XXI secolo
INTERVISTA A ERIK KESSELS

L’EPIFANIA
DELL’IMPERFEZIONE

Sara Benaglia e Mauro Zanchi

Siamo inondati da immagini e siamo divoratori di immagini. Le condividiamo, le archiviamo, le cancelliamo. A partire da queste e altre considerazioni Erik Kessels, che abbiamo intervistato, ci racconta il suo approccio alla fotografia, il suo intento, il taglio del suo sguardo.

Georges Didi-Huberman scrive che «distruggere e moltiplicare sono i due modi per rendere invisibile un’immagine: col niente e col troppo». Hai individuato qualche altra sfumatura o modalità oltre agli atti della distruzione o moltiplicazione delle immagini?

Al momento siamo più impegnati a cancellare immagini che a produrne, per quanto cancellare non sia proprio come distruggere. Al giorno d’oggi è prodotta una mole immensa di immagini che giungono a noi: vengono archiviate, messe online. La gente oggi vede prima di pranzo più immagini di quante qualcuno vissuto nel XVIII secolo potesse vederne in tutta la sua vita. Inoltre, oggi siamo più redattori che fotografi o creatori. Tutti oggi sono impegnati nell’editing, anche tua madre, i tuoi amici. Dobbiamo sapere quali e-mail conservare, quali cancellare, che tipo di suono ascoltare, che tipo di suono non ci piace ascoltare e lo stesso vale anche per le immagini: dobbiamo sapere dove vogliamo guardare o meno. Ero seduto accanto a una donna in un aereo proveniente dall’Italia. Era una donna olandese di sessant’anni, andata a trovare i nipoti per un fine settimana. Sul suo iPad aveva qualcosa come cinquemila immagini. Ne ha cancellate quasi la metà sull’aereo.

È un modo piuttosto strano di evoluzione dell’umanità: qualcuno di una generazione più anziana che cancella così tante immagini in un’ora è una novità assoluta. E questo determina qualcosa anche a livello cerebrale, credo, nel momento in cui viviamo. Siamo quasi più cancellatori e redattori che creatori.

Quali sono le immagini che portano allo scoperto la visione in grado di far evolvere lo sguardo o almeno di rettificare la nostra parziale concezione del reale?

Sono le immagini ai margini. Sono quelle che operano solo di contorno. Immaginate tutte le persone mentre guardano le stesse cose. In una metafora le possiamo pensare su una stessa autostrada, nello stesso ingorgo. Ci sono strade laterali e anche lì ci sono cose da vedere. Quel che si può vedere ai margini non è quasi mai guardato. Io cerco questo tipo di immagini. Cerco in periferia, nelle strade secondarie dell’autostrada. E a volte con questo tipo di immagini puoi cambiare l’opinione di qualcuno.

Ho raccolto molte immagini sbagliate, con un dito davanti all’obiettivo, o dove le cose sono andate male. La maggior parte delle persone cancella queste immagini, ma per me sono le più interessanti. Perché vengono cancellate? Io trovo che ci sia una certa bellezza nell’errore. C’è qualcosa di incontrollato, e questo me le rende piuttosto interessanti.

Che peso ha la presenza dell’errore e dell’imperfetto nella tua ricerca? Hai rintracciato una nuova idea del significato legato alla cosa sbagliata?

La perfezione è una questione irrisolta. Essa è una finalizzazione e non è proprio un buon punto di partenza per una nuova idea, non dà molte aperture. Quando qualcosa è perfetto è quasi come un punto alla fine di una frase, non consente di fare nulla di meglio. L’imperfezione è molto più aperta da guardare. Essa ha sempre avuto un ruolo determinante nel mio lavoro. È qualcosa che cerco di proposito. Riprendendo la metafora in cui tutti sono «sulla stessa autostrada», guardando la stessa cosa, io cerco sempre di prendere l’uscita sbagliata.

Il sistema di navigazione dice «Gira! Gira!» ma è interessante ciò che può accadere quando si va deliberatamente in una direzione non programmata. Oggi se vuoi trovare un terreno più interessante per le idee, per le immagini, per l’arte, devi prendere la direzione sbagliata.


Photo Pleasure Palace (2017) (Amsterdam, Unseen, VI edizione).


Destroy My Face (2020), particolare.


Un altro particolare di Destroy My Face (2020);


Unfinished Father (2015) (Reggio Emilia, Fotografia europea, X edizione).

Nel video My Sister (2011) la bambina non c’è più eppure continuerà a guardare dritto negli occhi tutti gli spettatori.
Che rapporto intercorre tra morte e prolungamento della memoria attraverso un supporto o un medium? Cosa prolunga o muove una fotografia nel caso drammatico della perdita di una persona cara?

Mia sorella è morta quando avevo undici anni e lei nove.

Quando è morta i miei genitori hanno cercato la sua ultima immagine. L’hanno trovata: era un dettaglio di una fotografia scattata nel quotidiano, non molto importante. L’hanno ritagliata da un’immagine più grande, resa in bianco e nero, e poi stampata in dimensioni più grandi e appesa al muro. Non era un’immagine molto bella, ma per loro era molto importante.

Era un pezzo di memoria congelata. Nel mio lavoro cerco di toccare tutto il campo della fotografia: la moltiplicazione delle immagini, le serie, la follia, l’enorme quantità di immagini, la tristezza di un singolo scatto o l’importanza di una fotografia come memoria. Ci gioco, e ci gioco anche quando si tratta di qualcosa di molto tragico. Non intendo giocare in modo sbagliato, ma nel mio caso è sempre interessante vedere come posso influenzare le persone per mezzo di una certa immagine e se si sentono a loro agio o meno.

In 24hrs in Photos (2012) hai stampato tutte le fotografie caricate sul sito di photo-sharing Flickr in una singola giornata. Flickr è stato un avamposto per la postfotografia, ma ora è in disuso e sostituito da Instagram. Che cosa è cambiato nel tuo lavoro da allora?

La risposta è puramente tecnica: con Flickr si poteva collegare al proprio computer una macchina dotata di un programma di download diretto alla piattaforma. Ho scaricato tutte le immagini appena caricate su Flickr nelle ultime ventiquattro ore. La maggior parte delle immagini caricate su questa piattaforma era totalmente accessibile. Ma per esempio le immagini su Facebook o Instagram o Snapchat potrebbero appartenere a un account privato. 24hrs in Photos è stato anche un momento specifico nel tempo. Si trattava di una massa di novecentocinquantamila immagini. Ora in ventiquattro ore sono probabilmente prodotte un miliardo di immagini o qualcosa del genere. Ma non è questo il punto. Quando ho stampato fisicamente quelle immagini, ho mostrato materialmente come è quell’enorme volume. Le immagini casuali installate sul pavimento mostrano quanto sia sottile la linea tra pubblico e privato. Era questo il solo scopo di quell’esperienza. Vederlo fisicamente ed essere in grado di camminarci sopra. Sentirsi anche solo un po’ intimiditi da questa mole.

In Destroy My Face (2020) i volti di donne e uomini deturpati dalla chirurgia estetica sono diventati tappeto visivo di uno “skatepark”. L’installazione è stata chiusa ed è nato un lungo dibattito in merito con diversi messaggi di accusa e rabbia.

Al di là della bontà o meno di questo lavoro, cosa pensi di questo fiume di commenti e insulti dal punto di vista prettamente fotografico?

Giusto per darvi un’idea di come sono andate le cose, vi posso dire che questo lavoro era già installato da un anno. C’è un sacco di gente, tra cui donne, che ha visto l’opera, che l’ha fruita. Ma quando ho messo le fotografie dell’opera su Instagram, queste sono diventate virali e ne ho perso il controllo. Destroy My Face è incentrato sull’autoaccettazione e sul fatto che sia le donne sia gli uomini non sono più contenti di loro stessi, perché invecchiano, ma possono controllare questo processo tramite la chirurgia plastica e i filtri di Instagram.

L’idea era quella di mostrare queste facce archetipiche mentre gli “skater” le riportavano a un invecchiamento naturale.

È un lavoro ironico. Se avessi davvero avuto intenzione di fare qualcosa di sconveniente non avrei mai chiamato l’opera Destroy My Face. Ma non si può più tornare indietro e in questo momento le critiche di tantissime persone sono più potenti dell’idea che avevo quando ho realizzato l’opera.

L’unica cosa positiva è che questo lavoro ha funzionato come un campanello d’allarme per molte persone. Ciò che è accaduto è anche sintomatico del fatto che viviamo in una cultura dell’annullamento. Nel giro di una settimana gli sponsor hanno minacciato di ritirarsi e questo ha decretato la rimozione delle immagini dallo “skatepark”. Questa non era, ovviamente, un’istituzione culturale. Gli sponsor hanno voluto lavorare insieme a me, amano il lavoro, ma non si aspettavano niente di simile. Naturalmente non è mai stata mia intenzione ferire le persone, al contrario. Ma a un certo punto ho perso il potere della narrazione e i commenti negativi si sono diffusi di più rispetto ai commenti positivi. E la rabbia è un fenomeno del web. Quando qualcuno è arrabbiato per qualcosa attira l’attenzione di tante persone.

Quale è il futuro della “Vernacular Photography”?

La fotografia vernacolare è qualcosa che viene costantemente prodotto. Al mercato delle pulci non si trovano più molti album, ma io non mi dedico a questa ricerca nello specifico.

Io mi dedico a tutto ciò che trovo. Internet è diventato un grande mercato delle pulci. Ora le chiavette USB smarrite o gli “hard-drive” sono in un certo senso gli album di famiglia del futuro. Non si tratta tanto di collezionarli, è sempre interessante seguire il comportamento umano attraverso le immagini o gli oggetti. C’è sempre qualcosa di vernacolare che si può trovare in ogni periodo storico.


ART E DOSSIER N. 407
ART E DOSSIER N. 407
MARZO 2023
In questo numero: STORIE A STRISCE: Avventure gastronomiche di Sergio Rossi; BLOW UP: Inge Morath: la rivelazione di un istante di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Sayed Haider Raza a Parigi - Nero, the Mother Colour di Valeria Caldelli ; GRANDI MOSTRE. 2 - Warhol a Milano -  Gli stereotipi di massa come nuova classicità di Achille Bonito Oliva ...