Sembra che, in una fase avanzata della civiltà nuragica, si sia voluto celebrare un gruppo (una “gens”?) egemone protagonista di imprese memorabili: il complesso monumentale si configurerebbe come «sacrario monumentale gentilizio» (Lilliu) per i protagonisti di un ciclo eroico protosardo. Dal punto di vista stilistico, si è tentato di trovare confronti in vari contesti, anche nel mondo egeo, ma senza particolare successo. Forse ha ragione Marco Rendeli nell’«arrendersi» parlando di un «unicum». Forse vale la pena di ricordare un dettaglio: guerrieri che combattono proteggendosi la testa con uno scudo si vedono in rilievi con scene di assedio nel Palazzo nord di Ninive.
In epoca nuragica, l’accresciuta conoscenza da parte dei sardi della dislocazione delle loro miniere, e anche l’ampiezza degli orizzonti e degli scambi resa possibile dalla navigazione mediterranea, rendevano disponibile una notevole quantità di metalli. Si è già detto dei lingotti di rame, preziosa “moneta” (un po’ pesante) in un circuito comprendente, oltre alla Sardegna stessa (dove ne è stata trovata una ventina), Cipro, Asia Minore, Creta, Grecia, Sicilia, Eolie, e anche la penisola iberica, dove ci si approvvigionava di stagno, prezioso per predisporre, insieme al rame (ottanta-novanta per cento), la lega del bronzo (di cui costituiva il cinque-dieci per cento). E così, fra XII e VIII secolo a.C. ogni villaggio di una certa dimensione aveva le sue fonderie, sia per la produzione sia per la riparazione dei famosi bronzetti, che ben più delle sculture in pietra ci danno idea dell’arte figurativa dell’isola. Si producevano in primo luogo bronzi figurati, con la tecnica della “cera persa”: si realizzava una forma in creta o in terra refrattaria, si rivestiva accuratamente di cera e poi si copriva il tutto con altra creta (o terra refrattaria); poi si versava bronzo fuso che scioglieva ed eliminava la cera, sostituendosi a essa (sembra quasi impossibile che questa procedura, che si sarebbe usata in seguito per la grande statuaria, funzionasse anche per le piccole dimensioni); liberato e raffreddato il metallo, bisognava disincrostarlo, ritoccarlo, cesellarlo con martellini, pinze, lime, bulini, piccoli scalpelli. E si producevano, in secondo luogo, strumenti e armi, per cui si usavano invece matrici monovalve e bivalve. La circolazione era amplissima, e non solo nel “circuito” di cui sopra, ma anche sulla costa tirrenica della penisola, soprattutto in Etruria fra IX e VIII secolo: Tarquinia, Caere, Vulci. A Vulci, per esempio, esiste una tomba detta appunto “dei bronzetti nuragici” per la grande quantità rinvenuta nel corredo. Si immagina che quella tecnica e quell’intensa produzione siano stare rese possibili prima da influssi siro-palestinesi, poi dalla presenza e dalla collaborazione diretta di artigiani (“calcheuti”) provenienti da Cipro, l’“isola del rame”.