delle figure centrali della Seconde École de Paris insieme ad altri espatriati illustri – quali Nicolas de Staël (1914-1955), Chu Teh-Chun (1920-2014), Hans Hartung (1904-1989), Fahrelnissa Zeid (1901-1991), Serge Poliakoff (1906-1969) – e agli amici indiani, il cineasta Jehangir (Jean) Bhownagary (1921-2004) e il pittore Krishna Reddy (1925-2018), che in quegli anni divideva la sua vita tra l’India e l’Europa.

Straordinariamente ben inserito nel milieu culturale del suo tempo, Raza non ci mise molto a raggiungere una certa fama. Nel 1956 ricevette il Prix de la Critique, mentre le sue tele cominciarono a entrare in importanti collezioni francesi e internazionali.

Nonostante il successo ottenuto a Parigi, Raza alla fine degli anni Cinquanta avvertì il richiamo della sua “terre natale”. Scelse di tornare in India per iniziare un viaggio libero, nomade, orientato allo studio del sanscrito, della poetica urdu(2) e delle miniature della scuola pittorica Rajput, del XVI e XVII secolo. Seguì un altro viaggio, ugualmente emblematico, in California, dove fu invitato a insegnare all’Università di Berkeley. Il soggiorno americano gli offrì la possibilità di entrare in contatto con l’espressionismo astratto e con le pratiche di “master artists” quali Sam Francis, Hans Hofmann e Mark Rothko nel cui lavoro trovò le perfette assonanze di «un’ulteriore ricerca interiore e un nuovo modo di intendere la percezione dello spazio» (così riferiva), vissuti nella piena libertà artistica dell’America di quell’epoca. Gli anni Settanta per l’artista furono un periodo di profonde riflessioni. Raza avvertì la necessità di fare sintesi, mentre il passato tornava sempre di più nel presente.

Sono di questa fase i dipinti, in mostra al Centre Pompidou, Zamin (1971), Tapovan (1972) e la serie La Terre (cominciata dall’inizio degli anni Settanta), concepiti come un inno alla sensualità della natura del suo paese.

Zamin, Tapovan e La Terre sono tele perlopiù scure, stilisticamente determinate dalla predominanza del colore nero, per Raza “The Mother Colour”.

Nella realizzazione di questi dipinti, ciò che muoveva la sua mano di artista era il flusso di coscienza, nutrito da ricordi precisi e imprecisi. Pochi i colori, qualche sprazzo di rosso, verde, a volte bianco, che rimandava agli esigui fasci di luce che filtravano dal fitto fogliame degli alberi nella foresta. Null’altro.

L’ultima sezione dell’antologica S. H. Raza ha un titolo eloquente, “Formes Signifiantes”, in essa si raccolgono i dipinti che l’artista realizzò a partire dagli anni Ottanta. Fu allora che, dopo anni di viaggi e sperimentazioni, decise di intraprendere una nuova riflessione che lo condusse a una fase profondamente matura del suo lavoro. Abbandonate le libertà espressive dell’arte astratta, esplorò la forma, in particolare quella geometrica. Nacquero opere dai titoli emblematici – Ankuran, Germination, Bindu, Bija, Surya – in cui attraverso l’uso di parole sanscrite legate alla cultura alta indiana quali appunto “bindu” (punto, termine che rappresenta la fonte della creazione), “bija” (seme) e “garbhagriha” (l’ambiente più sacro di un tempio dov’è posta l’immagine della divinità), Raza aprì un dialogo profondo, estremamente personale con la storia dell’arte e, ancora una volta, con la natura intimamente legata all’essere umano, inteso nella forma più elevata della sua spiritualità.


Udho, Heart is Not Ten or Twenty (1964), Salem (Stati Uniti), Peabody Essex Museum.


IN BREVE:

S. H. Raza
a cura di Catherine David e Diane Toubert
Parigi, Centre Pompidou - Musée National d’Art Moderne
fino al 15 maggio
catalogo Centre Pompidou
www.centrepompidou.fr

ART E DOSSIER N. 407
ART E DOSSIER N. 407
MARZO 2023
In questo numero: STORIE A STRISCE: Avventure gastronomiche di Sergio Rossi; BLOW UP: Inge Morath: la rivelazione di un istante di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Sayed Haider Raza a Parigi - Nero, the Mother Colour di Valeria Caldelli ; GRANDI MOSTRE. 2 - Warhol a Milano -  Gli stereotipi di massa come nuova classicità di Achille Bonito Oliva ...