Letture iconologiche
Il mito di Leda da Correggio a Fellini

LA DONNA,
IL CIGNO E IL SOGNO

Rossana Mugellesi, Stefania Landucci

È soprattutto dal Rinascimento che il mito di Leda ispira e tormenta generazioni di artisti. La bella principessa ovidiana appare languida e sensuale, mai del tutto innocente, specchio di desideri, sogni, inconsce attrazioni e repulsioni.

Il grande debito degli artisti nei confronti della mitologia classica è un dato certo, così come è indubbio che le valenze passionali presenti nelle storie mitiche abbiano sempre esercitato un forte fascino sulle fantasie artistiche. 


La fonte letteraria di maggiore ispirazione è rappresentata dalle Metamorfosi di Ovidio, una vera e propria Bibbia amorosa dell’Occidente: il poeta latino «dipinge con le parole», secondo il famoso aforisma di Simonide, per il quale la pittura è poesia muta e la poesia pittura parlante(1). Nel repertorio dei miti ad alta “densità amorosa” e un’intensa gradazione di sensualità, hanno subìto rappresentazioni più o meno fedeli e più o meno connotate eroticamente i famosi amori, o meglio, i tradimenti amorosi di Giove: in forma di pioggia d’oro (Danae) o con le sembianze di una nuvola (Io), o di un candido cigno (Leda), il dio si unisce alle belle fanciulle concupite ingravidandole. 


Fu Correggio, tra i più raffinati interpreti del tema, ad andare oltre la narrazione ovidiana(2) del mito di Io e a spingersi in una dimensione di intensa passione: nel poema Giove insegue la fanciulla che fugge nei boschi finché, per sottrarsi al controllo di Giunone, «il dio nascose la terra per un gran tratto sotto una fitta caligine, fermò la sua fuga e le rapì il pudore» (vv. 599-600). Ma la dea, insospettita, scese sulla terra e Giove allora tramutò l’amante in una bianca giovenca che la consorte però pretese in dono, tutto questo non senza un certo dissidio interiore del dio: «Che fare? Sarebbe crudele consegnare l’amata; non farlo, sarebbe sospetto. Da un lato la vergogna consiglia di sì, dall’altro l’amore consiglia di no» (vv. 616-621).

Nel dipinto di Correggio lo spazio è quasi interamente riempito dalla densa nuvola che non nasconde più il dio ma è essa stessa il dio che sembra prendere consistenza solo dal contatto con Io, quando se ne intravedono il volto e la zampa grigia fatta di ombra e di nebbia che scivola intorno alla vita di lei. Una nube quasi umanizzata, evanescente eppure pesantemente plumbea, capace di avviluppare la fanciulla che non fugge ma, in un atteggiamento di sensuale resa, si abbandona all’abbraccio, mostrando in tutto il suo splendore il corpo nudo, di schiena, il cui incarnato – così bianco e perlaceo da sembrare vero – con il candore della veste risalta sul marrone bruciato della vegetazione e sul cielo azzurro reso cupo e denso dalla nuvola-Giove. Abbandono sì, ma anche tensione: i muscoli contratti, la schiena inarcata quasi a reggere il peso di un altro corpo, il piede poggiato sulla punta e le gambe leggermente divaricate, la testa piegata all’indietro e le labbra socchiuse(3).

Suggestioni ancora più esplicite restano sottese nella rappresentazione, da parte dello stesso Correggio di un altro amore di Giove: Leda col cigno (1531-1533). La donna, dallo sguardo languido e dal dolce sorriso, campeggia al centro della composizione con la testa reclinata su un lato quasi a continuare l’ondulazione del collo del cigno; è evidente una certa audacia della scena, accentuata dalla posizione frontale di Leda che con una mano mantiene l’equilibrio e con l’altra agevola l’unione con Giove in veste di cigno, audacia che destò all’epoca non poco scandalo(4).

Lo spettatore resta coinvolto in questo misto di sensazioni ed emozioni fatte vibrare da una pittura parlante che, rispetto alla poesia, possiede la grande forza di suscitare amore; come scrive Leonardo: «E se il poeta dice di fare accendere gli uomini ad amare, che è cosa principale della specie di tutti gli animali, il pittore ha potenza di fare il medesimo, tanto più ch’egli mette innanzi all’amante la propria effigie della cosa amata, il quale spesso fa con quella, baciandola, e parlando con quella, quello che non farebbe con le medesime bellezze postegli innanzi dallo scrittore. […] E già intervenne a me fare una pittura che rappresentava una cosa divina, la quale comperata dall’amante di quella volle levarne la rappresentazione di tal deità per poterla baciare senza sospetto, ma infine la coscienza vinse i sospiri e la libidine, e fu forza ch’ei se la levasse di casa. Or va tu, poeta, descrivi una bellezza senza rappresentazione di cosa viva, e desta gli uomini con quella a tali desideri. […] Muove più presto i sensi la pittura che la poesia»(5). Il mito di Leda e il cigno si muove proprio nella direzione indicata da Leonardo, è volto ad «accendere gli uomini»; ciò che colpisce, se si escludono le sculture, i rilievi, le gemme, i mosaici nell’antichità, è la sua riproduzione come soggetto autonomo solo a partire proprio da Leonardo(6) che si dedicò al tema (1505- 1510)(7) con particolare passione, realizzando uno dei nudi femminili più audaci mai dipinto da un artista rinascimentale. La splendida principessa amata da Giove con tanto slancio si presenta per la prima volta in piedi, con un dolce sorriso enigmatico(8), completamente nuda e priva dei canonici orpelli atti a salvaguardarne il decoro (veli, ciocche di capelli, vegetazione...). Mentre il mito celebrava Leda quale passivo oggetto del desiderio, qui il suo atteggiamento è attivo. Con allusione esplicita al momento dell’amplesso è riprodotta nell’atto di accarezzare e abbracciare il diocigno suggerendo, nella posizione delle gambe e delle braccia, la forza di un’inedita carica erotica. Il corpo della donna, delicato e sensuale, troverà posto nelle successive rappresentazioni del nudo femminile, quasi a testimoniare una sorta di re-invenzione nell’ambito della ricerca leonardesca di figure rappresentative della bellezza assoluta(9). Michelangelo, per la sua Leda (dopo il 1532)(10), rimase invece fedele all’immagine ovidiana quale si evince, seppure da un solo verso, in Metamorfosi VI 109: «Leda sdraiata sotto le ali del cigno». Questo amore di Giove è inserito tra le storie che Aracne tesse nella sua gara con Pallade e si connota di una forte espressività per la presenza del verbo “recubare”, il cui significato, senza alcuna ambiguità, indica il “giacere” come posizione assunta durante l’atto d’amore. La versione di Michelangelo è dunque alternativa a quella di Leonardo, e rappresenta la donna, dal corpo massiccio, muscoloso e in leggera torsione, sdraiata su una sorta di giaciglio e sovrastata dal cigno, con una gamba a terra e l’altra poggiata sull’animale che le sfora le labbra con il becco. L’alto grado di sensualità conferisce al mito di Leda una vaga fascinazione, un’“attrazione fatale” che penetra nelle pieghe più profonde della sensibilità artistica, fino a sollecitare reazioni dell’inconscio stesso. Così, se Giovanni Boldini, in un piccolo pastello (prima del 1884), riprende lo schema classico di Leda con il cigno dal collo lunghissimo e dal piumaggio bianco candido che spicca sui toni neutri del resto della composizione, è evidente che l’artista mira a sottolineare il coinvolgimento erotico dei due protagonisti, suggerito non solo dalla posizione di Leda ma anche dal collo reclinato all’indietro e dall’atteggiamento di voluttuoso abbandono(11).



Correggio, Leda col cigno (1531-1533), Berlino, Gemäldegalerie.

Attribuito a Rosso Fiorentino, da Michelangelo, Leda (1533-1538 circa), Londra, Royal Academy.


Giovanni Boldini, Leda (prima del 1884), Ferrara, Museo Boldini.

Diverse le implicazioni di un altro grande artista, a lui contemporaneo e del medesimo ambiente culturale, che si dedicò al mito di Leda per tutto l’arco della sua carriera, in modo quasi ossessivo(12): Gustave Moreau.

Per la Leda di Moreau (1875-1880) è certa la fedeltà al mito nonché alla tradizione. La scena si svolge presso le acque del fume Eurota: la donna è sovrastata dal cigno, con la testa rovesciata all’indietro, il braccio che sembra avvicinare ancora di più il cigno e i lunghi capelli sciolti, con un effetto di passionale abbandono.

Perché tanto interesse da parte di Moreau? Possiamo pensare all’influenza di Leonardo e Michelangelo, al mito come fonte di ispirazione a cui dare «tutta l’intensità possibile, senza rinchiuderlo in epoche, modelli e in stili del momento»(13), alla sua predilezione per la sensualità del corpo femminile, al fatto che Leda poteva incarnare la donna pura in opposizione a quella fatale (si pensi alla Salomè di cui realizza ben centoventi versioni), alle molteplici valenze simboliche del cigno (insieme simbolo di purezza e di seduzione). Ma, accanto a questi richiami, notiamo come forse il fascino del mito di Leda sembri insinuarsi nella mente di un uomo dal temperamento passionale e contraddittorio, debole e combattivo al tempo stesso, prigioniero delle proprie angosce più o meno consapevoli, quasi che i soggetti mitologici, deliberatamente scelti, rappresentassero una sorta di schermo alla sua sensibilità e alle sue nevrosi.

All’interno di questa stessa dialettica si colloca un’altra Leda (1886), stavolta di un pittore famoso per le nature morte e i paesaggi: Cézanne, l’antesignano del cubismo, l’appassionato interprete della natura pure lui caduto nella rete del fascino nascosto della storia di una donna e di un cigno.

Cézanne reinterpreta il mito sulla base di una personale, tormentata e complessa visione del mondo femminile in cui, peraltro, compare sempre la stessa tipologia di donna: proprio Leda, con le sue forme morbide e provocanti, i folti capelli lunghi e di un biondo-arancio, la posizione adagiata che rimanda a un sensuale e invitante languore: la ritroviamo in L’eterno femminino (1877) in cui una donna dai tratti non ben delineati troneggia su un grande letto circondata da una folla di ammiratori.

O anche in Una moderna Olympia (1873), uno schizzo in cui Cézanne fornisce un’interpretazione molto più audace dell’analogo soggetto di Manet: la contrapposizione tra il nudo della donna spogliata dalla domestica nera e l’abbigliamento elegante dell’uomo-spettatore vestito di scuro - che, peraltro, somiglia curiosamente al pittore(14)-, appare pruriginosa e al contempo teatrale per l’effetto della tenda sospesa a sinistra.

Complessi e ambigui sono i sentimenti che legano Cézanne alle donne. Disse di lui il mercante d’arte Ambroise Vollard: «Alla fine della sua carriera il sogno è avere modelle nude all’aria aperta, desiderio irrealizzabile per molte ragioni, tra cui la più importante è che le donne, anche quando sono vestite, lo spaventano»; dichiarazione che rimarca in Cézanne una forte attrazione e repulsione a un tempo per la donna, una sessualità problematica e un’interiorità tormentata. E ancora a proposito del sesso femminile, «diffidava molto di sé dichiarandosi debole. […] “È spaventosa la vita!”, in verità ne aveva paura quanto un monaco»(15). Del resto lo stesso Cézanne non mancò di esprimere il proprio disagio: «Ho giurato a me stesso di morire dipingendo, piuttosto che sprofondare nel rimbambimento avvilente che minaccia i vecchi quando si lasciano dominare da passioni che abbrutiscono i sensi»(16).

Se nelle Lettere lo stesso artista scriveva che «la letteratura si esprime con astrazioni mentre il pittore concretizza, con il disegno e il colore, le proprie sensazioni, le proprie percezioni»(17) e pare avesse detto a Renoir: «Io dipingo nature morte. Le modelle mi spaventano», la scelta del mito di Leda potrebbe costituire un significativo esempio di quanto fosse difficile, quasi nevrotico, il suo rapporto con il mondo femminile.

Ma non solo, forse la rievocazione del mito si ricollega ad archetipi più o meno inconsci (vista anche la ripetizione della tipologia di donna in sé piuttosto che la ripresa tradizionale del mito in senso stretto), quasi a confermare il pensiero di Freud: «La natura generosa ha dato all’artista la capacità di esprimere i suoi impulsi mentali più segreti, ignoti anche a se stesso, mediante le opere che egli crea»(18).

Se dunque l’immagine spesso racconta più delle parole e se la Leda di Correggio, Leonardo, Michelangelo, Boldini e Moreau è rappresentata come una principessa di rara bellezza che accoglie di buon grado l’unione con il dio, disponibile sì ma mai volgare, semmai voluttuosa e sensuale, quella di Cézanne appare quasi sfrontata.

Il tema dell’“eterno femminino” sposta il nostro confronto sulla complessa tipologia femminile (“matres matutae”, Madonne del Duecento, prostitute sacre, vestali…) consegnataci dai disegni colorati, suggestivi ed espliciti raccolti nel Libro dei sogni di Federico Fellini(19) in cui l’inconscio è una sorta di cuore pensante della conoscenza, è inconscio(20) creatore(21). Nella trascrizione del sogno del 1° aprile 1975 scrive: «La P. nuda e rosea come una gigantesca neonata sedeva su di una nube immobile in mezzo al cielo luminosissimo e azzurro. Sentivo che era arrivato il momento di intervenire e mi mettevo a soffiare sulla nube dicendo: “È ora di fertilizzare quello che c’è sotto!”. Sotto la spinta del soffio potente come quello di un dio, la nube della P. prendeva a veleggiare calma e lenta per gli spazi. La P. raccoglieva con gesto solenne le favolose tettone tra le mani e una ordinata lucente pioggia cadeva sulla terra. Mah!»(22). Le forme generose della donna (lo sono, in certa misura, anche quelle della Leda di Cézanne) si impongono sulla scena, il profilo dell’artista che soffia con forza gentile si identifica con quello di un dio e, nel contesto, richiama quello di Giove, la nuvola evoca sia il mito di Io sia quello di Danae con la pioggia d’oro ed è chiaro il riferimento alla fecondazione. 

Anche Botero cede al fascino di Leda (2007): attraverso una rappresentazione ciclopica e quasi grottesca l’artista colombiano rilegge il mito con la propria chiave interpretativa, un’arte che consiste nel «fare lo stesso che hanno fatto tutti, ma in una forma diversa. Lo stesso uomo, lo stesso albero, lo stesso animale ecc., sempre diverso. Questa è la storia dell’arte. Una serie di artisti con personalità»(23). La sua Leda monumentale e la solidità e pienezza di forme che caratterizzano l’intero universo boteriano non dovrebbero avere alcuna caratterizzazione psicologica a giudicare dalle parole dell’artista: «Non faccio un’opera d’introspezione psicologica. Non mi interessa, questo. Una faccia è come una mela. Cézanne diceva proprio così a una signora che posava “Per favore, stia seduta lì come se fosse una mela”. […] La scultura […] è come una carezza. Tu tocchi le forme, puoi dare alle forme quella morbidezza, quella sensualità che desideri. È magnifico. […] Sai cosa diceva Rodin(24)? “La creta è la vita, il gesso è la morte, il bronzo è la resurrezione”»(25).

Eppure, di fronte alle sue donne così debordanti, non potremmo chiederci se anche Botero non sia preda dell’inconscio creatore che induce l’artista a dare vita agli istinti più reconditi dell’animo umano? La sua Leda, nell’enormità resa ancora più vistosa dal materiale scelto, il bronzo, sembra la traduzione corporea dettata da uno stato onirico piuttosto che il suo autentico ideale di donna, quello abbozzato su un foglietto durante una recente intervista in cui compare appunto una donna magra, filiforme, sigaretta accesa, grandi orecchini e fore nei capelli, nuda ma con i tacchi. Una confessione, una denuncia dell’anima, una provocazione?

ART E DOSSIER N. 306
ART E DOSSIER N. 306
GENNAIO 2014
In questo numero: MANIERISMI E SEX APPEAL Quando l'eros insidia lo stile, dal Primaticcio a Balthus, dal mito di Leda a Benton all'arte contemporanea. IN MOSTRA: Fornasetti, Renoir.Direttore: Philippe Daverio