Il gusto dell'arte

la bontà
del pane

di Ludovica Sebregondi

Uno spaccato preziosissimo sulle abitudini alimentari nella Toscana del XVI secolo: questo rappresenta il Libro mio, diario in cui il pittore toscano Jacopo Carucci (detto il Pontormo per via del suo paese di origine, Pontorme, presso Empoli) ha annotato con pignoleria desinari e cene, alternando informazioni sulla dieta – e sulle conseguenti funzioni corporee – a notizie relative al progredire dei suoi affreschi, in seguito distrutti, nel coro di San Lorenzo a Firenze.

Nei ricordi, che hanno inizio nel 1554 e terminano due anni dopo, il Pontormo appunta l’avvicendarsi – in desinari e cene – di «pollo e vitella», «insalata di barbe» rosse, «castrone lesso», arista, «insalata d’indivia e cacio e fichi sechi», «gota lessa con delle bietole e burro». Per carnevale si concede della lepre insieme all’allievo e amico Bronzino, col quale festeggia anche la Pasqua mangiando «crespelli mirabili». Spesso si lamenta: «Mangiai troppo», «dipoi mi sentivo male e parevami aver la febre», e per questo digiuna per ristabilirsi dagli eccessi. Tra le pietanze frequente è il «pesce d’uovo», cioè la frittata, solitamente di due uova, con cui si sazia anche alla taverna, ma l’alimento base resta il pane, di cui consuma a ogni pasto fra dieci e quindici once, cioè dai tre ai quattrocentocinquanta grammi.

Proprio il pane è al centro della raffigurazione della Cena in Emmaus, dipinta dall’artista nel 1525 su commissione di Leonardo Buonafede per la Certosa del Galluzzo (alle porte di Firenze), al cui refettorio era destinata. Un soggetto adeguato per il luogo, data l’accessibilità che il monastero, trovandosi su una delle più importanti direttrici viarie verso Sud, offriva ai pellegrini.

Al centro, a un tavolo tondo rivestito da una tovaglia bianca, siede Gesù, che la tracolla attraverso il petto qualifica come pellegrino, quale si è presentato ai discepoli in cammino verso il villaggio di Emmaus pochi giorni dopo la morte in croce e la Resurrezione (Luca 24, 13-35). Con la sinistra tiene una pagnotta, mentre con la destra compie il gesto di benedizione che lo farà riconoscere dai seguaci, seduti su rustici sgabelli. Al centro della tavola è posato un grande piatto di peltro, e dello stesso materiale è anche la caraffa da cui uno dei discepoli si versa da bere in una coppa di vetro. Di vetro sottile, e dalla forma a calice per richiamare doppiamente l’istituzione dell’Eucarestia sotto forma delle due specie, pane e vino, è anche un bicchiere appoggiato sul tavolo. Tre coltelli completano la frugale apparecchiatura: uno di essi viene impugnato dal discepolo di destra, a conferma dell’abitudine – quando le forchette non erano ancora di uso comune – di mettere a disposizione di ciascun commensale un coltello. Due gatti e un piccolo cane paiono in attesa di avanzi: la loro presenza fornisce non solo un’annotazione realistica degli ambienti in cui si consumava il cibo, ma anche un riferimento alla lotta tra il Bene e il maligno, rappresentato dai felini dagli occhi inquietanti.

Se la composizione è in parte desunta dall’analoga scena della Piccola Passione che Dürer aveva inciso nel 1511, l’inserimento dei ritratti dei religiosi in piedi adegua l’azione al luogo cui il dipinto era destinato, trasferendo in un monastero l’episodio che la narrazione originaria e le raffigurazioni più consuete ambientano invece in una taverna. Nell’anziano certosino a sinistra è da riconoscere Leonardo Buonafede, committente, nel corso della sua lunghissima vita, oltre che del Pontormo, anche di artisti quali il Rosso Fiorentino, Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, Giovanni della Robbia, Santi Buglioni, e il cui monumento funebre è opera di Francesco da Sangallo. Sembrano ritratti anche le raffigurazioni del giovane monaco a destra e del famiglio che si accosta dal fondo con un bicchiere in mano. La rappresentazione della Trinità, sotto forma di occhio divino in un triangolo, è rifacimento tardo dovuto al dettato controriformistico per sostituire l’originaria immagine con tre volti (uno frontale e due di profilo), proibita perché ritenuta di ascendenza profana.

La frugalità dell’insieme ben si adatta alle abitudini alimentari del Pontormo che il 19 ottobre 1555 annota nel suo diario: «Cominciai a riguardarmi un poco» e durarono «3 dì 30 once di pane, cioè 10 once a pasto, cioè una volta el dì e con poco bere: e prima adì 16 di detto [ottobre] imbottai barili 6 di vino da Radda». Del vino prodotto in Chianti dunque, ad accompagnare il pane, elemento fondamentale della sua alimentazione.


La ricetta:
Ribollita
Lessare 150 g di fagioli e passarne la metà; in una capace pentola soffriggere in olio un battuto di aglio, cipolla, rosmarino e sedano; quando l’insieme sarà imbiondito unire - tagliate a piccoli pezzi - le consuete verdure di un minestrone, salvia e “pepolino” (come in Toscana si chiama il timo selvatico), facendo insaporire il tutto. Aggiungere del concentrato di pomodoro in tubetto, il passato di fagioli, i fagioli lasciati interi e del cavolo nero tagliato sottile. Salare, pepare e tirare a cottura con acqua e dado da brodo, poi far raffreddare.
Tagliare del pane toscano raffermo in fette molto sottili; in una teglia alternare strati di pane e di minestrone e lasciare riposare mezza giornata. Condire con molto olio e mettere in forno per 30 minuti; il giorno dopo - di qui la denominazione “ribollita” - rimettere in forno per 30 minuti fino a che in superficie si sarà formata una crosta dorata.

ART E DOSSIER N. 308
ART E DOSSIER N. 308
MARZO 2014
In questo numero: MYTHOS ITALIEN L'Italia nell'immaginario europeo: dai caravaggisti olandesi alla Firenze del Grand Tour, dai sogni Art Déco ai vetrai muranesi. IN MOSTRA: Matisse, Ossessione Nordica, Montserrat, Este.Direttore: Philippe Daverio