LA FAMA CRESCENTE
DEL «MEGLIO MAESTRO D’ITALIA»

Un ostacolo all’esecuzione dell’impresa orvietana giunse certamente dagli impegni che Pietro aveva preso nel frattempo a Roma con il cardinale Giuliano della Rovere (papa dal 1503 con il nome di Giulio II), per il quale dipinge nel palazzo ai Santi Apostoli.

Nell’agosto del 1492, peraltro, il maestro coordina insieme ad Antoniazzo Romano la realizzazione degli apparati effimeri per l’incoronazione di Alessandro VI Borgia.

È generalmente collegata a questo secondo soggiorno romano l’esecuzione del Polittico Albani Torlonia, opera di non semplice interpretazione. L’architettura che contiene la scena della Natività e santi reca infatti, in alto a destra, la data di controversa lettura «M°CCCC°VIIII° / PRIMO», sciolta perlopiù come 1491, ma fonte di dibattito vista la notevole corrispondenza dei caratteri della pala con quelli del Trittico Galitzin di Washington e di altre opere collocabili entro gli anni Ottanta, quali la ricordata Madonna in trono col Bambino fra le sante Rosa e Caterina d’Alessandria del Musée du Louvre. Se confrontata con prove poste più a ridosso del 1490, dal Compianto di San Giusto alle Mura alla Madonna in trono col Bambino fra i santi Giovanni Battista e Sebastiano di San Domenico a Fiesole (Firenze), che reca la data 1493 (oggi anche questa, come il Compianto, agli Uffizi), la tavola Albani Torlonia risulta in effetti più esuberante nei particolari, più splendente nella cromia, più minuta nei tratti. Una differenza di registro espressivo che sembra replicare quella già riscontrata tra la produzione romana e quella fiorentina della metà del nono decennio e che dovrà far riflettere sulla capacità di Perugino di adattare il suo linguaggio ai gusti del pubblico, al “genius loci” in altre parole, rendendolo all’occasione ornato, aggraziato e minuzioso, o al contrario sobrio, strutturato e monumentale.

Nel frattempo, come dimostra bene il tondo del Louvre, si definiscono con caratterizzazione sempre maggiore alcuni aspetti del repertorio del pittore presto destinati a divenire canone. Fra questi un ideale di bellezza femminile dal portamento maestoso e dai modi quieti, incarnato in particolare dalla Vergine Maria. L’ovale purissimo del volto, incorniciato da capelli raccolti con veli e nastri in leggiadre acconciature, racchiude lineamenti soavi ed esili. Oltre al tipo fisionomico, anche le declinazioni compositive di queste delicate immagini di maternità ottengono un clamoroso successo in tutta Italia, portando all’affermazione di nuove iconografie quali la Madonna col Bambino strettamente attorniata da figure di santi (come nelle tavole del Kunsthistorisches Museum di Vienna e della Galleria palatina di palazzo Pitti a Firenze o la cosiddetta Madonna del sacco, proposta nel Polittico Albani Torlonia e replicata sul finire del Quattrocento nell’omonima immagine della Galleria palatina e nello scomparto centrale del Trittico della certosa di Pavia.

Dai primi anni Novanta del Quattrocento i tratti somatici piuttosto generici messi a punto da Pietro paiono divenire oggetto di una maggiore individualizzazione.

È dunque plausibile l’ipotesi che queste eteree figure femminili riflettano le fattezze della giovanissima moglie Chiara Fancelli, figlia dell’architetto Luca, sposata il primo settembre 1493 nella canonica di Fiesole, con il beneficio di una più che cospicua dote di cinquecento fiorini.

Il clima culturale di Firenze, frattanto, stava cambiando radicalmente dopo la morte di Lorenzo de’ Medici (1492) e la crescente considerazione tributata in città al predicatore domenicano Girolamo Savonarola, inflessibile propugnatore della moralità e dei valori dello spirito, nonché persecutore delle dottrine a suo dire infarcite di paganesimo che si erano affermate nelle cerchie intellettuali del capoluogo toscano durante la signoria del Magnifico. Ascoltando i suoi infiammati sermoni molti artisti sottopongono a una profonda revisione il proprio registro espressivo, giungendo – come Sandro Botticelli – a rinnegare o addirittura a distruggere le opere estetizzanti del periodo precedente. Volendo prestar fede a Giorgio Vasari, Perugino non eccelse per sentimento religioso. Il tono marcatamente devozionale delle sue opere, grazie alla cifra composta e misurata e all’attitudine contemplativa delle figure, lo rende tuttavia un naturale interprete dei principi savonaroliani, garantendogli anche in questa travagliata fase della storia fiorentina un vero e proprio primato artistico. Opera capitale di questa congiuntura è la Madonna in trono col Bambino fra i santi Giovanni Battista e Sebastiano (1493), affidatagli da Cornelia Salviati Martini per la cappella di famiglia nella chiesa di San Domenico a Fiesole. L’invenzione della Vergine rialzata su un trono dall’alto basamento ligneo, al di sotto dell’ormai consueta loggia con volte a crociera sorretta da pilastri, ottiene ampi consensi e viene replicata in altre due commissioni di eccezionale importanza, anche ai fini della sempre maggiore diffusione del suo esempio tra gli artisti dell’epoca.


Ritratto di Francesco delle Opere (1494), particolare; Firenze, Uffizi.


Polittico Albani Torlonia (1491); Roma, villa Albani Torlonia.


Madonna del sacco (1495-1500); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

Trittico della certosa di Pavia (1499 circa), da un polittico smembrato destinato alla stessa certosa; Londra, National Gallery.


Madonna col Bambino in trono fra i santi Giovanni Battista e Sebastiano (1493); Firenze, Uffizi.

La ritroviamo infatti nella Madonna in trono col Bambino fra i santi Giacomo e Agostino per la cappella Roncadelli della chiesa di Sant’Agostino a Cremona, vera e propria pietra miliare dei maestri di area padana che in questi anni plasmano la propria cifra sul modello del pittore umbro, da Tommaso Aleni a Bernardino Lanzani. Essa ricompare inoltre, in forme ancora più articolate grazie alla ricchissima elaborazione dello scranno, nella Pala dei decemviri, destinata alla cappella del Palazzo dei priori di Perugia e ultimata nel 1495, dopo ben undici anni di travagliata gestazione dal primo contratto sottoscritto dal Vannucci. Questi torna dopo lungo tempo a realizzare un’importante opera pubblica per la terra natale e celebra orgogliosamente le sue origini nell’iscrizione vergata sul basamento del trono di Maria, dove si legge «Hoc Petrus . de Castro . Plebis . Pinxit». Da allora in poi i suoi rapporti con l’Umbria non subiranno interruzioni e andranno via via intensificandosi, fino a divenire esclusivi negli ultimi anni della carriera. Se l’impaginazione della Madonna in trono col Bambino tra i santi Ercolano, Costanzo, Lorenzo e Ludovico di Tolosa, protettori di Perugia e delle sue istituzioni civiche e religiose, riflette modelli già codificati, la cifra di Pietro si manifesta qui sotto una foggia inedita, che segna un’ulteriore evoluzione del suo stile. La composizione è percorsa da una luce dorata e diffusa che blandisce le forme, accende di bagliori serotini i carnati e le superfici specchianti e unifica ogni elemento della figurazione in un’atmosfera di silente quiete.

Questa nuova veste formale deve molto a un episodio fondamentale della carriera di Perugino, del quale restano purtroppo solo tracce documentarie. Nell’agosto del 1494 egli è infatti a Venezia, dove si impegna, dopo lunghe trattative, a eseguire un telero per la sala del Gran consiglio di Palazzo ducale. L’opera non verrà mai intrapresa (sarà Tiziano a portarla a compimento nel 1516), ma la permanenza nella città lagunare – dove è certamente presente anche alla fine del 1495, per lavorare a un telero andato perduto per la Scuola di San Giovanni – consentirà al Vannucci di confrontarsi con le ricerche di Vittore Carpaccio e di Giovanni Bellini, che preannunciano la grande stagione cinquecentesca della pittura tonale.

Riflessi particolarmente evidenti dell’impressione suscitata nel pittore umbro dalla produzione dei maestri veneti compaiono nelle opere su fondo nero che egli realizza in questi anni (la Pietà fra i santi Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea di Williamstown, la Maddalena di palazzo Pitti, il San Sebastiano del Louvre), a iniziare proprio dalla cimasa della Pala dei decemviri con il Cristo in pietà, caratterizzata dalle liriche inflessioni di un chiaroscuro fumoso e ambrato.

Al di là dell’epidermica ricezione di alcune invenzioni particolarmente suggestive, la rielaborazione in chiave tutta personale dell’esperienza veneziana e la profonda comprensione dei valori coloristici e luminosi dell’arte veneta sono all’origine di due fra i massimi esiti di Pietro. In primo luogo lo strabiliante Ritratto di Francesco delle Opere, dove la fusione atmosferica di ogni elemento della composizione giunge a livelli tali da dare quasi la sensazione che i capelli dell’effigiato si dissolvano nell’aria.

Un’iscrizione sul retro data l’opera al luglio del 1494, permettendo di ipotizzare che la sua esecuzione sia avvenuta proprio a Venezia. Le peculiarità della tavola sarebbero dunque da interpretare come reazione immediata del maestro umbro al primo impatto con l’ambiente artistico locale, che recava ancora vivo il ricordo della ritrattistica di Antonello da Messina, rievocata dallo sguardo incredibilmente presente di Francesco, intagliatore fiorentino di corniole e seguace di Savonarola, come dichiara la cedola con il motto «Timete Deum» brandita nella mano destra.

Perugino aveva d’altronde ampiamente dimostrato le sue doti di ritrattista nelle effigi di personaggi contemporanei presenti negli affreschi della Cappella sistina, in opere perdute ma lodate dalle fonti, come i ritratti di Costanzo Sforza (prima del 1483), e verosimilmente nel Ritratto d’uomo della Galleria Borghese di Roma, il quale, sebbene figuri spesso sotto il nome di Raffaello, sembra piuttosto segnare un momento importante del processo di profondo rinnovamento di questo genere pittorico attuato proprio dal Vannucci. Come attesta anche il Ritratto di giovane (Cornelio Braccesi?) degli Uffizi, dal suo pennello le figure prendono vita, grazie a una capacità di indagine psicologica che gli consente di distillare la personalità attraverso le fattezze e le espressioni del volto, in aperta antitesi con il trattamento dei protagonisti di iconografie codificate, cristallizzati in una standardizzata imperturbabilità.

Le cromie calde e intrise di luce ricorrono in una fra le opere più apprezzate dal pubblico dell’epoca, la Pietà per le monache fiorentine di Santa Chiara oggi a palazzo Pitti, che reca la firma di Pietro e la data 1495. La tavola è un’eccezionale sintesi delle ricerche condotte dal pittore alla metà dell’ultimo decennio del Quattrocento e innova profondamente la rappresentazione del compianto sul Cristo morto, arricchendola di personaggi mirabilmente variati nelle attitudini, nei quali si colgono molteplici sfumature di un compassato dolore. La differenziazione degli atteggiamenti, l’eloquenza dei gesti, avviano la trasformazione della pala d’altare introducendo “in nuce” l’elemento dell’azione, che muta l’icona in storia.

Il Compianto di Santa Chiara avrà una clamorosa fortuna iconografica.

Lo schema compositivo viene ripreso da grandissimi maestri in varianti illustri, nelle quali il modello, seppur semplificato, resta comunque ben riconoscibile, come accade nel Compianto di Lorenzo Costa della Gemäldegalerie di Berlino, in quello di Francesco Francia oggi ai Musei reali di Torino e in quello di Gaudenzio Ferrari nella stessa raccolta, mirabile rielaborazione in chiave nordica delle invenzioni peruginesche.


Madonna in trono col Bambino fra i santi Giacomo e Agostino (1494); Cremona, Sant’Agostino.


Pala dei decemviri (1495); Città del Vaticano, Musei vaticani, Pinacoteca. Nella tavola per l’altare della cappella del Palazzo dei Priori, il Vannucci rinuncia al nomignolo “Perugino” con il quale era universalmente noto e rivendica con orgoglio le origini, firmando «Hoc Petrus de Chastro Plebis pinxit». Al centro del consueto loggiato, che integra artificio e natura, giganteggia il trono rialzato, con il postergale a forma di nicchia, impreziosito da decori e rilievi all’antica. L’impianto compositivo, già sperimentato altrove, appare per la prima volta a Perugia e diverrà un modello seguitissimo.


Cristo in pietà (1495), cimasa della Pala dei decemviri; Perugia, Galleria nazionale dell’Umbria.


Pietà fra i santi Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (1490-1499); Williamstown (Massachusetts), Sterling and Francine Clark Art Institute. Non sono molti i ritratti di Perugino giunti fino a noi; testimoniano tuttavia un’eccezionale capacità di restituire non soltanto le sembianze ma anche il carattere dell’effigiato. Tanto il possibile Serafino degli Aquilani della Galleria Borghese, quanto il giovane degli Uffizi risentono dei modi fiamminghi, pur stemperati da una serena visione classicista che raggiunge il vertice con il Ritratto di Francesco delle Opere.

Ritratto d’uomo (1480-1485 circa); Roma, Galleria Borghese.


Ritratto di giovane (Cornelio Braccesi?) (1490-1500); Firenze, Uffizi.


Pietà (1495); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

Insieme alla definizione di un canone stilistico dai caratteri perfettamente intelligibili, che interpreta e intercetta il crescente afflato classicistico della cultura figurativa italica, queste innovazioni tipologiche sono un ulteriore mezzo attraverso il quale il linguaggio del maestro umbro si diffonde in tutta la penisola, forse anche grazie all’aiuto dell’incisione, che iniziava proprio allora ad affermarsi come fondamentale strumento di circolazione dell’invenzione artistica.

A questa consacrazione concorrono commissioni che gli vengono affidate nelle più disparate località della penisola, consentendogli di esportare non solo un modello formale e degli schemi compositivi, ma anche un sistema di lavoro.

La pratica di delegare parte dell’esecuzione agli allievi, limitata in precedenza a processi marginali, si afferma ora con nuove modalità operative, le quali, a causa dell’enorme mole di incarichi, impongono giocoforza al maestro un coinvolgimento maggiore dei collaboratori, in parte condotti con sé da Firenze o dall’Umbria, in parte reclutati in loco.

Questo iter procedurale comporta gradualmente una flessione della qualità delle opere, ma per buona parte del primo decennio del Cinquecento la sua fama non ne risentirà affatto. Perugino viaggia dunque sul litorale adriatico, dove esegue la citata pala di Durante da Fano (1497) per Santa Maria Nuova e quella “gemella” di Santa Maria delle Grazie a Senigallia (Ancona, 1500 circa); lascia in San Giovanni in Monte a Bologna la fondamentale Pala Scarani, che apre una stagione completamente nuova dell’arte nelle Romagne, interagendo con le ricerche di matrice protoclassica già avviate da Francesco Francia e Lorenzo Costa. Tutto questo senza trascurare il mercato fiorentino, al quale continua a destinare prove capitali quali la Crocifissione (1493-1496) a fresco per i Pucci nella sala capitolare di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, dove l’architettura reale e quella dipinta giungono a un perfetto punto di fusione. Non si recidono neanche i legami con Perugia, città dalla quale, dopo il successo della Pala dei decemviri, continuano a giungergli importanti commissioni, come il Polittico di san Pietro e gli affreschi del Collegio del Cambio (1500 circa).


Pala di Fano (1497); Fano (Pesaro e Urbino), Santa Maria Nuova.


Crocifissione (1493-1496); Firenze, convento di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi.

Pala Scarani (Madonna col Bambino in gloria e i santi Giovanni evangelista, Apollonia, Caterina d’Alessandria e Michele arcangelo) (1500 circa); Bologna, Pinacoteca nazionale.


Polittico di san Pietro (1496-1500 circa); Lione, Musée des Beaux-Arts.

PERUGINO NEL RINASCIMENTO ITALIANO
PERUGINO NEL RINASCIMENTO ITALIANO
Marco Pierini - Veruska Picchiarelli
La nuova Galleria nazionale dell’Umbria dedica in questi mesi una mostra – in occasionedel quinto centenario della morte – a Pietro Vannucci, detto il Perugino(Città della Pieve 1448 circa - Fontignano 1523). “Art e Dossier” torna quindi ariservare un nuovo aggiornatissimo dossier al maestro umbro, che lavorò fiancoa fianco con Botticelli e Leonardo nella bottega fiorentina del Verrocchio; fua contatto con le opere di Piero della Francesca, Ghirlandaio. Lippi, Angelico,Gozzoli; lavorò in Toscana, in Umbria, in Vaticano nella Cappella sistina (una dellesue opere sarebbe poi stata cancellata per far posto al Giudizio universale diMichelangelo); tra i suoi allievi, anche Raffaello. Insomma, Perugino si colloca alcentro, e da protagonista, della vicenda intera del Rinascimento italiano, ed è inquesto ruolo che viene affrontata la sua figura in questo dossier. La sua pittura èesemplare della ricerca di armonia, equilibrio, precisione nel disegno, luminositàdel colore che rappresenta in sintesi l’ideale artistico del periodo in cui visse.