«Qualsiasi cosa io guardi mi sembra interessante, qualsiasi cosa io veda mi stimola. Essere stimolato mi spinge a premere il pulsante dell’otturatore, e da questo gesto nascono ulteriori fotografie. Ogni scatto porta a un altro, che a sua volta conduce direttamente al successivo. Credo sia questa reazione a catena che mi spinge ad andare avanti e che mi prepara a ogni scatto», afferma Moriyama in occasione di un’intervista con i curatori dell’esposizione romana. Nelle immagini di Tomatsu, invece, come nella serie Protest della fine degli anni Sessanta, emerge specificatamente la loro resa come testimonianza, della vita sociale e politica della città, del suo fremere, delle sue espressioni pubbliche unitamente a quelle private, celate nelle stanze d’albergo e negli anfratti più reconditi di Tokyo.
Tokyo Revisited mostra un’angolazione di sguardo omogenea sulla metropoli giapponese, uno sguardo randagio come quello di un cane, rivolto verso il basso, verso i dettagli, verso un mondo lasciato ai margini, dove però le emozioni si fanno più forti e viscerali, ma il modo di rappresentare poi questi tasselli di vita si rende differente: per Tomatsu sicuramente più lineare, più legato al suo essere testimone della città, all’esserne l’osservatore silente; Moriyama, invece, fagocita compulsivamente e con veemenza visiva ogni brandello urbano, che sia un oggetto, una luce, una stanza d’albergo con una prostituta, o anche un’immagine su una rivista o su schermo televisivo che infine rifotografa. Ogni stimolo a fotografare viene colto da lui con la stessa voracità, con la stessa intenzione di incamerare tutta la vita possibile, di qualunque genere: «Realtà e immagini su poster o TV sono tutti equivalenti perché ognuno di essi esiste esternamente. Quindi, se una donna su un poster sembra più sexy di una vera, la fotografo».
Questo suo essere visivamente onnivoro gli ha permesso di decostruire la natura dell’immagine dall’interno, lavorando direttamente sul concetto di “medium” e sulla sua riproducibilità, creando uno stile che inizialmente in molti hanno affossato, ma per cui ora viene riconosciuto come uno dei maestri della fotografia contemporanea. Nella serie Accident, per esempio, pubblicata per la prima volta nel 1969 sulle pagine della rivista “Asahi Camera” ed esposta al MAXXI in stampe di grande formato, che permettono di fruire maggiormente della loro crudezza e granulosità visiva, Moriyama riprodusse fotograficamente immagini di incidenti apparse su giornali, manifesti e televisioni. A differenza di Andy Warhol e del suo Death and Disaster (1962-1963), in cui l’artista americano mette in discussione apertamente l’uso di immagini riduplicate, il fotografo giapponese è affascinato dalla loro visione e le riproduce come fonte della propria fascinazione estetica ed emozionale, senza porre un netto confine tra la realtà e la sua rappresentazione. Da bulimico di immagini, Moriyama incamera tutto, attraverso il suo obiettivo, per poi vomitarlo fuori a brandelli, intriso degli umori del suo stomaco fotografico, “grainy, blurry and ufocused”.