La storia di Villa romana a Firenze è certamente un’interessante prospettiva da cui raccontare il rapporto tra la scena e le istituzioni artistiche tedesche e quelle italiane.
La villa neoclassica sulla via Senese fu acquistata da Max Klinger e, con l’aiuto di mecenati come il berlinese Eduard Arnhold (fondatore nel 1910 dell’Accademia degli artisti tedeschi a villa Massimo a Roma) e di alcuni direttori della Deutsche Bank (che dagli anni Venti sostiene e finanzia il premio Villa romana), nel 1905 fu fondata come progetto indipendente, gestito da artisti e alternativo al sistema delle accademie tedesche. Tra i primi residenti e borsisti troviamo personalità come quelle di Georg Kolbe, Max Beckmann, Käthe Kollwitz o Max Pechstein.
Negli anni fascisti finì inevitabilmente sotto le ingerenze del Ministero della propaganda; nel 1944 fu confiscata dagli alleati e nel 1954 rifondata e riaperta. Negli ultimi cinquant’anni tra i vincitori del premio troviamo Georg Baselitz, Anna Oppermann, Markus Lüpertz, Christiane Möbus, Michael Buthe e Katharina Grosse.
Conversando con alcuni artisti recentemente borsisti, sembra di capire che la permanenza alla villa assuma forse più una dimensione arcadica che di dialogo e relazione con il territorio italiano. Anche se il contatto e lo scambio con la sperimentazione artistica italiana è sempre stato un momento importante del programma di Villa romana.
La direttrice Angelika Stepken scrive, nel testo d’introduzione del catalogo di una mostra (aperta fino al 9 marzo alla Bundeskunsthalle di Bonn) dal titolo
Villa Romana. 1905-2013: «Che significato hanno, oggi, le residenze di artista in un sistema dell’arte globalizzato? Quale interesse riscontra oggi la storia istituzionalizzata del Rinascimento? Cosa è il presente nella città di 400mila abitanti di Firenze? Lo sguardo attraversando le Alpi finisce in Toscana oppure apre nuove prospettive verso le produzioni artistiche del Nord e del Sud del Mediterraneo?».
Il “Mythos Italien” sta forse lentamente dissolvendosi in una più indefinita attenzione della Germania verso le pratiche artistiche del Sud. Il fascino per quell’«antico ordine pittorico italiano» è oggi qualcosa che sembra aver perso la dimensione sperimentale degli anni di Carrà e della seconda avanguardia. Ma si tratta di un problema italiano, o del frutto di una sorta di discriminazione nordista?
Un esempio concreto. Mariechen Danz, artista di origine irlandese residente a Berlino, che nel 2013 ha vinto il premio di residenza per dieci mesi nella bella villa fiorentina, ci racconta con entusiasmo degli scambi e dei progetti con artisti internazionali della sua generazione, ma non parla di un rapporto facile con la città di Firenze e con le istituzioni italiane. Nella sua ricerca sul corpo, sulla sua performatività e sull’anatomia, la Danz non ha solo visitato i grandi monumenti e i musei-culla del Rinascimento, ma ha anche trascorso giornate intere alla Specola, al Museo di antropologia ed etnologia, alla riscoperta di materiali che le sono sembrati dimenticati dal pubblico italiano, abbandonati in polverosi scaffali o strutture museografiche. Tentando di lavorare con il Rinascimento e di “attivarlo” in direzioni altre e alternative - al di là di quelle istituzionalizzate - da parte degli italiani ha riscontrato poco slancio, si è sentita dire che con il Rinascimento c’è poco da fare, quasi tutto è già stato detto e scoperto.