XX secolo. 2
Thomas Hart Benton

UN MANIERISTA
DI CAMPAGNA

Esordisce con una serie di opere astratte per abbandonarle poi a favore di schemi compositivi dove prevalgono linee definite, strutturate. Scelta, questa, che Benton dimostra di prediligere a partire dai murali degli anni Trenta, dove emerge un’organizzazione dello spazio rinascimentale e manierista.

Leonardo Capano

Nel corso degli anni Venti e Trenta, quando Picasso, Kandinskij, Mondrian e altri protagonisti delle avanguardie storiche dettavano ancora i principi della modernità, Thomas Hart Benton (1889- 1975) dichiarava, fuori sincronia, che l’imperativo era «essere americani». Artista complesso e spesso contraddittorio – figlio di un parlamentare del Missouri, ragazzo di campagna, adolescente di città, artista bohémien a Parigi, radicale modernista e celebrità regionalista – Benton attaccava quella parte dell’élite americana che credeva nella religione dell’arte moderna e che sperava di coniugare artisticamente l’Europa e gli Stati Uniti. Prima però di radicare saldamente la sua figura nel terreno americano, Benton maturò stilisticamente, sperimentando proprio quella varietà di forme e linguaggi modernisti che in rapida successione caratterizzarono l’arte del primo Novecento, guardando prima all’ordine geometrico di Cézanne e alla libertà cromatica ed espressiva dei Fauves. Poi, tra il 1916 e il 1918, insieme ai connazionali Morgan Russell e Stanton MacDonald-Wright, contribuì alla definizione del primo movimento astratto dell’avanguardia americana, il sincromismo, uno stile che amalgamava la frammentazione della forma di derivazione cubista con il colore prismatico di ascendenza orfica. Attratto in particolare dai colori brillanti e dall’organizzazione della forma, realizzò anche una serie di opere astratte che appaiono arrangiamenti di dischi-colore turbinanti, ed espose alla prima mostra dei pittori modernisti americani allestita a New York nel 1916. Nonostante la varietà di esperienze, la direzione generale dello stile di Benton tendeva già a evidenziarsi. Preferendo il solido, il duro, il lineare, lo strutturale e il tangibile ed evitando la morbidezza, la vaghezza, le trasparenze atmosferiche, progressivamente definì gli schemi compositivi basilari che compaiono nei suoi murali degli anni Trenta: piani angolari, linee a raggio per suggerire dinamismo ed energia e trattamento dei volumi a spirale derivanti dall’organizzazione spaziale rinascimentale e manierista. Questo complesso sistema organizzativo, che Benton usò nel corso di tutta la sua carriera, oltre a svilupparsi dalla pittura e dalla teoria artistica sincromista, si alimentò anche dalla lettura di Modern Paintings, l’influente saggio di Willard Wright pubblicato nel 1915. Per Wright lo scopo della pittura era di creare sequenze ritmiche, non solo in superficie ma anche in profondità, facendo continui riferimenti all’organizzazione spaziale di maestri come Michelangelo, Tintoretto, El Greco e Correggio. Risalendo e ispirandosi a essi, Benton ne studiò le composizioni e le tecniche di organizzazione formale, giungendo a complessi effetti di montaggio, con ritmi interni, di un “perpetuum mobile” serpentino, irrequieti e tortuosi, soprattutto nelle opere murali degli anni Trenta. Infatti, fu il primo a rompere con il falso pseudoclassicismo dell’arte murale accademica e a introdurre un punto di vista contemporaneo e vitale, sviluppando composizioni onnicomprensive, che creano una stridente sensazione di ambiguità spaziale.

In America oggi, il suo primo grande murale sulla vita contemporanea, dipinto per la New School for Social Research a New York, fa un balzo in avanti rispetto a tutte le opere precedenti di pittura americana in virtù delle dimensioni e della sua abbondanza tematica, giustapponendo bruscamente scene ambientate in luoghi diversi, in maniera energica e complessa. Acciaierie, dighe, centrali idroelettriche, aeroplani, treni, macchine, navi, gru, grattacieli, silos, cinema, e letteralmente centinaia di figure, dai colori sgargianti e simili a fumetti, riempiono ogni spazio della composizione. La tensione emotiva del programma iconografico nasce dal contrasto tra la pura forza ed esuberanza dell’industria, e lo sfruttamento sociale del lavoratore. Esplorando questi temi, Benton rappresentò sistematicamente le maggiori regioni del paese, dalle aree del Sud, basate sull’economia del cotone, a quella del legname del Midwest, a quella del bestiame e del petrolio del Far West, a quella dell’industria pesante della costa orientale composta da miniere di carbone, siderurgia, edilizia. Vi è inoltre uno sguardo alla descrizione del tempo libero, con scene da luna park, incontri di pugilato, cinema, circhi e attività più ordinarie, come viaggiare in metropolitana o amoreggiare su una panchina.

Con Le arti della vita in America, realizzato nel 1932 per la biblioteca del Whitney Museum di New York, Benton passò dal tema dell’America industriale a quello dell’America in veste ludica, adattando le raffinatezze della composizione manierista al tono della ballata popolare. Invece di rappresentare le tradizionali arti maggiori e colte - con tanto di concerti sinfonici e musei d’arte - dipinse le arti della vita e gli svaghi dell’americano comune. Per Benton, le arti della vita erano quelle popolari, generalmente indisciplinate, che sfociano nel puro gioco irriflessivo, in atteggiamenti e forme prive di raffinatezze. Se a Ovest dei cowboy si divertono prendendo al lazo cavalli selvaggi, suonano musica country, sparano e giocano a carte, a Sud si va in chiesa, si prega cantando del gospel e si predica contro il gioco d’azzardo.

In Arti indiane mostra dei nativi che cacciano il bisonte, ballano, tessono e invocano la visione del “Grande spirito”, mentre in Arti urbane raffigura gente che canta alla radio, guarda un film, si trucca, legge fumetti e assiste a un concorso di bellezza. Tutto l’insieme mostra uno stile concitato, a tratti nervoso, e una certa grossolanità sorvegliata, con figure dalle proporzioni esagerate e un’apparenza caricaturale, a volte rozze e sgraziate. Non meno schietto e casereccio era il suo atteggiamento nei confronti del sex appeal, come rivelano i suoi due nudi più ambiziosi, Susanna e i vecchioni (1938) e Persefone (1938-1939). Il primo è essenzialmente una satira che prende in giro l’ipocrisia della provincia: la nudità di Susanna è presentata con estrema franchezza, peli pubici inclusi, generalmente omessi dai nudi, mitologici e non, di quel periodo, tanto che quando l’opera fu esposta il pubblico fu tenuto a distanza da un cordone di sicurezza di velluto rosso, mentre un pastore locale la dichiarò immorale, protestando con logica inappuntabile che il «nudo è completamente nudo». Di rimando, l’artista dipinse Persefone, una versione spiritosa e maliziosamente contemporanea della dea della fertilità, con tanto di scarpe col tacco e pettinatura moderna, che ricorda più una pin-up tratta dalle pagine di “Esquire” che la Venere e Antiope di Correggio al Louvre, da cui riprende la manieristica posa a serpentina. In coerenza con le sue affermazioni - dichiarò che avrebbe voluto appendere i suoi nudi nei bar e nei bordelli - nel 1941 espose per un mese la tela in un equivoco nightclub di New York, il Billy Rose’s Diamond Horseshoe(*). In quell’ambiente il nudo poteva liberarsi delle implicazioni mitologiche del titolo e la dea, sensualmente adagiata tra i solchi della terra, poteva essere vista come una spogliarellista che riposa sotto gli sguardi vogliosi di un avventore del locale, condividendo il turbamento del contadino voyerista, col naso grosso da beone, appena saltato giù dal suo carretto tirato da un mulo. Il quadro ottenne un grande successo, tanto che la stessa Marilyn Monroe posò in modo analogo per il fotografo Tom Kelley; posa che la rivista “Playboy” ha ripreso con un’altra modella per il suo numero speciale del gennaio 2013, dedicato al cinquantenario della morte dell’attrice.


Non meno schietto e casereccio era il suo atteggiamento nei confronti del sex appeal, come rivelano i suoi due nudi più ambiziosi, Susanna e i vecchioni e Persefone



Persefone (1938-1939), Kansas City, Nelson-Atkins Museum of Art.


Bolle (1916 circa).

ART E DOSSIER N. 306
ART E DOSSIER N. 306
GENNAIO 2014
In questo numero: MANIERISMI E SEX APPEAL Quando l'eros insidia lo stile, dal Primaticcio a Balthus, dal mito di Leda a Benton all'arte contemporanea. IN MOSTRA: Fornasetti, Renoir.Direttore: Philippe Daverio