XX secolo. 1
Balthus

il maestro
dell’Età dell’Ansia

Tensione, oppressione, un erotismo mai esplicitato ma sempre accennato sono caratteri costanti nelle opere del pittore francese, opere in cui l’atmosfera, carica di presagi, trasmette un senso di angoscia a volte così tangibile da spiazzare lo spettatore.

Stefano Causa

Balthus (1908-2001) è un pittore francese sulla cui grandezza non tutti i critici d’arte convengono o convergono (mentre lo adorano quanti, tra attori, scrittori e registi di cinema assecondano i ritmi del proprio gusto senza renderne conto a terzi). Insieme a cose più deboli, io credo gli spettino alcuni tra i più bei quadri figurativi di un secolo che, da un certo momento in poi, ha ripudiato la figurazione. Mentre, dopo la metà del Novecento, l’Astratto diventa articolo di moda e, senza offesa, pretesto decorativo, Balthus, in direzione ostinata e contraria, si mette a fare ritratti, turbative conversazioni in interno, angoli di Parigi, gatti, adolescenti nude e paesaggi montuosi – scampoli di un repertorio, abusato sinché si voglia, ma che nelle sue mani affusolate ricarbura fino alla combustione. è tanto arduo ingabbiare una posizione così sfacciatamente fuori schema che, nel momento in cui, tra gli appassionati, la conversazione cade su Balthus (vero nome Balthasar Kłossowski de Rola) ci si rifugia nel consueto rosario di aggettivi vacui e imprecisi: misterioso, raffinato, inquietante, morboso, malizioso, con i quali – non dimentichiamolo – abbiamo a lungo etichettato ingegni come il Rosso Fiorentino o il Parmigianino; e insomma quella banda a parte dei cosiddetti manieristi.

E sono queste le parole d’ordine più abusate anche per presentare un pittore rigidamente non astratto; inseguito da musei e collezionisti disposti a far follie per quelle immagini fuori dal tempo - o meglio “senza tempo” - lavorate con tecnica sapiente e che raffigurano strade e stanze dove nulla succede, ma sature di un’atmosfera carica di cattivi presagi. Tutto il gioco sta nel disinnescare le mine sottese in queste immagini basiche fino alla piattezza. Perché il punto è questo: ciò che mostra Balthus è semplice fino all’irrefutabilità. Una chitarra è una chitarra. Un pianoforte verticale anche. Fratello e sorella che giocano, o disegnano, ci si augura non si facciano del male. Anche una bambola di pezza fa il suo mestiere e una rosa è una rosa. Tuttavia l’incongruità in cui sono disposti gli oggetti comuni, l’accordo sfalsato tra spazio e figure, l’obliquità degli sguardi: tutto crea un’atmosfera minacciosa e, in ultima analisi, malsana.

Vi sono artisti che hanno il sole in pancia e che riescono a placare le ansie di chi guarda (Monet o il Matisse maturo, per esempio); ma ve ne sono altri che le ansie le moltiplicano, divertendosi ad alimentarle (Balthus o un uomo di cinema come Buñuel). Non a caso, Balthus è stato il migliore illustratore di un romanzo d’una bellezza infernale come Cime tempestose di cui, da giovane, tra il 1932 e il 1935, ha saputo restituire il potenziale di oppressione che incombe su ogni scena. Nella Lezione di chitarra (1934), ambientato in un interno senza pretese, al posto dello strumento posato a terra, una donna (l’insegnante di musica, la madre, la precettrice?) tiene sulle gambe una ragazzina dal pube scoperto che, a sua volta, le scopre un seno appuntito. Chi osserva si domanda se si stia consumando uno stupro (al quale è costretto ad assistere impotente); oppure se la fanciulla priva di slip, le calze bianche e le babbucce sia al diapason del piacere (di nuovo saremmo invitati a una festa cui non possiamo partecipare). Tu chiamalo, se vuoi, erotismo; anzi no, surrealismo! Ma è come se con i trabocchetti ottici e gli slittamenti di senso di quel movimento ci stesse giocando un pittore antico a digiuno di pulsioni e repressioni freudiane; che so, un Correggio surrealista? Meglio non chiedere; meglio non sapere. Balthus è inarrivabile nel tendere come un arco i nervi dello spettatore, usando materiali vieti: dalla strada ai mobili, ai giochi proibiti. Nessuno sa spiazzare meglio di lui le attese dello spettatore. Nessuno è bravo come lui a giocare al gatto e al topo (dove chi guarda e chi è guardato tendono a scambiarsi ciclicamente i ruoli). Nessuno più di lui ha contribuito a rifondare su basi molto diverse (rispetto, per esempio, al franco naturalismo dell’Origine del mondo di Courbet) il concetto, di per sé futtuante, di erotismo nella figuratività contemporanea. 


Ma i veri miracoli di Balthus accadono in strada.

La strada del 1933, oggi al MoMA - Museum of Modern Art di New York, è il più importante dipinto figurativo francese tra le due guerre, potendo aver detto qualcosa persino agli artisti di ambito pop (lo si provi a confrontare, con qualche adattamento, con il lavoro fatto dal fotografo Joel Brodsky per la copertina di un disco dei Doors, Strange Days del 1967); l’altro apice di Balthus, cronologicamente più avanzato, è rappresentato da Il passaggio del Commerce Saint-André del 1952-1954. In questi due capolavori, che raffigurano sostanzialmente la stessa cosa, i riferimenti al museo si sprecano. Prima e oltre che essere un pittore e un disegnatore, Balthus è uno storico dell’arte e un conoscitore di epoche diverse. Al Louvre era di casa. La gestualità definitiva di alcuni personaggi dipende dal Seicento francese di Georges de La Tour e di Nicolas Poussin. D’altra parte egli sa che nascere a Parigi e dipingere “en plein air”, che si tratti di piazzare il cavalletto in mezzo al traffico o in campagna, significa imboccare il filone più battuto del mondo. Monet, Pissarro, Caillebotte. Si respira aria di famiglia. Ma gli esterni impressionisti sono ariosi, tempestati di sole e pioggia. Insomma, battuti dalla vita. Qui la strada è reinventata in uno studio di posa ed è gessosa e carica di violenza. Anche Federico Fellini (amico di Balthus) faceva così. Andava in cerca del mare vero e, poi, rifaceva in studio, con la carta argentata, le onde al passaggio del transatlantico Rex.


Lezione di chitarra (1934).


La ragazza col gatto (1937).

Molti ritengono Balthus un pittore facile, per non dire furbo. Altri lo considerano tra i pochi creatori di un universo inconfondibile


Nondimeno le integrazioni narrative che lo spettatore è sollecitato a fare dinanzi a un quadro impressionista qui sono disattese, frustrate. Ossia, non previste. Nei crocicchi di Balthus (qualcuno persino riconoscibile, sebbene trasfigurato), non si capisce quale evento si sia consumato o stia per consumarsi. Che succede o è successo di preciso? Nessuno lo sa. Né i titoli aiutano. E noi torniamo a casa con lo stesso sentimento che ci coglie alla fine di certi film di Buñuel: oscuramente chiari. Mistero Balthus? Picasso lavorava velocemente, centrifugando immagini e persone. Balthus è lento. Lavora a pochi quadri che, una volta finiti, vanno studiati con la stessa cura che ci è voluta nel farli. Molti lo ritengono un pittore facile, per non dire furbo. Altri lo considerano tra i pochi creatori di un universo caratteristico e inconfondibile. Altri, e sono i più dannosi, lo interpretano senza neanche passare alla dogana dell’analisi stilistica. Ma su di una cosa si è o si dovrebbe essere concordi: la sua tecnica spaventosa.

Sotto questo profilo, Balthus è l’ultimo figurativo in anni in cui si cominciava ad assistere al naufragio della pittura; e il giudizio può estendersi al primo quindicennio circa di questo secolo che, di pittura, nonostante la buona volontà di qualcuno, è disperatamente privo. Ma il suo nome rimane appannaggio di una stragrande minoranza di appassionati - non essendo, oltretutto, neanche facilmente visibili le sue opere - e i rari Balthus presenti a Parigi finiscono per confondersi nell’antologia di capolavori di primo Novecento documentato al Centre Pompidou. Mettiamoci l’accidia di un pubblico mal educato da troppe mostre uguali e il conformismo di una critica che ne ha corteggiato la pigrizia. Ma Balthus è scivolato via presto, dalla foto d’assieme del Novecento; o, forse, non era previsto che vi entrasse considerata la sua naturale ritrosia a qualunque intruppamento. D’altra parte nessuna delle formule in cui è stata insegnata (e ingabbiata) la contemporaneità gli si addice. Mentre nel secondo dopoguerra la pittura come mestiere (il mestiere di pittore) comincia a recedere, Balthus, con una pertinacia esclusiva solo dei matti e dei talenti veri, affronta alcuni dei motivi dominanti dell’età dell’ansia - la violenza e l’erotismo sotto traccia - con la tecnica di un antico maestro.

E mentre gli altri salgono a frotte sul carro dell’Astratto e del Concettuale, lui prova a ripetere il colore e i grandi piani sequenza degli affreschi dei primitivi toscani. Nel combinare caseina e sabbia a un olio diluito, si rimette nei panni di Masaccio e Piero della Francesca. Ma questo è il pittore da riconsegnare alla storia dell’arte. Beato. Angelico.

Che ovviamente non è, e non sarà mai, quello più noto. La schiuma della sua fama è legata a una corsia tematica preferenziale dove, nella cameretta dei giochi o in un atelier, si spendono adolescenti che dormono o, forse, sognano, vegliate da un gatto. Ricordano le bambine che aveva fotografato Lewis Carroll quando provava a imbastire un canovaccio iconografico per le esplorazioni di Alice oltre lo specchio. A uno sguardo più corrivo la sua inclinazione per fanciulle in fore, colte in atteggiamenti che in pubblico apparirebbero sconvenienti, fa venire in mente il film Tenere cugine del regista David Hamilton (1980) o la canzone Albachiara di Vasco Rossi (1979) che in silenzio si sfora. Si potrebbe continuare - il gioco dei rimandi va continuamente aggiornato. Del resto, qualunque sia l’evento che in queste scene sta per compiersi, non si compie o almeno non sotto i nostri occhi. Lo spettatore resta al di qua della soglia: rimanendo interdetto; ma anche intrigato. In quanto voyeur, è coinvolto, sollecitato, ma non può partecipare. Spia da un occhio privato, come Proust le catenate sul dorso del barone di Charlus, ricoperto di ecchimosi nel bordello del Tempo ritrovato. In quelle camere possiamo guardare; ma non entrare. Certo Balthus è troppo intelligente perché il tiro alla fune tra artista e spettatore si plachi in un sano erotismo (alla Courbet, per intenderci). Ma dicono che la morbosità alberghi soprattutto in chi guarda.

Incalzato una volta su cosa significassero quelle sue subdole ninfette Balthus rispose candido: «Per me sono “angeli”». Angeli. Allo stesso modo Pasolini definì “serafici” i giovani incontrati nel viaggio in India con l’amico Moravia. Ma cosa avrebbero dovuto confessare? Sotto il fuoco di domande sciocche o incaute gli artisti devono mentire o tacere, lasciando che le opere parlino in vece loro. Qualcuno obietterà che certe invenzioni di Balthus siano figlie del suo tempo; che oggi mostrino la corda; e che solo l’innegabile mestiere con cui sono realizzate ne legittimi la visione. Ma poi diciamoci la verità: in tema di torbidezze e sensualità quali codici d’ingresso può suggerire Balthus a una generazione che si affaccia alla maggiore età con gli occhi colmi di quelle tre ore analitiche fino all’eccesso di zelo - e, in ultima analisi, liberatorie - con cui, in La vita di Adele, Palma d’oro a Cannes 2013, il regista tunisino Abdellatif Kechiche ha provato, tra odori, sapori e lacrime, a penetrare la grande avventura dell’adolescenza?

Nei crocicchi di Balthus non si capisce quale evento si sia consumato o stia per consumarsi. Che succede o è successo di preciso? Nessuno lo sa

IN MOSTRA
Dopo trent’anni, gli Stati Uniti tornano a rendere omaggio a Balthus con un’importante rassegna in corso fino al 12 gennaio al Metropolitan Museum of Art di New York (www.metmuseum.org) a cura di Sabine Rewald, Jacques e Natasha Gelman. Balthus. Cats and Girls. Paintings and Provocations indaga in un percorso composto da trentacinque dipinti creati dalla metà degli anni Trenta fino al 1950, insieme a quaranta disegni realizzati dal pittore all’età di undici anni per il libro Mitsou - mai esposti prima d’ora -, le fasi salienti della sua parabola creativa. Tra le tele ricordiamo i ritratti dedicati alla giovane Thérèse Blanchard, vicina di casa di Balthus, raffgurata da sola, con il suo gatto o con i fratelli, e il celebre autoritratto Il re dei gatti (1935), a conferma della costante presenza del felino nel lavoro dell’artista francese. Catalogo Metropolitan Museum of Art.


La strada (1933), New York, MoMA - Museum of Modern Art.

ART E DOSSIER N. 306
ART E DOSSIER N. 306
GENNAIO 2014
In questo numero: MANIERISMI E SEX APPEAL Quando l'eros insidia lo stile, dal Primaticcio a Balthus, dal mito di Leda a Benton all'arte contemporanea. IN MOSTRA: Fornasetti, Renoir.Direttore: Philippe Daverio