GRANDI E PICCOLE
SCULTURE, CERAMICA

Per le ragioni esposte nel capitolo precedente la scoperta dei “Giganti di Mont’e Prama” ebbe un effetto dirompente fra gli studiosi e gli appassionati.

In questa località del Sinis, presso Cabras, dopo rinvenimenti in un terreno agricolo forse inizialmente sottovalutati, in varie campagne successivamente portate avanti accuratamente a più riprese a partire dal 1975 e ancora in corso, furono trovati una vasta necropoli, di cui si conoscono finora centocinquanta sepolture, e infiniti frammenti di teste, busti, braccia, gambe, armi, eseguiti in pietra arenaria.


La necropoli è costituita quasi uniformemente da tombe a pozzetto, sul fondo del quale i defunti sono deposti seduti, con le gambe piegate: una modalità di sepoltura praticata anche altrove in Europa.


In Sardegna, sepolture confrontabili si trovano ad Antas, località su cui dovremo tornare. Abbondanti i materiali rinvenuti, fra cui frammenti di ceramica nuragica e in parte anche punica (il non lontano porto di Tharros era oggetto di un’antica frequentazione a partire da epoca fenicia, ma con precedenti attestazioni nuragiche nel villaggio di Su Muru Mannu), e reperti di vario tipo, fra i quali e uno scarabeo egiziano del Nuovo regno.


Navicella di bronzo (1150-950 a.C), particolare, da località sconosciuta presso Mandas (Sud Sardegna); Cagliari, Museo archeologico nazionale.

Quanto alle sculture, sono numerose le frammentazioni, antiche, ma anche in parte dovute a lavori agricoli, diciamo così, incauti: almeno in parte vi si è posto rimedio con restauri condotti in collaborazione fra il Centro di conservazione archeologica di Roma e la Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro. Le sculture in qualche modo e misura riconoscibili, alla fine, sono trentotto: arcieri, guerrieri, pugili, più tredici modelli di nuraghi; le datazioni proposte oscillano fra inizio del Bronzo finale e Prima età del ferro.


Siamo nell’ambito di un culto funerario del ceto dei guerrieri; la quantità di modellini di nuraghi sta a indicare quanto questi ultimi rivestissero il ruolo di “status symbol”. Ma sono tanti gli spunti che questa scoperta ci fornisce, sotto molteplici aspetti, che siamo “costretti” a dedicare ai “Kolossoi” di Mont’e Prama (cioè “monte delle palme”) uno spazio assai ampio. “Kolossoi”, Colossi, è la definizione che il grande archeologo sardo Giovanni Lilliu usò per queste sculture, “antenati” dei “Kouroi” dell’arte greca arcaica.


Non c’è una sola statua che sia pervenuta intera: alcune figure sono state, sia pure con lacune, in qualche modo ricomposte, altre sono rimaste allo stato di frammento, sia pure significativo (un caso per tutti: l’avambraccio di arciere che impugna saldamente l’arco). Malgrado questo, e non solo per le dimensioni maggiori del vero (almeno nei casi in cui tale dato si può accertare), queste opere caratterizzate da una notevole frontalità, dai particolari fortemente scanditi (anche a costo di compromettere l’organicità della figura) e dalle forme sode e compatte trasmettono una sensazione di grande potenza. Lo si può osservare soprattutto in alcune figure di pugili, riconoscibili in quanto una delle mani è protetta da un guanto armato, mentre l’altra è levata a proteggere la testa con uno scudo: fra tali singolari “pugili”, il meglio conservato consente alcune osservazioni più precise. Soprattutto, si vede molto bene che l’esecuzione dei dettagli mira alla chiarezza più che all’organicità. I grandi occhi sono “geometrizzati” in cerchi concentrici, e sono distanziati rispetto alle arcate sopracciliari, quasi scendendo lungo le guance, con effetto un po’ inquietante.

Capotribù (X-VIII secolo a.C.), da monte Arcosu presso Uta (Cagliari); Cagliari, Museo archeologico nazionale.


Guerriero con quattro occhi e due scudi (X-VIII secolo a.C.) da Abini, Teti (Nuoro); Cagliari, Museo archeologico nazionale.


Arciere saettante (X-VIII secolo a.C.) da Abini, Teti (Nuoro); Cagliari, Museo archeologico nazionale.

Sembra che, in una fase avanzata della civiltà nuragica, si sia voluto celebrare un gruppo (una “gens”?) egemone protagonista di imprese memorabili: il complesso monumentale si configurerebbe come «sacrario monumentale gentilizio» (Lilliu) per i protagonisti di un ciclo eroico protosardo. Dal punto di vista stilistico, si è tentato di trovare confronti in vari contesti, anche nel mondo egeo, ma senza particolare successo. Forse ha ragione Marco Rendeli nell’«arrendersi» parlando di un «unicum». Forse vale la pena di ricordare un dettaglio: guerrieri che combattono proteggendosi la testa con uno scudo si vedono in rilievi con scene di assedio nel Palazzo nord di Ninive.


In epoca nuragica, l’accresciuta conoscenza da parte dei sardi della dislocazione delle loro miniere, e anche l’ampiezza degli orizzonti e degli scambi resa possibile dalla navigazione mediterranea, rendevano disponibile una notevole quantità di metalli. Si è già detto dei lingotti di rame, preziosa “moneta” (un po’ pesante) in un circuito comprendente, oltre alla Sardegna stessa (dove ne è stata trovata una ventina), Cipro, Asia Minore, Creta, Grecia, Sicilia, Eolie, e anche la penisola iberica, dove ci si approvvigionava di stagno, prezioso per predisporre, insieme al rame (ottanta-novanta per cento), la lega del bronzo (di cui costituiva il cinque-dieci per cento). E così, fra XII e VIII secolo a.C. ogni villaggio di una certa dimensione aveva le sue fonderie, sia per la produzione sia per la riparazione dei famosi bronzetti, che ben più delle sculture in pietra ci danno idea dell’arte figurativa dell’isola. Si producevano in primo luogo bronzi figurati, con la tecnica della “cera persa”: si realizzava una forma in creta o in terra refrattaria, si rivestiva accuratamente di cera e poi si copriva il tutto con altra creta (o terra refrattaria); poi si versava bronzo fuso che scioglieva ed eliminava la cera, sostituendosi a essa (sembra quasi impossibile che questa procedura, che si sarebbe usata in seguito per la grande statuaria, funzionasse anche per le piccole dimensioni); liberato e raffreddato il metallo, bisognava disincrostarlo, ritoccarlo, cesellarlo con martellini, pinze, lime, bulini, piccoli scalpelli. E si producevano, in secondo luogo, strumenti e armi, per cui si usavano invece matrici monovalve e bivalve. La circolazione era amplissima, e non solo nel “circuito” di cui sopra, ma anche sulla costa tirrenica della penisola, soprattutto in Etruria fra IX e VIII secolo: Tarquinia, Caere, Vulci. A Vulci, per esempio, esiste una tomba detta appunto “dei bronzetti nuragici” per la grande quantità rinvenuta nel corredo. Si immagina che quella tecnica e quell’intensa produzione siano stare rese possibili prima da influssi siro-palestinesi, poi dalla presenza e dalla collaborazione diretta di artigiani (“calcheuti”) provenienti da Cipro, l’“isola del rame”.

Johann Joachim Winckelmann, scopritore della grande arte classica, durante una visita del Museo kircheriano a Roma si imbatté in un gruppo di bronzetti nuragici e lo giudicò “ganz barbarisch” (“totalmente barbarico”). Impietoso, perché certo quelle piccole, vivaci figure non potevano soddisfare i suoi parametri di giudizio: ma quelle sproporzioni, quella semplificazione di certi dettagli ed esaltazione di altri, quell’enfatizzazione dei lineamenti che li rende stranamente espressivi, quell’avvicendamento fra figure che paiono bloccate e altre che assumono posizioni estreme in instabile equilibrio contribuiscono a creare opere coinvolgenti e dirette.


Vi è molta attenzione per gli attributi e gli atteggiamenti che concorrono a fare chiarezza, a individuare ruoli e funzioni. A cominciare, ovvamente, dal “re”, o “principe” o “leader” di ogni comunità o clan: il “capotribù” che si presenta in posizione rigidamente frontale, come in un’“epifania” o apparizione (l’esemplare che qui mostriamo è di Santa Vittoria di Serri, ma questo schema viene adottato anche in molti altri), con il rigido manto che quasi racchiude il corpo, le mani alzate, i segni del comando ben visibili (bastone da pastore – con pomello – a guisa di scettro, daga e pugnale sulla spalla e sul petto), il volto molto grande dai lineamenti fissi e imperiosi.


Molta attenzione viene riservata anche a soldati di vario tipo. Vi è una notevole varietà nelle figure di arcieri, che sono di volta in volta mostrati in molti atteggiamenti diversi. In una statuina rinvenuta a Urzulei, un arciere poggia a terra un pesante arco alto quasi quanto la sua persona. In un’altra proveniente dalla località Albini, presso Teti (Nuoro), cioè da uno dei principali luoghi di produzione, l’arciere, che indossa un elmo dalle lunghe corna, poggia l’arco sulla spalla destra e leva la mano sinistra come “orante”: la sua posizione è ieratica e composta. Analogo elmo indossa un altro arciere, la cui figura è invece un po’ sbilanciata: la freccia è incoccata, il “saettante” sta per scoccare il colpo.

L’arciere raffigurato in una statuina rinvenuta in località Sa Costa presso Sardara (Cagliari) si distingue per una insolita “alta uniforme”, un abbigliamento molto particolare, forse orientaleggiante. In testa, invece dell’elmo, ha una sorta di calottina con orlo in rilievo. In compenso, l’armatura è dotata di una piastra metallica che difende il lato sinistro della testa, lato sul quale il combattente potrebbe essere colto di sorpresa in quanto intento a mirare con l’occhio destro. Inoltre, la freccia è incoccata e l’arco è teso, ma è disposto orizzontalmente. Il dettaglio più vistoso è un altro ancora: una sorta di gonnellone che copre (difende? abbellisce?) la parte inferiore del corpo fino a sotto il ginocchio, ed è decorato da una serie di strisce verticali parallele. Un abbigliamento del genere è di tipo orientale, simile a quelli indossati da arcieri assiri o ciprioti.

In tutte queste figure, la testa è molto grande rispetto al resto del corpo, ed è abbastanza costante la resa del naso, grande e dritto, e degli occhi, molto evidenti e sporgenti. Nell’arciere equipaggiato “all’orientale” che abbiamo appena visto, gli occhi sembrano meno marcati.


C’è poi un tipo di guerriero in un bronzetto rinvenuto ad Abini presso Teti (Nuoro) che risulta piuttosto stupefacente e di cui altri esemplari sono noti solo in quest’area montana dell’isola. La figura, più frontale che mai, indossa un elmo dalle lunghe corna, una tunica manicata a bande verticali, due schinieri, ma per il resto si “sdoppia”: quattro occhi, due paia di braccia ornate da bracciali, due stocchi (sorretti da una delle due paia di mani), due scudi circolari con umbone e righe incise (sorretti dall’altro paio), il tutto rispettando rigorose simmetrie. Confronti, per la verità non del tutto calzanti, si possono trovare in Oriente: statue di Cipro con guerrieri a più gambe che reggono più scudi, bronzi del Luristan che presentano analogie nel modellato del volto (tratti piuttosto geometrizzati, compresi i quattro occhi; mento aguzzo). Giovanni Lilliu parlava di «concezioni mitico-religiose orientali» e di «figurine iperantropiche».


Insieme a questo filone “militare” l’arte nuragica ne ha coltivati ovviamente numerosi altri. Non del tutto distante, anche se legato presumibilmente a situazioni rituali, è quello della lotta: si affrontano coppie di contendenti che assumono le posizioni più disparate, con i corpi che mantengono in genere configurazioni agili e guizzanti. Esemplare, nell’ambito di questa serie di sculture, è una scena di lotta fra un personaggio steso a terra e uno che lo sovrasta, apparentemente senza ancora aver vinto, raffigurata in un bel bronzetto databile nell’VIII secolo a.C. rinvenuto a monte Arcosu presso Uta e conservato a Cagliari.

A questo punto, entriamo proprio nel mondo del mito e del rito di cui si è parlato. Colpisce la varietà di soluzoni adottate per la raffigurazione del toro. Era venerato, con varie sfumature di significato, anche a Cipro, nella Grecia continentale e a Creta, dove era nato il mito del Minotauro. Nei bronzetti nuragici è raffigurato in molti modi diversi, sperimentati già nelle fasi precedenti della storia dell’isola e soprattutto nelle domus de janas: una situazione molto particolare, si ricorderà, è quella delle Tombe dei giganti, dove forse la forma della testa dell’animale e delle sue corna influenza la pianta dei vestiboli. Modi molto diversi, dunque: le corna sono quasi immancabilmente lunghissime, ma per quanto riguarda le tecniche adottate si spazia fra una certa organicità, come nella bella statuina di toro accovacciato rinvenuta a Santa Anastasia di Sardara, e un’estrema stilizzazione, come nel caso del Toro con uccello sul dorso della collezione Borowski (e così “sfioriamo” un tema pesante che in questa sede non c’è modo di approfondire, che è quello di un certo collezionismo che rischia di disperdere un patrimonio già di per sé difficile da controllare), in cui sia l’animale “ospitante” sia quello “ospitato” sono resi in forme sottilissime. La cosa appare strana soprattutto per il toro, quasi irriconoscibile nell’aspetto del corpo e delle lunghe zampe. Caratteristiche del genere si ritrovano in un bronzetto conservato nel Museo Sanna di Sassari e proveniente dal nuraghe Pizzinnu: qualcuno pensa che le due sculture potessero essere opera di una stessa officina.

navicella in bronzo (VIII secolo a.C. ); Cagliari, Museo archeologico nazionale.


Navicella del re Sole (X-VIII secolo a.C.), da Villanova presso Padria (Sassari); Sassari, Museo Sanna.


Navicella in bronzo (1150-950 a.C.), da località sconosciuta; Cagliari, Museo archeologico nazionale.

Si è anche insistito, nelle pagine precedenti, su un’altra importante figura della religiosità sarda, la figura femminile: nell’ambito della produzione di bronzetti è un tema molto vivo e presente, anche in questo caso con molte varianti, alcune delle quali molto essenziali, e talvolta fin troppo facile oggetto di spregiudicate riproduzioni moderne. Alcune figure, però, sono molto più complesse: scegliamone due fra le tante, una rinvenuta nel grande santuario di Santa Vittoria di Serri, l’altra in una grotta sacra presso Urzulei (Nuoro).


Dal punto di vista iconografico, cogliamo qui l’occasione per evidenziare due diversi e tipici modi di rendere la testa nell’ambito di questa produzione: tondeggiante con gli occhi rappresentati come globuli ovali nella prima, di forma molto allungata con naso prominente e occhi grandi e quasi rettangolari nella seconda. Entrambe, sedute su uno sgabello, alzano la mano destra come per chiedere protezione, ma la prima ha sulle ginocchia un bambino che sembra abbandonarsi alla spossatezza di una qualche malattia (da curare nel santuario), l’altra sembra sostenere una figura molto più grande, si direbbe quasi un adulto (nella misura in cui è possibile, in questo tipo di produzione artistica, interpretare correttamente le proporzioni), e da qui deriva la definizione un po’ impressionante con cui è nota, la Madre dell’ucciso (ripresa dal titolo di una scultura di artista nuorese, Francesco Ciusa, esposta con successo alla Biennale di Venezia del 1907). Di solito gli studiosi cercano di correggere e mitigare l’impatto delle definizioni assegnate dalla “vox populi”, o dovute al desiderio di dare un qualche nome a ciò che si è scoperto; in questo caso qualcuno pensa invece a un giovane morto in battaglia e (visto che il bronzetto è stato rinvenuto in una grotta sacra) posto sotto la protezione della divinità, o addirittura a una sorta di “Madonna pagana” o di “Pietà nuragica”.


Fra gli altri tipi di soggetto raffigurati nei bronzetti nuragici (animali e così via) spiccano le navicelle, che ovviamente ci interessano anche in quanto ovvia testimonianza dell’altrettanto ovvia (ma non per questo meno importante) dimestichezza dei nuragici con il mare. La più grande mai scoperta in Sardegna, lunga trentotto centimetri, è stata trovata nel nuraghe Badde Rupida (di per sé non dei più entusiasmanti) in località Villanova presso Padria (Sassari). Lo scafo ha una forma piuttosto agile, ed è sormontato da due paramenti traforati su cui poggia una sorta di ponte che reca al centro un albero, di una forma cilindrica un po’ inconsueta (una specie di tubo). In questa e altre navicelle, sulla sommità dell’albero è un anello: un tipo di “accessorio” che rivela che questi modellini, nei luoghi a cui erano destinati, erano appesi a un supporto. Questo esemplare è il più grande fra i molti che si conoscono, motivo per cui al momento della scoperta era stato curiosamente definito «la navicella del re Sole».

Fuori della Sardegna, navicelle nuragiche, da contesti datati soprattutto (ma non soltanto) al VII secolo a.C., sono presenti sopattutto in Etruria. Ma cerchiamo di spingerci più a sud. Fra i doni votivi rinvenuti nel santuario di Hera a capo Colonna presso Crotone troviamo uno di questi “modellini”: poiché la data è ben anteriore a quella del tempio, bisogna pensare che l’offerente abbia scelto il dono fra i “beni di famiglia” posseduti da più generazioni, e quindi più amati. La sua presenza, comunque, è un unicum nella Calabria ionica. Il dato più visibile è la presenza sopra le fiancate, anche qui, di un ponte che poggia su elementi traforati: è sormontato, all’estremità verso prua, da coppie di buoi aggiogati che trainano un carro.


Infine, è in qualche modo significativo che i bronzetti nuragici raffigurassero talvolta proprio i nuraghi. Fra i molti esemplari a noi noti ne scegliamo uno rinvenuto in località Pozzo sacro di Camposanto, presso Olmedo (Sassari). Si tratta di un nuraghe quadrilobato reso in maniera molto allungata ed elegante, sorretto da un complesso piedistallo.


Non resta molto spazio per illustrare un ultimo aspetto della fiorente attività artistico-artigianale che si svolgeva all’interno degli insediamenti nuragici: la produzione ceramica. Le forme erano in genere eleganti ma semplici (fiasche, olle, brocche, scodelle, ciotole) e riecheggiavano in genere quelle delle fasi precedenti: quella più caratteristica è forse la “brocca askoide”, diffusa fra il Bronzo finale e la Prima età del ferro così chiamata perché sembra prefigurare una forma che sarà propria della grande produzione greca: l’“askos”: corpo sferoidale, imboccatura e collo eccentrici (cioè non posti sull’asse centrale e configuranti perciò una sorta di becco obliquo), ansa che collega il collo stesso con la linea di massimo diametro del vaso.


I vasi erano decorati, e forse è opportuno citare un dettaglio di una fiasca rinvenuta nel già ricordato Pozzo sacro di Camposanto presso Olmedo (Sassari), conservato nel Museo Sanna di Sassari. Inciso calligraficamente sulla sua superficie vediamo un nuraghe, anch’esso quadrilobato, dotato di un mastio altissimo, Anche quest’utima “specialità” della Sardegna nuragica che si è presa in considerazione rende omaggio al monumento-simbolo della preistoria dell’isola.

ARTE NURAGICA
ARTE NURAGICA
Sergio Rinaldi Tufi
Uno dei misteri meglio custoditi dalla storia è quale fosse la funzione dei nuraghi, le tipiche costruzioni megalitiche che caratterizzano il paesaggio della Sardegna. Altrettanto misteriosa è l’origine della civiltà che prende il nome da quelle strutture. Sappiamo che si sviluppa nel cuore del Mediterraneo a partire dal III millennio a.C. – forse con radici micenee – e sussiste fino al II secolo d.C., quando la romanizzazione dell’isola è sostanzialmente compiuta, almeno nella maggior parte del territorio. Il dossier cerca di fare chiarezza su ciò che è accertato dalle ricerche archeologiche, e soprattutto delinea uno svolgimento e i caratteri salienti delle arti all’interno di quella cultura, fatta di architetture ma anche di sculture (celebri i Guerrieri di Mont’e Prama), metallurgia, ceramica, strutture funerarie.