Studi e riscoperte. 2
La campagna romana nella pittura tra fine Ottocento e inizio Novecento

una solenne
malinconia

Paolo Bolpagni

Scoperto dalla pittura a partire dal Seicento, l’agro latino preindustriale continua a suscitare interesse anche in epoche successive, assumendo, fino alla prima metà del XIX secolo, un’immagine idealizzata, sostituita poi da una realistica rappresentazione dei luoghi, connotata, però, da una forte componente emotiva.

Tra i paesaggi più peculiari dell’Italia preindustriale vi è sicuramente quello della campagna romana. Attorno alla capitale si estende una pianura ondulata e mossa, armonica ma un po’ brulla, solcata dal Tevere e delimitata dai colli Albani, dai monti della Tolfa, dai Sabatini, dai Prenestini, dagli Ausoni; fatta oggetto, nel volgere delle epoche e degli stili, di innumerevoli rappresentazioni pittoriche, che vanno dal Seicento (con Poussin e Lorrain) agli anni Venti- Trenta del secolo scorso. Un fenomeno documentato da libri, mostre, cataloghi, curati da studiosi come Renato Mammucari, Pier Andrea De Rosa, Paolo Emilio Trastulli, Clemente Marigliani, Anna Maria Damigella, Nicoletta Cardano.

Quella della campagna romana – definita anche “agro latino” – è una terra di declivi e colline basse e lunghe, frammentate da insenature; prima delle bonifiche e dell’urbanizzazione del dopoguerra, era caratterizzata da ampie distese silenti (non di rado malariche nei mesi caldi), da un’atmosfera sospesa, da una luce dorata e un po’ misteriosa. Lo scrittore e critico Ugo Fleres, acutamente, definì questo scenario paesaggistico «melanconico di fronte alla giocondità napolitana, austero di fronte alla gentilezza toscana, selvaggio di fronte alla cultura lombarda»; mentre il Belli, sommo poeta romanesco dell’Ottocento, nel sonetto Er deserto aveva tratteggiato la campagna latina evocando «dapertutto un zilenzio com’un ojo / che si strilli nun c’è chi t’arisponna».

Dobbiamo immaginarci spazi pressoché disabitati, solenni e desolati nella loro solitudine immota, attraversati talvolta da butteri, cavalli, mandrie di bufali, greggi di pecore e capre; ed ergersi qua e là imponenti ruderi di costruzioni antiche, a far da contrasto con le primitive capanne di poveri pastori e contadini, la cui esistenza, ancora all’inizio del Novecento, sembrava essersi fermata ad abitudini ancestrali, in uno stato di indigenza eterna.

Tra la fine del XVIII secolo e all’incirca gli anni Cinquanta del XIX, lo sguardo rivolto dagli artisti e dai viaggiatori del Grand Tour sulla campagna romana fu però improntato, quando non all’esaltazione del pittoresco, soprattutto all’idealizzazione del paesaggio, o meglio alla trasfigurazione poetica di quella luce particolarissima che Goethe, diretto nel 1787 verso il Sud, aveva descritto come un «vapore di giorno» che «fluttua sopra la terra», «fenomeno che in natura è difficile vedere meglio di qui». Il francese Camille Corot, gli statunitensi Sanford Robinson Gifford e Albert Bierstadt (giusto per citare alcuni tra i molti) furono cantori raffinati e sapienti del fascino luministico della “dorata” campagna laziale, cogliendone le sfumature impalpabili nelle loro tele ispirate a quegli scenari e panorami.

Un atteggiamento già diverso si riscontra nell’inglese Charles Coleman, che, trasferitosi stabilmente a Roma nel 1835, dipinse vivaci scorci dei territori che circondano l’Urbe, e nel 1850 pubblicò un fortunato album di cinquantatre acqueforti dedicate alla campagna romana, dove inizia a palesarsi un’attenzione al “vero”: cioè un interesse autentico non soltanto per i luoghi, ma anche per i loro abitatori, per la vita e il lavoro di contadini, pastori, vergari, cacciatori.

Il pittore-patriota Nino Costa, che conobbe Charles Coleman e frequentò altri due artisti inglesi allora attivi in Italia (George Mason e Frederick Leighton), realizzò, negli anni Cinquanta-Sessanta dell’Ottocento, vedute della campagna romana da cui è ormai bandita ogni traccia di idealizzazione. L’adesione al “vero” e lo studio “en plein air” non diventano però sinonimo di crudo realismo, giacché il paesaggio è vissuto pur sempre come stato d’animo, in un rapporto diretto ed emotivo con le sue manifestazioni naturalistiche e atmosferiche.


Spazi pressoché disabitati, solenni e desolati nella loro solitudine immota, attraversati talvolta da butteri, cavalli, mandrie di bufali, greggi di pecore e capre


Nino Costa, Donne sulla spiaggia di Anzio (1853), Roma, Galleria nazionale d’arte moderna.


Camille Corot, Il monte Soratte (1826), Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire.


Sanford Robinson Gifford, Il lago di Nemi (1856-1857), Toledo (Ohio), Museum of Art.

La figura e l’insegnamento di Costa saranno determinanti per tutta la generazione successiva di pittori che decideranno di avventurarsi nell’agro latino e di rappresentarlo nelle loro opere. Nel 1904 anzi si costituirà una vera e propria associazione, i “XXV della Campagna romana”, nelle cui file confluiranno molti ex esponenti del sodalizio “In Arte Libertas”, che Costa aveva fondato negli anni Ottanta del secolo precedente. Tra i nomi di spicco del gruppo emergono quelli di Giulio Aristide Sartorio, Duilio Cambellotti, Enrico Coleman (figlio di Charles), Cesare Biseo, Onorato Carlandi, Umberto Coromaldi, Arturo Noci, Giuseppe Raggio, Alessandro Morani. Agli artisti inoltre si affiancavano intellettuali, letterati come Giovanni Cena e Cesare Pascarella, persino un medico, Alessandro Marcucci. In effetti, gli obiettivi dei XXV - che in realtà diventeranno ben quarantacinque - erano molteplici: da una parte, certamente, rinnovare la tradizione pittorica della raffigurazione del paesaggio della campagna romana; ma dall’altra anche documentare gli usi e le dure condizioni di vita degli abitanti dell’agro, dei “miserabili” che vi conducevano un’esistenza diseredata. Contribuirono addirittura a promuovere “spedizioni filantropiche” e scuole popolari per alfabetizzare i contadini, mentre la Croce rossa finalmente avviava nel 1900 vaccinazioni e distribuzioni di chinino ai malarici. Non dimentichiamo che erano sì gli anni del simbolismo, della pittura “ideista”, ma anche del socialismo umanitario, del concetto tolstojano di educazione del popolo, di missione redentiva.


Sartorio privilegia una visione naturalistica di contemplazione della solenne malinconia della campagna romana, colta nella sua «immobile immensità fuori del tempo e della civiltà»

Gli esiti artistici, insomma, furono variegati: Sartorio privilegia una visione naturalistica di contemplazione della solenne malinconia della campagna romana, colta nella sua «immobile immensità fuori del tempo e della civiltà». Enrico Coleman, che fu il “capoccetta” dei XXV, e che si applicava ai panorami dell’agro latino da assai prima della costituzione del sodalizio, alterna vedute realistiche e immagini mitico-ancestrali di centauri scorrazzanti per la “latina tellus”. Carlandi invece è un cantore delle paludi e dei paesaggi d’acqua, della «poesia occulta dei prati e dei boschi romani», e riuscì particolarmente bene nei rapidi ed efficaci acquerelli. 


Il più “sociale” di tutti è Duilio Cambellotti, interessato al lavoro dei campi, alla vita dei pastori e dei contadini, agli uomini e agli animali. Nel 1911, nell’ambito della grande Esposizione universale che si svolse nella capitale (oltre che a Torino e a Firenze), concorse all’ideazione di un padiglione dedicato proprio alla campagna romana, che consisteva nella riproposizione fedele e realistica di una delle tipiche capanne in legno e paglia in cui ancora vivevano gli abitanti dell’agro: all’interno vi era un suo bassorilievo, Cavalli, e accanto una serie di piccoli oli e pastelli (più un Ritratto di Tolstoj) di Giacomo Balla. Pur non avendo mai aderito ai XXV, anche lui, torinese trapiantato a Roma, era rimasto affascinato dagli scorci di quella campagna ammaliante e scabra. Che fu oggetto, nel 1910, di uno splendido libro di Arnaldo Cervesato intitolato Latina tellus, ornato dai forti disegni di Cambellotti, da fotografe originali di Cena e Marcucci e dalle riproduzioni di molte opere del gruppo dei XXV: un’imprescindibile testimonianza che ci aiuta a ricostruire, ricordare e in parte rimpiangere la bellezza aspra di quei paesaggi.


Aristide Sartorio, Foro Appio (1920).

ART E DOSSIER N. 307
ART E DOSSIER N. 307
FEBBRAIO 2014
In questo numero: SOUVENIR D'ITALIE L'Italia nell'arte dell'Ottocento, dalla Milano dei Navigli all'Agro Romano, al sole del sud: il Bel Paese prima del benessere e del disastro. IN MOSTRA: Anni Settanta, Molinari Pradelli, Vermeer.Direttore: Philippe Daverio