Grandi mostre. 2
Pierre-Auguste Renoir a Torino

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Ritenuto uno dei massimi esponenti dell’impressionismo, il maestro francese si è messo in realtà costantemente alla prova cimentandosi in opere diverse che oggi, attraverso la mostra in corso alla Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, evidenziano la versatilità del suo stile pittorico.

Matteo G. Brega

Dal titolo, semplice e diretto, della mostra che Torino dedica a Renoir – Renoir. Dalle collezioni del Musée d’Orsay e dell’Orangerie – emerge un tratto distintivo: la provenienza delle opere. Una provenienza “d’elezione” che dovrebbe costituire di per sé garanzia di alto livello qualitativo, oltre che di competenza curatoriale. La mostra, ospitata dalla GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, in corso fino al 23 febbraio, a cura di Sylvie Patry e Riccardo Passoni, si basa su un cospicuo prestito la cui provenienza si divide tra le collezioni del Musée d’Orsay e del Musée de l’Orangerie di Parigi; si tratta di circa sessanta opere e non di secondo piano.

La scelta, ampia e ben distribuita all’interno della produzione del maestro, consente al fruitore di compiere un itinerario coerente tra i vari periodi e le varie modificazioni dello stile di Renoir, il quale, è bene ricordare, fu figura tutt’altro che dotata di stile monolitico e privo di ripensamenti o cambi di direzione. Malgrado l’attuale notorietà, dovuta soprattutto alla fama popolare dello stile impressionistico in generale, non è semplice comprendere sino in fondo le sfaccettature della ricerca di Renoir, ricerca che lo ha portato, al termine della sua produzione, ad allontanarsi sempre più nettamente dai presupposti impressionistici per tendere a una figurazione costantemente in bilico tra scomposizione e ricomposizione della figura. In questo si potrà notare tutta la modernità e la forza di un pittore che ha rappresentato un punto di riferimento indiscusso per molti grandi del Novecento.

Pensare una mostra su Renoir significa non soltanto doversi confrontare con un pittore dallo stile in costante cambiamento, ma mettersi a confronto con una produzione quantitativamente elevatissima e tematicamente assai varia. Renoir non è certamente un “radicale”, al contrario appare come un artista che non si vuole chiudere nessuna porta, che “cerca” in costante evoluzione. Mentre dipinge “en plein air” tiene aperto anche l’atelier, e in questa molteplicità di direzioni, accompagnata dalla numerosissima produzione, si può scorgere la volontà di un grande sperimentatore, oltre che la multiforme capacità tecnica di chi conosceva a fondo sia i nuovi linguaggi che le strade più consuete degli stili d’accademia. Renoir non disdegna il ritratto su commissione e, com’è facile immaginare, tale atteggiamento di apertura al pubblico, e non di rado al mecenatismo, fa di lui uno stimato e riconosciuto maestro, apprezzato sia dalla critica che dal pubblico, con un discreto numero di allievi dichiarati, sin quasi dagli inizi della sua produzione pittorica.

Renoir non è certamente un “radicale”, al contrario appare un artista che non si vuole chiudere nessuna porta, che “cerca”, in costante evoluzione

La centralità che assume la sua figura all’interno della scena pittorica parigina di fine Ottocento consente a Renoir di porsi come punto di raccordo, se non in molti casi come vero e proprio ispiratore, del dibattito che si sviluppa attorno al nascente impressionismo. La sua amicizia con Monet, Cézanne e Matisse gli consente di confrontarsi con i momenti di più approfondita sperimentazione delle nuove tecniche, mettendo con ciò in evidenza una particolare capacità di sintesi e di “unificazione”, dote che sta alla base di una pittura sia tecnicamente raffinata che dotata di aurea leggibilità.

I curatori della mostra di Torino hanno deciso una scansione del percorso espositivo in nove sezioni, scelta che favorisce la comprensione e la lettura dei temi che percorrono la produzione di Renoir. Inizialmente si è deciso di includere i ritratti degli anni Sessanta-Ottanta, nella sezione chiamata “L’epoca della bohème”, dove si possono ammirare i primi ritratti degli amici pittori, Monet, Sisley, oltre che i primi due importanti nudi, la Donna seminuda sdraiata: la rosa del 1872 e l’interessantissimo Ragazzo col gatto del 1868. La sezione successiva è dedicata ai ritratti femminili e si ispira a una citazione proustiana: “Noi adoriamo le donne di Renoir”. è grazie a Renoir, infatti, che si assiste al passaggio dalla bellezza femminile settecentesca a quella squisitamente moderna, dotata di grazia e di leggerezza ma allo stesso tempo di quella consapevolezza alla base delle nuove identità delineate da Proust e anticipate dalle riflessioni di Baudelaire. In questa sezione figura anche la celeberrima Lettrice (1874) assieme a una Fanciulla seduta del 1909 che paiono dipinte da due autori diversi. La terza sezione è dedicata al paesaggio, dove lo stile impressionista riesce a esplicarsi in tutta la sua forza coloristica e dove le testimonianze dei viaggi di Renoir, ad Algeri come in Costa Azzurra, assumono il ruolo di vere e proprie “occasioni pittoriche” dove mettere alla prova le riflessioni tecniche del momento. La sezione dedicata ai ritratti di bambini è la più convenzionale ma, proprio per questo, quella dove la maestria di Renoir riesce a emergere in maniere inaspettate come nel ritratto di Fernand Halphen bambino (1880), mirabile esempio di compresenza di temi coloristici di derivazione impressionista e di capacità tecniche che risentono ancora della grande scuola classica, in particolare nella definizione dei lineamenti del volto; un quadro che fa magistralmente convivere bellezza settecentesca e dell’Ottocento. Troviamo poi cinque opere di tema - ma non di intento estetico - “verista”, in particolare le scene di vita quotidiana consentono a Renoir di “riscrivere” un immaginario che sarà poi il terreno sul quale la letteratura di romanzo farà crescere i propri fori. Una sezione è poi dedicata espressamente alle Ragazze al piano del 1892, quadro di grandissima importanza dove paiono convergere riflessioni su numerosi stili sino a farsi punto d’incontro di varie tradizioni. Accanto, un Ritratto di Richard Wagner del 1882 che, questa volta, rifiuta lo stile classico dei ritratti visti sinora, quasi a voler sottolineare la poliedricità di Renoir. C’è poi la sezione dedicata ai fori, il terreno convenzionalmente riconosciuto quale quello dove Renoir si concedeva le maggiori libertà stilistiche e che può essere apprezzato appieno attraverso una visione ravvicinata delle pennellate. Troviamo poi l’immancabile sezione dedicata al nudo basata su quadri dell’ultimo periodo dove l’omaggio alla pittura classica è evidente, seppur già venato da un tentativo “novecentesco” di “isolamento delle forme”.

La mostra si conclude con Le bagnanti del 1918-1919, quadro di enorme intensità, a cui è dedicata l’ultima sezione, dove per ammissione stessa di Renoir vanno a convergere i numerosi tentativi di approfondimento di quello che per lui rimarrà sempre il tema pittorico per eccellenza.


Grazie a Renoir si assiste al passaggio alla bellezza femminile moderna, dotata di grazia ma anche di quella consapevolezza alla base delle nuove identità delineate da Proust e anticipate dalle riflessioni di Baudelaire


Sentiero nell’erba alta (1866-1877).


La lettrice (1874-1876).

IN MOSTRA
Pressoché in contemporanea alla mostra Renoir. Dalle collezioni del Musée d’Orsay e dell’Orangerie (GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, via Magenta 31, fino al 23 febbraio, telefono 011-0881178, orario 10-19.30, giovedì 10-22.30, chiuso lunedì; www.gamtorino.it) si segnalano due esposizioni dal sicuro impatto scenico: una a Roma al Museo dell’Ara Pacis (lungotevere in Augusta, fino al 23 febbraio, telefono 06-0608, orario 9-19, chiuso lunedì; www.arapacis.it, www.museiincomuneroma. it), l’altra a Verona (palazzo della Gran Guardia, piazza Brà, fino al 9 febbraio, telefono 0422-429999, orario 9-19, venerdì e domenica 9-20, 25 dicembre 15-20, 31 dicembre apertura straordinaria, 1° gennaio 10-20, chiuso 24 dicembre; www.lineadombra.it) con replica a Vicenza dal 22 febbraio al 4 maggio.

Interessante la mostra romana (Gemme dell’impressionismo. Dipinti della National Gallery of Art di Washington, a cura di Mary Morton), dove la prestigiosa sede del Museo dell’Ara Pacis ospita la collezione impressionista e postimpressionista del Washington Fine Arts Museum, nata sulle ceneri della splendida collezione donata al governo degli Stati Uniti dal magnate Andrew W. Mellon nel 1936 e arricchita, con il passare degli anni, da costanti lasciti. Per la prima volta alcune opere usciranno dalla sede statunitense per approdare in Italia, unica tappa europea. I pezzi, sessantotto circa, sono divisi in un percorso tematico e conta, tra gli autori presenti, figure di primo piano quali Manet, Monet, Renoir, Van Gogh, Cézanne, Degas, Gauguin, Toulouse- Lautrec, Vuillard. I punti saldi dell’organizzazione per sezioni sono: la pittura “en plein air”, il ritratto e l’autoritratto, il ritratto femminile, la natura morta. Una selezione di opere che evidenzia un gusto raffinato e una ricerca basata sia sull’importanza intrinseca delle opere sia sul gusto personale che il collezionista - prima il capostipite della famiglia, poi i figli - non cerca mai di nascondere, secondo la tradizione mecenatistica americana.

Per ciò che riguarda la mostra di Verona-Vicenza (a cura di Marco Goldin, Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento), si è di fronte a un percorso di forte e incisivo impatto dove, al termine di una raccolta durata due anni, il curatore ha inteso delineare una personale idea di storia del paesaggio non disdegnando di accostare elementi geograficamente distanti sebbene accomunati da linguaggio e sentimento estetico. Si potrà quindi partire dall’esperienza paesaggistica di Carracci e del Domenichino, “inizi” dichiarati del percorso curatoriale, per poi passare alla tradizione secentesca con Lorrain e Salvator Rosa. Dopodiché il percorso si allarga verso il Settecento per ospitare pezzi di Canaletto, Bellotto e Guardi, dove spicca per centralità l’importanza della raffigurazione veneziana. Per giungere così al tormentato Ottocento e alla concezione romantica di paesaggio di Turner e Constable, sino ad arrivare a un’ampia sezione dedicata a Cézanne, Renoir, Van Gogh e Gauguin, per chiudere con venticinque opere di Monet - tra le quali, oltre alle famose Cattedrali, non mancheranno alcune Ninfee - che rappresentano non soltanto una “sintesi nella sintesi” dell’itinerario proposto all’interno della storia della raffigurazione del paesaggio, ma che si prestano concettualmente a definire il termine di un percorso secolare dove il rapporto con la natura e con il vero passano in secondo piano rispetto alla ricerca quasi maniacale dell’“ effetto finale”, conquista definitiva e dichiarata dell’ultimo Monet.

M. G. B.

Con Le arti della vita in America, realizzato nel 1932 per la biblioteca del Whitney Museum di New York, Benton passò dal tema dell’America industriale a quello dell’America in veste ludica, adattando le raffinatezze della composizione manierista al tono della ballata popolare. Invece di rappresentare le tradizionali arti maggiori e colte - con tanto di concerti sinfonici e musei d’arte - dipinse le arti della vita e gli svaghi dell’americano comune. Per Benton, le arti della vita erano quelle popolari, generalmente indisciplinate, che sfociano nel puro gioco irriflessivo, in atteggiamenti e forme prive di raffinatezze. Se a Ovest dei cowboy si divertono prendendo al lazo cavalli selvaggi, suonano musica country, sparano e giocano a carte, a Sud si va in chiesa, si prega cantando del gospel e si predica contro il gioco d’azzardo.

In Arti indiane mostra dei nativi che cacciano il bisonte, ballano, tessono e invocano la visione del “Grande spirito”, mentre in Arti urbane raffigura gente che canta alla radio, guarda un film, si trucca, legge fumetti e assiste a un concorso di bellezza. Tutto l’insieme mostra uno stile concitato, a tratti nervoso, e una certa grossolanità sorvegliata, con figure dalle proporzioni esagerate e un’apparenza caricaturale, a volte rozze e sgraziate. Non meno schietto e casereccio era il suo atteggiamento nei confronti del sex appeal, come rivelano i suoi due nudi più ambiziosi, Susanna e i vecchioni (1938) e Persefone (1938-1939). Il primo è essenzialmente una satira che prende in giro l’ipocrisia della provincia: la nudità di Susanna è presentata con estrema franchezza, peli pubici inclusi, generalmente omessi dai nudi, mitologici e non, di quel periodo, tanto che quando l’opera fu esposta il pubblico fu tenuto a distanza da un cordone di sicurezza di velluto rosso, mentre un pastore locale la dichiarò immorale, protestando con logica inappuntabile che il «nudo è completamente nudo». Di rimando, l’artista dipinse Persefone, una versione spiritosa e maliziosamente contemporanea della dea della fertilità, con tanto di scarpe col tacco e pettinatura moderna, che ricorda più una pin-up tratta dalle pagine di “Esquire” che la Venere e Antiope di Correggio al Louvre, da cui riprende la manieristica posa a serpentina. In coerenza con le sue affermazioni - dichiarò che avrebbe voluto appendere i suoi nudi nei bar e nei bordelli - nel 1941 espose per un mese la tela in un equivoco nightclub di New York, il Billy Rose’s Diamond Horseshoe(*). In quell’ambiente il nudo poteva liberarsi delle implicazioni mitologiche del titolo e la dea, sensualmente adagiata tra i solchi della terra, poteva essere vista come una spogliarellista che riposa sotto gli sguardi vogliosi di un avventore del locale, condividendo il turbamento del contadino voyerista, col naso grosso da beone, appena saltato giù dal suo carretto tirato da un mulo. Il quadro ottenne un grande successo, tanto che la stessa Marilyn Monroe posò in modo analogo per il fotografo Tom Kelley; posa che la rivista “Playboy” ha ripreso con un’altra modella per il suo numero speciale del gennaio 2013, dedicato al cinquantenario della morte dell’attrice.


Non meno schietto e casereccio era il suo atteggiamento nei confronti del sex appeal, come rivelano i suoi due nudi più ambiziosi, Susanna e i vecchioni e Persefone



Persefone (1938-1939), Kansas City, Nelson-Atkins Museum of Art.


Bolle (1916 circa).

ART E DOSSIER N. 306
ART E DOSSIER N. 306
GENNAIO 2014
In questo numero: MANIERISMI E SEX APPEAL Quando l'eros insidia lo stile, dal Primaticcio a Balthus, dal mito di Leda a Benton all'arte contemporanea. IN MOSTRA: Fornasetti, Renoir.Direttore: Philippe Daverio