Blow Up 


KLEIN E DE MARTIIS

di GIOVANNA FERRI

Roma, anni Cinquanta. Una città vivace, caotica, antica, festosa, accogliente, desiderosa di rinascere se pur ancora segnata, come il resto del nostro paese, dopo l’immane tragedia del secondo conflitto mondiale, da distruzione, povertà, fame e miseria. Un periodo durante il quale forte è l’istanza di rinnovamento e di un ritorno alla “normalità” ed esplicito il fermento artistico e culturale volto a contrastare gli orrori recenti della guerra per cercare di sanarne le gravi ferite. È in questo clima che si fa strada il neorealismo nel cinema, nella letteratura, nelle arti figurative e nella fotografia. Una delle correnti più incisive, se non la più incisiva dell’epoca, che sposta l’attenzione sulla vita, così com’è, sulla quotidianità delle periferie e delle province, con un linguaggio diretto, estraneo a una politica di propaganda tipica del Ventennio fascista.

È il momento della ricostruzione, delle grandi speranze e la voglia di ricominciare offre nuova linfa alla creatività su tutti i fronti. La capitale è un richiamo per artisti, registi, attori, scrittori provenienti da ogni parte del mondo, è un teatro a cielo aperto, un territorio da scoprire o da riscoprire, un frammento di bellezza ideale o cruda e reale. E allora cosa accade se di fronte alla complessità dell’Urbe degli anni Cinquanta vengono messi a contatto gli sguardi di due osservatori come William Klein e Plinio De Martiis? Ce lo racconta la mostra, a cura di Daniela Lancioni e Alessandra Mauro, con una galleria visiva di oltre sessanta immagini in bianco e nero (William Klein Roma Plinio De Martiis, Roma, Mattatoio, fino al 26 febbraio, www.mattatoioroma.it).

Partiamo da Klein, dotato di un talento così sfaccettato da non poter essere compreso in un’unica disciplina. Pittore, grafico, cineasta, scrittore e fotografo, nato a New York nel 1928 da una famiglia di ebrei ungheresi, nel 1947 sbarca a Parigi dove studia arte alla Sorbona. Un viaggio che segna la sua vita personale e professionale. È lì che conosce la moglie Jeanne Florin ed è lì che sotto la guida di Fernand Léger, suo insegnante per un breve periodo, sperimenta la pittura geometrica astratta. Espone le sue opere a Milano e durante il soggiorno lombardo conosce l’architetto Angelo Mangiarotti, che gli commissiona la decorazione di separé rotanti per la sua abitazione. Da qui inizia il suo interesse per la fotografia: quei rapidi movimenti dei pannelli lo incuriosiscono, lo attraggono. Decide quindi di documentarli con il suo obiettivo. Il movimento, appunto, e l’energia cinetica diventano elementi fondamentali nei suoi scatti. Sempre. 

A Roma William Kein arriva nel 1956 chiamato da Federico Fellini (conosciuto nella capitale francese), che lo vuole come suo assistente per Le notti di Cabiria. Per problemi economici, però, la realizzazione del film è rimandata e così il giovane americano sceglie, senza alcun indugio, di tuffarsi nel tessuto urbano (un’esperienza raccolta nel volume Rome + Klein, 1959). Lo esplora con un grandangolo (già usato per il suo reportage a New York pochi anni prima). Con questo dispositivo ha la possibilità di “aggredire” la scena, di arrivare a capovolgere l’armonia, la perfezione, l’eleganza, l’equilibrio sintetizzati nell’estetica del «momento decisivo» di Henri Cartier-Bresson (1908-2004). 


William Klein, Semaforo rosso a piazzale Flaminio, Roma, 1956.

L’occhio di Klein non conosce regole; la sua poetica è basata su composizioni mosse, granulose, spesso sfocate, vicine, molto vicine ai soggetti ritratti. Nella piena convinzione che l’unica norma, per lui, è la libertà di rispondere alle sollecitazioni, al frastuono, all’imperfezione, all’incanto, al dettaglio, all’eccesso che l’ignota Roma, in compagnia di ciceroni d’eccezione come lo stesso Fellini, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Giangiacomo Feltrinelli, è in grado di offrirgli. Una libertà che William Klein, scomparso il 10 settembre scorso a Parigi, ha mantenuto per ogni progetto, fino alla fine.


Plinio De Martiis, membro attivo della Resistenza e funzionario nel secondo dopguerra del Partito comunista, nasce nel 1920 a Giulianova (Teramo). Trasferitosi a Roma con la famiglia già dai primi anni di vita, diventa uno dei più famosi galleristi del Novecento. Nota è la Galleria La Tartaruga, punto di riferimento per le avanguardie, aperta da De Martiis in via del Babuino nel 1954 con la moglie Maria Antonietta Pirandello (nipote di Luigi Pirandello), che tra cambi di sede, chiusure e riaperture cessa l’attività nel 2000 a Castelluccio di Pienza (Siena). Meno nota, invece, è la sua attività come fotografato, cominciata nel 1951 in collaborazione con testate quali “L’Unità” e “Il Mondo”. Fino al 1953 per primo ritrae le aree più bisognose della capitale, quelle delle borgate, dove evidente è uno stato di indigenza socioeconomica, dove le case sono fatiscenti, dove i mestieri prevalenti sono i più modesti e dove le discariche possono diventare luogo di riposo. Sono inquadrature prive di retorica, disincantate ma allo stesso tempo partecipi di una realtà che per De Martiis, fedele al pensiero di Gramsci e determinato a voler attribuire al suo lavoro un valore politico, è impossibile ignorare. L’intellettuale, che ha usato la sua Rolleicord (una versione povera della Rolleiflex) 6 x 6 con dodici fotogrammi, anche per immortalare artisti e mostre, si è spento a Bagno Vignoni (Siena) il 2 luglio 2004.

ART E DOSSIER N. 405
ART E DOSSIER N. 405
GENNAIO 2023
In questo numero: STORIE A STRISCE: Accendere la speranza di Sergio Rossi; BLOW UP: Klein e De Martiis di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Ri-Materializzazione del linguaggio a Bolzano - Parola di donna di Marcella Vanzo; 2 - Ernst a Milano - Gli allegri mostri di Lauretta Colonnelli; ....