Studi e riscoperte. 1
Francesco Primaticcio

gli ultimi
fuochi del Rinascimento

Difficile stabilire di fronte alla personalità eclettica e vivace di Primaticcio quali siano le opere effettivamente frutto della sua mano o comunque attribuibili alla sua cerchia. Certamente sue sono le decorazioni del castello di Fontainebleau, rivelatrici di un manierismo classicista dove gli aspetti voluttuosi e carnali manifestano tutta la loro carica espressiva.

Enzo Bilardello

Ai visitatori di Fontainebleau non può sfuggire la differenza tra il nucleo rinascimentale e l’ala adibita a museo napoleonico del castello. Le sale del Rinascimento appaiono massacrate da squarci, toppe, rifacimenti pesanti; la lunga manica napoleonica espone arredi e oggetti immacolati, che sembrano appena usciti di fabbrica. Tuttavia, il Rinascimento, sventrato e falsificato, irradia ancora vitalità, gioia di vivere, bellezza d’arte incoercibile, mentre dalla bruciante e pretenziosa epopea napoleonica sembra promanare un’aura “morne”, d’apparato funerario. I “memorabilia” di quella galleria avrebbero la giusta collocazione nell’edificio avvolto dai cipressi nell’Isola dei morti di Böcklin.

Francesco Primaticcio era giunto a Fontainebleau nel 1532 come tuttofare: pittore, stuccatore, architetto, e per alcuni anni se ne stette buono buono alle dipendenze del Rosso Fiorentino, di dieci anni più anziano e sperimentato. Alla morte del Rosso (1540), toccò a lui la direzione del cantiere e il compimento non solo della Galleria, già a buon punto, ma anche di altri ambienti: il perduto Cabinet du roi, la Camera da letto della duchessa d’Estampes, con affreschi sulla Vita di Alessandro Magno (1543), ancora visibile; la Galleria d’Ulisse (1541-1570) demolita nel 1738 sotto Luigi XV, e la Galleria d’Enrico II, pesantemente manomessa. A queste imprese vanno aggiunti il soffitto della cappella dei Guisa (1557) e nella rotonda dei Valois nella chiesa di Saint- Denis la Tomba di Enrico II in collaborazione con lo stilisticamente congeniale Germain Pilon (1537-1590). Nella Galleria gli sono attribuiti Giove e Semele e la Danae. Costei ostenta il busto eretto di un’altera regina (si faccia il confronto con la denigratoria Danae-Mademoiselle Lange di Girodet conservata a Minneapolis presso l’Institute of Arts), mentre erote e serva s’industriano a metter via il sacco con l’oro. A parte l’araldicità del profilo e l’impassibilità emotiva, quel che si fa notare in Danae è il compasso delle gambe aperte che, a datazione proposta (1540), anticiperebbe di un bel po’ la soluzione di Tiziano per le due versioni: quella del 1546, a Capodimonte, che subì l’onta dell’accusa d’inadeguatezza disegnativa, sentenziata da Michelangelo, e quella, intorno al 1550, riveduta e corretta del Prado. Che concetto aveva di sé il giovane Primaticcio? Gli Uffizi posseggono l’Autoritratto nel quale il giovane si contempla compiaciuto, intorno ai venticinque-ventotto anni, con la fronte piana della persona diretta, la barbetta e le ombre che danno densità a una personalità intensa, dalla vibrante vita intellettuale. Il suo è un narcisismo diverso da quello del Parmigianino, meno esoterico e virtuosistico, e più interessato a far emergere la personalità interiore.

Uno degli scogli maggiori nel ricostruire la personalità di Francesco Primaticcio è costituito dalle attribuzioni ballerine, stante il naufragio quasi totale del corpus pittorico che avrebbe costituito un buon ancoraggio. La Sacra famiglia con sant’Anna e san Giovannino (1535 circa, San Pietroburgo, Ermitage) è stata sbalestrata da un nome all’altro, finché Giuliano Briganti non è approdato a Primaticcio, riscontrando un buon consenso. L’ambientazione teatrale con il deambulatorio circolare trova un attendibile riscontro nella Sacra conversazione di Giulio Romano nella romana Santa Maria dell’Anima (poi le architetture in sé sono diverse). Quanto alle figure, l’adesione ai modi del Parmigianino è più stringente, facendo del bolognese un echeggiatore competente alla ricerca di una propria strada. Ciò che persuade un po’ meno è il rosso violento, araldico, del manto di sant’Anna, che contrasta col gusto del Primaticcio di ammorbidire le tonalità, ma la relativa giovinezza può comportare un “quid” d’intemperanza. Il Ratto di Elena (1540-1555, Durham, Bowes Museum) subisce ancora la fascinazione di Giulio Romano contorto ed esagitato, con le figure che lasciano al paesaggio appena un interstizio. Le due nude in proscenio (della terza fa capolino solo la testa) che provano debolmente a opporsi al ratto sembrano esser state colte di sorpresa nel mezzo di una danza sensuale, mentre le altre donne del gineceo di Menelao si rannicchiano spaventate. La bagarre tra armati di casa e gaglioffi troiani discende dal gusto di palazzo Te, insieme all’Elena sollevata di peso da una sorta di forzuto Calibano (forse un autoritratto di chi ha effettivamente dipinto la storia).

Una visione elegiaca quale Ulisse e Penelope rispecchia perfettamente la sensibilità di Primaticcio e la sua cultura d’immagine

L’infilata delle tre teste femminili è veramente una bellissima idea, e anche l’Elena, che si divincola e graffa, è una soluzione fresca per un tema che, solitamente, la vede più remissiva. Paride detta i tempi dal ponte della nave (curiosamente nessuno obietta sulla collocazione geografica di Sparta, lontana dal mare), mentre in primo piano il vociare e lo stravolgimento dei volti ci riconsegna il manierismo esagitato di Giulio Romano e degli imitatori di Michelangelo. Per questo dipinto si è fatto il nome di Nicolò dell’Abate ma, poiché gli elementi primaticceschi sono vistosi, lo si è preferito lasciare nella sua area, pur non riconoscendone l’autografa.

Indubbiamente, è con gli stucchi della Galleria e più ancora con quelli dello Scalone d’Estampes che il Primaticcio dà la misura del suo manierismo classicista, della sua euritmia un po’ ripetitiva ma felice, della commistione di bellezza muliebre fermata al primo stadio della maturità fisica e di animalità prosciugata nei bucrani e fintamente minacciosa nelle nudità dei satiri. I putti e le frutta, che riempiono ogni spazio vuoto, devono ribadire la felicità del luogo: abbondanza, fertilità, sesso, se non algido certamente ritualizzato e contesto di ogni sorta di modalità. 


Nella produzione del Bologna (era un suo soprannome) c’è spazio per episodi speciosi quali Ulisse che prende d’infilata gli anelli - l’affresco è perduto dal 1738, e il dipinto, conservato nel museo di Fontainebleau è una copia attribuita a Ruggiero de’ Ruggeri - con la complicata spazialità delle scale che evoca sia il giovane Pontormo sia, più puntualmente, il più recente Salone dei cento giorni (Roma, palazzo della Cancelleria) contenente gli affreschi di Vasari raffiguranti la vita di Paolo III Farnese. Una visione elegiaca quale Ulisse e Penelope (1545 circa, Toledo, Stati Uniti, Toledo Museum of Art) rispecchia perfettamente la sensibilità di Primaticcio e la sua cultura d’immagine. Scena di pacata intimità, nella quale un’ancor giovane Penelope enumera gli anni di solitudine a un maturo Ulisse che paternalisticamente, ma anche con tenerezza, le carezza e inquadra l’aristocratico e quasi virginale profilo. Forte traspare il ricordo di Parmigianino nei volti, e della cultura romana nel crepuscolo visto attraverso l’alto fornice in controluce. Siamo agli ultimi bagliori di un Rinascimento colto, intimo ed elegiaco, in contrasto con la temperie storica e con le vicende private di dinastie in evoluzione anche tragica.

Un aspetto non secondario del Primaticcio (e che piacque molto a Vasari) è l’abilità di disegnatore di corpi sdutti che costruiscono geometrie formalistiche e improbabili. Diana e le ninfe al bagno (Louvre) è un’architettura di corpi scalati come se disegnassero rosta semicircolare che prende freschezza dalle nudità e restituisce sensualità, affidandosi alla proposizione tranquilla di seni e pubi pudichi, per quanto si possa.


È eccezionale come nella Mascherata di Persepoli Primaticcio renda il notturno, la magia di corpi si muovono sinuosi e osceni nella penombra


Ulisse e Penelope (1545 circa), Toledo (Stati Uniti), Toledo Museum of Art.


La mascherata di Persepoli (1541-1545), Parigi, Musée du Louvre.

Il primo nudo eretto a sinistra rammenta qualcosa dei nudi pagani di Michelangelo nel Tondo Doni, ma sono certo che, indagando, si troveranno riscontri precisi che emergono qua e là. Che gran pittore dev’esser stato Apelle, se riusciva a concentrarsi nelle condizioni nelle quali lo ha costretto Primaticcio. Apelle ritrae Campaspe (Chatsworth, collezione duca di Devonshire) è tutta una cacofonia di vasi rovesciati, di maleducazione di soldati che irrompono o chiacchierano nello studio, di capricci del fanciullo che si aggrappa alle gambe dell’artista, e di una Campaspe riottosa a farsi ritrarre nuda e tenuta a freno da un Alessandro Magno, anch’egli nudo ma con l’elmo in testa. L’insieme, altamente sarcastico, mi fa pensare al racconto di Camus L’hote-Jonas ou l’artiste au travail (1957), nel quale il successo comporta condizioni di lavoro sempre più azzardate. Il disegno che s’intitola Cerere (1552-1556, Chantilly, Musée Condé) è pensato come una tromba d’angolo o un pennacchio di cupola con le figure che s’incastrano l’una con l’altra a costruire un puzzle di superiore geometria. Mi viene il sospetto che l’insieme sia costituito di citazioni dissimulate, ma una s’impone per l’evidenza dell’imprestito: il nudo che si erge imbracciando un fascio di spighe e la falciatrice chinata sotto di lui son desunti pari pari dalla Battaglia dei centauri di Michelangelo. Cerere troneggia, è una calamita che irresistibilmente fa convergere verso sé la maggior parte dei movimenti delle figure e, nel registro superiore, si dispiega, autonoma dal resto della serrata composizione, l’indaffarata fucina di Vulcano.

Più enigmatica è La mascherata di Persepoli (1541- 1545, Parigi, Louvre), orgia di nudi virili in attitudini bacchiche, di travestitismo orientale e, nel piccolo formato, di una complicazione spaziale eccellente (non per niente il Dürer del 1506 si era ripromesso un viaggio a Bologna per studiare prospettiva). è eccezionale come in questo disegno Primaticcio renda il notturno, la magia di corpi che si muovono sinuosi e osceni nella penombra, la stranezza di riti orientali incomprensibili alla nostra razionalità. La scena è illuminata con bagliori sparsi di torce come se fash al magnesio rivelassero arbitrariamente questa disposizione dei corpi piuttosto che un’altra, mentre le lumeggiature rinforzano il bianco della carta, più vibrante perché corroso dalle ombre che tutto avvolgono. Nel naufragio quasi totale dell’opera architettonica, basta la pianta della Rotonda dei Valois in Saint Denis per garantirgli una collocazione di tutto rispetto. La pianta si presenta come un cristallo di neve a simmetria raggiata e se avesse avuto una forma ellittica, anziché circolare, avrebbe anticipato di quasi un secolo l’interno in espansione di Sant’Andrea al Quirinale di Bernini. L’architettura del Monumento funebre a Enrico II e a Caterina de’ Medici è dichiaratamente italiana e non può venire che da un pensiero di Primaticcio con quegli speroni che si allungano dagli angoli e le statue inquadrate da due colonne. Primaticcio era l’artista che ci voleva per creare uno stile nazionale francese, italiano di fatto ma ben camuffato per farlo sembrare autoctono.

ART E DOSSIER N. 306
ART E DOSSIER N. 306
GENNAIO 2014
In questo numero: MANIERISMI E SEX APPEAL Quando l'eros insidia lo stile, dal Primaticcio a Balthus, dal mito di Leda a Benton all'arte contemporanea. IN MOSTRA: Fornasetti, Renoir.Direttore: Philippe Daverio