XXI secolo
Mythos Italien, oggi

il senso
del discorso

Elena Agudio

A ventisei anni da una celebre mostra tenutasi a Monaco, torniamo a fare il punto sui rapporti artistici tra Italia e Germania. Ma in un mondo sempre più internazionalizzato ha ancora senso parlare di rapporto tra due nazioni?

Nel marzo 1988 alla Haus der Kunst di Monaco di Baviera si inaugurava Mythos Italien, Wintermärchen Deutschland(1), una mostra in cui si tentava di riscoprire e mappare influenze, scambi e parallelismi tra la scena artistica italiana e quella tedesca. Riprendere in mano oggi il catalogo della mostra e scartabellare tra le critiche scritte al tempo potrebbe sembrare un’operazione meramente compilativa e d’archivio. In realtà questa ricerca ci aiuta a comprendere la complessità e la storia di una lunga frequentazione culturale tra i due paesi, un rapporto che per molto tempo è stato forse parzialmente censurato per via delle derive fasciste che per due decenni – nella prima metà del secolo scorso – l’hanno alimentato.

Coerentemente al sottotitolo La modernità italiana e il dialogo con la Germania, la mostra si presentava come la messa in scena di un dialogo, quello tra gli italiani e i colleghi d’oltralpe, dando importanza e centralità al lavoro delle avanguardie italiche come motivo d’ispirazione per gli artisti tedeschi, affascinati dalla ricchissima storia dell’arte e dalla cultura della penisola.

Carlo Carrà, nel 1932, per il catalogo di una mostra del pittore russo Filippo Hosiasson a Milano aveva parlato di un «principio italiano». «Il “Principio italiano” consiste nella ricerca di un superiore equilibrio tra mondo che appare e mondo segreto, in una affermazione spirituale tipicamente costruttiva che armonizza la realtà all’intelletto, senso e anima. Dunque, si tratta di ristabilire nel mondo moderno, non le forme esteriori ma l’antico ordine pittorico italiano, ritornare ai veri valori dell’arte plastica»(2). Ed è questo principio italiano che la mostra Mythos Italien cercava di studiare e riscoprire.

Come causticamente scriveva un giornalista dell’autorevole quotidiano tedesco “Die Zeit”(3) nell’aprile del 1988 - tra gli articoli più critici che mi paiono essere stati scritti sulla mostra -, il percorso concettuale fatto dai curatori nascondeva però pericolose insidie. L’idea di una relazione biunivoca ed esclusiva dei rapporti tra Germania e Italia pareva semplicistica e dunque fuorviante: la conoscenza reciproca tra correnti ed esperienze artistiche italiane e tedesche non esisterebbe senza le dovute deviazioni di percorso, e, in quel tempo, senza il costante filtro di Parigi e della sua attivissima scena culturale. «Se i collegamenti trasversali tra le correnti artistiche delle avanguardie si dovessero tracciare in un diagramma, allora la Modernità costituirebbe una stazione di smistamento di idee. Guardando questo diagramma si riscontrerebbe che la velocità di mutamento delle idee è in costante crescita e il grado di collegamento tra queste cresce inesorabilmente. Si verrebbe anche a comprendere che il principio secondo cui la linea retta è la distanza più breve tra due punti, nel sistema arte è vero solo in parte - qui può infatti ben accadere che una deviazione porti più velocemente alla destinazione. La via più comoda si dimostra non di rado la strada sbagliata ». Con questa metafora il giornalista di “Die Zeit”, Helmut Schneider, liquida il concetto curatoriale della mostra, e procede nella sua critica sottolineando che il tentativo di giustapposizione e di “gemellaggio” tra italiani e tedeschi troppo spesso appare distorto. Il paragone tra alcuni artisti del Blaue Reiter con i futuristi italiani non funziona senza considerare il più forte influsso dell’avanguardia parigina. Il confronto diretto di Franz Marc con Giacomo Balla sembra stridere, privo di anello mancante. L’incontro di Umberto Boccioni con la visione apocalittica della città di Ludwig Meidner è senz’altro interessante, ma non avviene che nel catalogo, così come la ricerca di affinità di Giorgio de Chirico con Max Ernst e George Grosz e il dialogo tra “Valori Plastici” e “Neue Sachlichkeit”. Per un momento, poi, il dialogo subisce una battuta di arresto, e la curatrice della mostra Carla Schulz-Hoffmann denuncia la deriva della pittura italiana verso il realismo, per riconoscere più tardi la grandezza e l’importanza dell’Arte povera, e infine - è la cosa forse più interessante della mostra - riabilitare artisti come Alberto Savinio. 


Per l’occhio inquisitore di “Die Zeit” le ultime sale della mostra sembrano volere accennare a una superiorità dell’arte tedesca - per lo meno nell’accostamento di Baselitz a Sandro Chia o di Anselm Kiefer a Enzo Cucchi (senza peraltro rappresentare i secondi con le migliori opere, e dunque mettendoli in ombra).

Il giornalista trova il concetto alquanto problematico, soprattutto perché la messinscena avviene proprio nel museo che durante il periodo nazionalsocialista era niente di meno che la “Haus der Deutschen Kunst”.

Il peccato ideologico in mostre di questo tipo è - in effetti - spesso in agguato.


Nella mostra del 1988 l’idea di una relazione biunivoca ed esclusiva dei rapporti tra Germania e Italia pareva semplicistica e dunque fuorviante



Ludwig Meidner, Io e la cittˆ (1913).


Umberto Boccioni, La strada entra nella casa (1911), Hannover, Kunstmuseum.


Villa romana, a Firenze.

Ma, al di là dei filtri curatoriali e delle letture critiche, qual è oggi il rapporto degli artisti tedeschi con la cultura italiana? Lo scambio, a livello delle diverse soggettività, è certamente continuo e ricco. Ma a livello istituzionale come l’arte tedesca vede oggi l’arte italiana? Forse come un fenomeno più provinciale di quello che ha rappresentato finora nella storia. Il “principio italiano” sembra suonare oggi forse come qualcosa di polveroso. Certamente nell’epoca attuale è problematico continuare a ragionare in termini nazionali o nazionalistici, e - in ogni caso - in campo artistico la questione sembra ormai essere stata liquidata: oggi è difficile parlare di “arte contemporanea italiana” o di “arte contemporanea tedesca”.

Ma qui è importante comprendere che tipo di slancio hanno le istituzioni teutoniche di oggi verso l’arte contemporanea della penisola. Forse che il peccato originale della Schulz-Hoffmann continua a perpetrarsi?

La storia di Villa romana a Firenze è certamente un’interessante prospettiva da cui raccontare il rapporto tra la scena e le istituzioni artistiche tedesche e quelle italiane.

La villa neoclassica sulla via Senese fu acquistata da Max Klinger e, con l’aiuto di mecenati come il berlinese Eduard Arnhold (fondatore nel 1910 dell’Accademia degli artisti tedeschi a villa Massimo a Roma) e di alcuni direttori della Deutsche Bank (che dagli anni Venti sostiene e finanzia il premio Villa romana), nel 1905 fu fondata come progetto indipendente, gestito da artisti e alternativo al sistema delle accademie tedesche. Tra i primi residenti e borsisti troviamo personalità come quelle di Georg Kolbe, Max Beckmann, Käthe Kollwitz o Max Pechstein.

Negli anni fascisti finì inevitabilmente sotto le ingerenze del Ministero della propaganda; nel 1944 fu confiscata dagli alleati e nel 1954 rifondata e riaperta. Negli ultimi cinquant’anni tra i vincitori del premio troviamo Georg Baselitz, Anna Oppermann, Markus Lüpertz, Christiane Möbus, Michael Buthe e Katharina Grosse.

Conversando con alcuni artisti recentemente borsisti, sembra di capire che la permanenza alla villa assuma forse più una dimensione arcadica che di dialogo e relazione con il territorio italiano. Anche se il contatto e lo scambio con la sperimentazione artistica italiana è sempre stato un momento importante del programma di Villa romana.

La direttrice Angelika Stepken scrive, nel testo d’introduzione del catalogo di una mostra (aperta fino al 9 marzo alla Bundeskunsthalle di Bonn) dal titolo Villa Romana. 1905-2013: «Che significato hanno, oggi, le residenze di artista in un sistema dell’arte globalizzato? Quale interesse riscontra oggi la storia istituzionalizzata del Rinascimento? Cosa è il presente nella città di 400mila abitanti di Firenze? Lo sguardo attraversando le Alpi finisce in Toscana oppure apre nuove prospettive verso le produzioni artistiche del Nord e del Sud del Mediterraneo?».

Il “Mythos Italien” sta forse lentamente dissolvendosi in una più indefinita attenzione della Germania verso le pratiche artistiche del Sud. Il fascino per quell’«antico ordine pittorico italiano» è oggi qualcosa che sembra aver perso la dimensione sperimentale degli anni di Carrà e della seconda avanguardia. Ma si tratta di un problema italiano, o del frutto di una sorta di discriminazione nordista?

Un esempio concreto. Mariechen Danz, artista di origine irlandese residente a Berlino, che nel 2013 ha vinto il premio di residenza per dieci mesi nella bella villa fiorentina, ci racconta con entusiasmo degli scambi e dei progetti con artisti internazionali della sua generazione, ma non parla di un rapporto facile con la città di Firenze e con le istituzioni italiane. Nella sua ricerca sul corpo, sulla sua performatività e sull’anatomia, la Danz non ha solo visitato i grandi monumenti e i musei-culla del Rinascimento, ma ha anche trascorso giornate intere alla Specola, al Museo di antropologia ed etnologia, alla riscoperta di materiali che le sono sembrati dimenticati dal pubblico italiano, abbandonati in polverosi scaffali o strutture museografiche. Tentando di lavorare con il Rinascimento e di “attivarlo” in direzioni altre e alternative - al di là di quelle istituzionalizzate - da parte degli italiani ha riscontrato poco slancio, si è sentita dire che con il Rinascimento c’è poco da fare, quasi tutto è già stato detto e scoperto.

ART E DOSSIER N. 308
ART E DOSSIER N. 308
MARZO 2014
In questo numero: MYTHOS ITALIEN L'Italia nell'immaginario europeo: dai caravaggisti olandesi alla Firenze del Grand Tour, dai sogni Art Déco ai vetrai muranesi. IN MOSTRA: Matisse, Ossessione Nordica, Montserrat, Este.Direttore: Philippe Daverio