Noto successivamente che la cameriera, di cui abbiamo accennato all’inizio, è incinta e il bambino davanti al camino è triste. Ci credo, non c’è alcuna interazione tra i corpi che occupano questa stanza. La loro umanità è spenta, svanita, dopo un meraviglioso cocktail di tecnologia e pandemia. Fantastico che dopo una mezz’oretta qui dentro siano gli esseri umani ad attirare la mia attenzione, quelli vivi, colorati, quelli che si muovono, fotografano, inciampano, vengono redarguiti, si chiedono cosa stiano guardando. Quelli vivi insomma. Elmgreen & Dragset ci raccontano di essere stati invitati a pensare una mostra per la Fondazione Prada nel 2017, nel 2019 concept e produzione dei lavori erano pronti, «poi il mondo è cambiato molto», ci dicono.
«E il corpo», continuano, «durante la pandemia è davvero diventato inutile e pericoloso. Quasi un imbarazzo da “trascinare” in giro, senza dovergli prestare particolare attenzione, di fronte al computer che ci ha permesso di continuare a lavorare e a comunicare secondo modalità però poco affini al tipo di socialità che ben conosciamo».
Il duo mette poi l’accento su come oggi sia l’architettura a dirigere il nostro modo di vivere e come la mostra sia stata strutturata in quel senso: creando uno spazio domestico, ma non a dimensione umana, nella galleria nord della Fondazione Prada; un ufficio abbandonato al secondo piano del podium e lo spogliatoio di una palestra nella cisterna. Nelle loro installazioni la socialità delle persone, intese come corpi fisici, è esclusa, l’ambiente domestico è più che altro uno show room mentre gli altri sono non-luoghi privi di attrattiva. Gli artisti ci dicono che si tratta di una provocazione e che si augurano che i visitatori, immersi in questi spazi, sentano poi il bisogno di reclamare corpi, interazioni, socialità, vita, contatto insomma.
Salgo al secondo piano, il mega ufficio. Si chiama Garden of Eden. Disarmante. Non vi svelo troppo. Potrebbe essere un labirinto contemporaneo. L’ufficio senza “officianti”. Orrendamente uniforme, animato qua e là da effetti personali. La cosa più interessante, di nuovo, sono i visitatori che si muovono in mezzo allo spazio, che lo attraversano preoccupati soprattutto di “trattenere” tutto ciò che osservano. Mi chiedo se siamo ancora in grado di vedere una mostra senza utilizzare il telefono, senza immortalare dettagli, senza mostrarla appunto. L’erogatore d’acqua ci rimette in contatto con la realtà, lo possiamo usare o arrivano le guardie?
Scendo nella galleria nord dove è presente, come detto sopra, l’installazione di una abitazione. Il corrimano che mi accoglie entrando, decorato da vene umane estruse, mi piace davvero molto. Il resto della casa futuristica molto meno: “design and more design”, un’opera di Lucio Fontana, la custode che ci dice dove andare e dove non andare. È tutto freddo. Del corpo rimangono le impressioni, un coccige diventa una statua, i volti coperti negli Amanti di Magritte un’altra. Le vetrine conservano algidamente tutto quanto, l’interazione è bandita, qui non c’è niente di deperibile.
In un’area dell’abitazione c’è anche un “caminetto di design” direbbero a Milano, fiamme che bruciano senza legna, una simulazione impeccabile, e sul fondo della sala un’installazione stile Cattelan, un bel cadaverozzo che esce dal frigo, senza nessun odore ovviamente.
Passando alla cisterna troviamo, oltre alla piscina, lo spogliatoio, uno qualsiasi, quello di una palestra “cheap”. Lo conosco bene. Si stagliano vivacemente accanto agli armadietti, ironiche e pungenti, le prime opere del duo, le Powerless Structures, tra cui troviamo Marriage, ovvero due lavabi congiunti da tubi arrotolati che non permettono lo scarico; poi troviamo due paia di jeans e mutande caduti per terra, tolti di corsa come se i loro padroni fossero scappati ad amoreggiare follemente. Steso a faccia in giù all’interno dello spogliatoio qualcuno attende un massaggio, su di un comodo lettino, con un cuscinetto dotato di apposito foro per appoggiare il viso. Il titolo dell’installazione è The Touch: un corpo qualsiasi attende un altro corpo che non si vede, un’interazione comunque a pagamento, il piacere comunque mediato.
Sempre nella cisterna, in una stanza accanto, ci attende un equilibrista col bilanciere in mano, appeso al cavo da cui è appena caduto: guarda giù non troppo preoccupato. Non è un salto alto, una situazione mortale. What’s Left? si chiede, ci chiede, il titolo di questo lavoro.
Un pubblicitario di lungo corso diceva che per vedere dove sta andando il mondo basta guardare dove va l’arte, non servono le ricerche di mercato. Credo che questa potrebbe essere una di quelle mostre eloquenti in questo senso. Nell’ultima stanza piena di rovine, che bisogna fare attenzione a non calpestare, la piscina è vuota, l’acqua manca già da un po’, l’aria forse anche. Il tappeto elastico è bloccato da un meteorite. Pare che il posto non sia stato abbandonato da molto tempo, ma, appunto, dove sta andando il mondo?
Dopo tutta questa implacabile, lucida, metallica, tecnologica realtà, gli artisti ci dicono - bontà loro, direbbe mio padre - inventatevi la vostra storia. Questa è fatta per far venire voglia di uscire e vedere, toccare e stare con corpi veri. Così sia.