VILLAGGI E SANTUARI.
“POZZI SACRI”
E “TOMBE DEI GIGANTI”

Non sempre un nuraghe presuppone un villaggio, né viceversa. Fra i “villaggi senza nuraghe” ne scegliamo uno davvero peculiare: quello del monte Tiscali, fra il Supramonte di Oliena e il Supramonte di Dorgali, non troppo lontano dalla grotta Corbeddu di cui si diceva all’inizio.

S

ulla rocciosa sommità dell’altura si apre un’enorme cavità, una sorta di dolina carsica, all’interno della quale si sviluppò a partire dal XV secolo a.C. (ma forse il sito era stato in qualche misura frequentato anche prima), invisibile all’esterno, una doppia serie di abitazioni: a nord capanne a pianta circolare o ovale, a sud-ovest abitazioni minori a pianta quadrata o rettangolare. La vita proseguì anche dopo la fine dell’età nuragica, sia pure in maniera intermittente: in età romana vi si nascondevano forse oppositori del potere dell’Urbe; non mancano tracce di presenze neanche per il Medioevo.


Tempio a pozzo di Su Tempiesu (XII-IX secolo a.C.); sa Costa ’e sa binza presso Orune (Nuoro).

Ma il “padre di tutti i villaggi” si trova nell’area delle “giare”, che è la stessa in cui si trova Su Nuraxi. In particolare siamo nella giara di Serri (Sud Sardegna), che prende il nome da un paese, appunto Serri, collocato in un altopiano petroso. Il villaggio si chiama Santa Vittoria, dal nome di una chiesa sorta nel Medioevo sopra le rovine di un monumento romano, nota perché a settembre vi si celebrano i raccolti. Il sito è stato oggetto di una lunga frequentazione fra Bronzo medio (1700-1350) ed età romana, con prosecuzione su scala ridotta (dopo un incendio) fino al Medioevo, ma la fase di massima fioritura è fra Bronzo finale e prima Età del ferro. Scavato soprattutto da Antonio Taramelli nella prima metà del Novecento, il sito si è rivelato ricchissimo di monumenti. Uno dei più antichi è un nuraghe a corridoio, sulle cui rovine fu costruito in epoca romana un piccolo edificio alla sommità di una scalinata, che Taramelli interpretò come “tempio della Vittoria” dell’Urbe sui sardi.

Per il resto, abbiamo un’ampia rassegna di tipologie architettoniche sacre, di cui parleremo, fuori di qui, anche in altri contesti nelle pagine successive. Forse, quindi, più che di “villaggio” si deve parlare di “santuario”. Fra i monumenti più significativi è il mirabile «tempio a pozzo». Preceduta da un vestibolo con altare fiancheggiato da due muri, la vera del pozzo, circolare, è in blocchi elegantemente squadrati di calcare e di basalto, che danno luogo a un effetto bicolore; ugualmente squadrati sono i blocchi delle pareti della rampa che conduce al bacino sottostante, nonché del paramento interno di quest’ultimo. Da qui, la «via sacra» (le denominazioni sono di Taramelli) conduce a un «tempio ipetrale» con due altari e con una struttura forse interpretabile come bacino per immersioni rituali. Ricordiamo inotre i resti del «mercato» (edificio costituito da una fila di nove celle affiancate), della «curia», o capanna delle riunioni federali (edificio circolare di undici metri di diametro), di due edifici “in antis” detti «capanna del sacerdote» e «capanna del capo», di una grande piazza detta (forse stavolta fondatamente) «recinto delle feste», a pianta leggermente ellittica (asse maggiore cinquanta metri, asse minore quaranta), circondata da un portico in cui si inseriscono strutture circolari interpretate come cucina, mercato, capanne. Suggestivo pensare, come lo scavatore, che qui si svolgessero festeggiamenti per una divinità locale, ma anche assemblee federali delle popolazioni del centro dell’isola; e che qui le strutture che abbiamo visto potessero funzionare fra l’altro come “cumbessia”, complesso destinato all’accoglienza dei pellegrini. Bisogna ammettere che è un luogo in cui la tentazione di scatenare la fantasia può essere meno ingiustificata che altrove.

Rampa di accesso al pozzo sacro (1100-1000 a.C.); Santa Cristina di Paulilatino (Oristano).


Pozzo sacro (1200-900 a.C.); Sa Testa presso Olbia (Sassari).

Non bisogna però sottovalutare Santa Cristina presso Paulilatino (Oristano), altro villaggio in un luogo che prende il nome da una chiesa (in questo caso con annesse costruzioni devozionali settecentesche) sorta presso le rovine, e che contiene un tempio a pozzo. Nell’ampia area dell’insediamento c’è anche un complesso nuragico: un nuraghe monotorre ben conservato e un complesso di resti di capanne di altre strutture ancora da indagare. Ma è proprio il pozzo, databile attorno all’XI secolo a.C., ad attirare maggiormente l’attenzione: sono ottimamente conservati sia il pozzo stesso con la sua imboccatura circolare, dove ancora è presente l’acqua, sia la struttura sotterranea, coperta a “tholos”, che lo racchiude. Al bacino si scende, da un vestibolo compreso in una cinta ellittica, attraverso una scala a pianta trapezoidale: le pareti e i gradoni sono in blocchi perfettamente squadrati. Il luogo di culto della Madre Terra si presenta qui in forma particolarmente suggestiva.


Fra i circa cinquanta “pozzi sacri” (stima di Maria Ausilia Fadda) noti nell’isola (Funtana Coperta, Cùccuru Nuraxi, Santa Anastasia…: ne citeremo fra poco uno a Romanzesu), offre una notevole chiarezza planimetrica (ben leggibile anche se i muri sono poco conservati in altezza) quello di Sa Testa, sulla strada costiera fra Olbia e golfo Aranci, apparentemente isolato, databile all’Età del bronzo finale (1150- 950 a.C.) ma anch’esso lungamente usato, come altri, anche dopo la fine dell’età nuragica. Quattro gradini immettono in un cortile-vestibolo ellittico, probabilmente dedicato a usi rituali. Da qui si accede al profondo bacino, attraverso una scala a pianta trapezoidale, più stretta di quella di Santa Cristina e realizzata con blocchi assai meno accuratamente squadrati; anche qui però la copertura del pozzo era assicurata da una “tholos” terminante in alto con un foro circolare. Qui, inoltre, restano avanzi (pochi filari di blocchi) di una seconda “tholos” sovrapposta alla prima, il che impedisce di capire se e in che modo vi fosse anche una seconda apertura in corrispondenza della sommità.


Un altro tipo di monumento probabilmente legato al culto e/o all’acqua è la “rotonda con bacile” talvolta presente in villaggi nuragici come quello presso Su Nuraxi di Barumini, o di Palmavera presso Alghero, o di Sa Sedda ’e Sos Carros presso Dorgali (Nuoro). Lo schema è semplice: un vano circolare, con annesso all’interno un sedile di pietra, reca al centro un grosso bacile, pure di pietra, sorretto da un elegante piede che poggia su un pavimento lastricato. Quest’ultimo è inclinato verso un foro di uscita: è il principale indizio che si abbia a che fare con qualche attività o rito che prevedeva l’uso di liquidi. A Sa Sedda ’e Sos Carros il muro con sedile era particolarmente accurato, in grandi blocchi accuratamente squadrati; l’acqua zampillava nel bacile dalla bocca di una serie di teste di ariete poste sulla sommità. Questi monumenti sono luoghi di preghiera con cerimonie che prevedono abluzioni? O legati a riti di purificazione? Ma c’è anche chi pensa a un uso termale, quasi come se il bacile potesse essere assimilato al “labrum” di un impianto di età romana.


Quale che sia l’interpretazione corretta delle rotonde con bacile, è già chiaro dagli altri monumenti esaminati in precedenza che l’acqua nella cultura nuragica ha un’importanza notevolissima. A differenza di quanto si constaterà in altri tipi di monumenti pur importanti e diffusi (le Tombe dei giganti), i luoghi di culto ci hanno restituito una notevole quantità di reperti.

Tomba dei giganti (2100-1350 a.C.); Coddu Vecchiu presso Arzachena (Sassari).


Tempio del “Sardus Pater” (varie fasi dal 500 a.C. al 200 d.C:); Antas presso Fluminimaggiore (Sud Sardegna).

Sono i doni dei fedeli, soprattutto bronzi: armi, strumenti di lavoro, ornamenti, sculture (i famosi “bronzetti nuragici” di cui parleremo più avanti), ma anche lingotti di piombo o di rame, vaghi e perline di ambra provenienti dal Baltico: questi ultimi sopattutto a Romanzesu, in località Poddi Arvu presso Bitti (Nuoro). La rete di rapporti dei nuragici non era tenuta in vita perciò solo dalla navigazione nel già amplissimo spazio del Mediterraneo, ma anche da scambi e rifornimenti per via di terra; e ovviamente i movimenti non erano solo in entrata, ma anche in uscita, come vedremo dai ritrovamenti di bronzetti e di altri materiali in ambiti assai ampi.


Intanto, lasciando il mondo dei riti legati all’acqua, scopriamo un ultimo tipo di architettura sacra, che fra l’altro può rientrare nel complesso rapporto (di cui si è in vario modo già accennato) fra Sardegna e mondo miceneo: il tempio a “megaron”. Un caso interessantisimo è quello appena citato di Romanzesu, in località Poddi Arvu presso Bitti (Nuoro): è un villaggio molto vasto, con un pozzo sacro, un singolare “anfiteatro” ellittico a gradoni, molti resti di capanne circolari e appunto due templi a “megaron”, di forma rettangolare allungata con “pronao” che precede la cella. In quello più “leggibile” dei due, il pronao (espressione, se vogliamo, prematura in questa fase, perché si userà nella Grecia classica) rivela addittura tre fasi (nell’ultima delle quali la facciata da rettilinea diventa curvilinea) dal XV al IX secolo a.C.: un uso prolungato e intenso. I blocchi sono poderosi e non squadrati: caratteristica che ritroviamo nel cosiddetto tempietto di Malchittu, presso Arzachena (Sassari), non lontano dal nuraghe Albucciu ma in posizione elevata fra grandi rocce di granito, non facilissimo da raggiungere. La pianta è a “megaron”, e in età classica si direbbe “in antis”, con due pareti laterali (in questo caso leggermente curvilinee) che si prolungano oltre la facciata creando una sorta di vestibolo. La porta reca un poderoso architrave monolitico: questo e i blocchi contigui sono squadrati più accuratamente, gli altri sono appena sbozzati. Non lontani sono un nuraghe e i resti di una capanna circolare: un piccolo, impervio villaggio di altura. Secondo le interpretazioni più recenti l’edificio avrebbe avuto invece una funzione abitativa, e sarebbe da inquadrare nell’ambito delle capanne nuragiche del Bronzo medio (a partire dal XVII secolo a.C.)

Tomba dei giganti (2100-1400 circa a.C.); Li Lolghi presso Arzachena (Sassari).


veduta aerea del villaggio nuragico Sa Sedda ’e Sos Carros (XII-IX secolo a.C.); presso Oliena (Nuoro).

La rassegna delle tipologie architettoniche di età nuragica si conclude con i monumenti funerari, e in particolare con le Tombe dei giganti: se ne conoscono circa ottocento. La definizione è d’altri tempi, fantasiosa e suggestiva, e ipotizza quasi per gioco che le grandi dimensioni di queste sepolture fossero dovute all’enorme statura dei sepolti, mentre invece si tratta di tombe collettive. Furono tutte utilizzate a lungo: lo spazio per le nuove sepolture si otteneva spostando le ossa delle deposizioni precedenti. Ogni tomba ospita i defunti di una comunità, anche se si discute se si tratti di tutti i membri (come si è a lungo pensato) o di una qualche sorta di élite: discussione peraltro resa difficile dalla pressoché totale assenza di corredi e (ricordiamolo ancora una volta) di fonti scritte.


Dimensioni notevoli, dunque: fra le maggiori ricordiamo Su Crastu Covocadu presso Tinnura (Nuoro), lunga oltre trenta metri. Nella vista dall’esterno, si impone all’attenzione la grande esedra che delimita l’area rituale di ingresso, esedra che con la sua forma semicircolare evoca, secondo alcuni, proprio l’aspetto curvilineo delle corna del toro, di cui si diceva poco fa. Quale che possa essere il significato, è di notevole impatto la serie di lastroni infissi verticalmente nel terreno (come nei dolmen delle fasi precedenti) che compongono il semicerchio, al centro del quale è una grande stele dalla sommità arcuata (o “centinata”): è nota ovviamente anche altrove, e in alcuni casi assume dimensioni enormi, come nel caso di San Gavino di Borore (Nuoro), in cui l’altezza è di quattro metri. Una piccola apertura in basso costituisce simbolicamente un ingresso. Anche la struttura della camera funeraria, absidata, è realizzata con la stessa tecnica a lastroni verticali, detta “ortostatica”. Appartengono a questa categoria anche due monumenti che si trovano entrambi nei pressi di Arzachena: il primo è in località Lu Coddhu ’Ecchju. Qui l’uso della tecnica ortostatica si deve al fatto che la prima fase del monumento, risalente al Bronzo antico (2300-1700 a.C.), e più precisamente alla cultura di Bonnanaro, era cosituita da una struttura a cista litica; al Bronzo medio (1700-1350) si data una ristrutturazione, con l’aggiunta, appunto, di un’esedra a lastroni verticali in granito del tipo appena descritto, al cui centro la stele, alta quattro metri come quella di Borore, è composta di due parti, l’inferiore rettangolare e la superiore arcuata, come pure arcuato è il portello che si apre in basso; originariamente il monumento era coperto da un tumulo.

L’altra importante Tomba dei giganti presso Arzachena, a cui si è accennato, è in località Li Lolghi, e ripete lo schema (e anche la cronologia in due fasi) della tomba appena descritta, ma con alcune differenze: qui la stele è in un unico pezzo; le dimensioni sono più grandi, oltre nove metri di lunghezza, occupati da un corridoio lungo il quale si disponevano le sepolture. Nella seconda fase l’intera struttura, che è absidata, è inglobata in un tumulo, che resterà in uso fino alla tarda Età del bronzo.


In una fase successiva, alla tecnica ortostatica subentra una muratura in opera sub-quadrata (blocchi abbastanza accuratamente squadrati ), nelle cui connessure talvolta è necessario inserire piccole zeppe, o addirittura isodoma, con blocchi perfettamente eseguiti: particolarmente eleganti sono tre tombe in tre luoghi diversi presso Sedilo (Oristano): la tomba n. 2 di Iloi, dotata di un corridoio di nove metri; la 3 di Sant’Antinu ’e Campu e quella di San Costantino-monte Isei.


Frequente è la presenza di betili di varie dimensioni, in qualche caso anche molto alti. La parola “betilo” è di origine semitica: “bêth-el”, trascritto in greco “baitylos”, significa “casa di dio”, e in ambiente orientale pietre coniche di questo tipo compaiono spesso in luoghi di culto. Vengono defìniti betili anche quelli che compaiono in Sardegna, e in particolare (simili in qualche modo ai menhir delle fasi precedenti) in monumenti come le Tombe dei giganti, in dimensioni piccole (situate anche in appositi alloggiamenti sopra l’ingresso della camera funeraria) oppure più grandi, fino a uno-due metri di altezza posate sul pavimento del vestibolo. Pur usando larghissimamente la pietra, e pur avendo raggiunto in vari tipi di produzione una notevolissima abilità nel lavorarla (menhir, betili, blocchi accuratamente squadrati per edifici di culto), i nuragici non ci hanno lasciato quasi nessuna testimonianza di scultura litica di grandi dimensioni, mentre invece, come sappiamo e come vedremo, la produzione di piccole sculture in bronzo è abbondantissima.

ARTE NURAGICA
ARTE NURAGICA
Sergio Rinaldi Tufi
Uno dei misteri meglio custoditi dalla storia è quale fosse la funzione dei nuraghi, le tipiche costruzioni megalitiche che caratterizzano il paesaggio della Sardegna. Altrettanto misteriosa è l’origine della civiltà che prende il nome da quelle strutture. Sappiamo che si sviluppa nel cuore del Mediterraneo a partire dal III millennio a.C. – forse con radici micenee – e sussiste fino al II secolo d.C., quando la romanizzazione dell’isola è sostanzialmente compiuta, almeno nella maggior parte del territorio. Il dossier cerca di fare chiarezza su ciò che è accertato dalle ricerche archeologiche, e soprattutto delinea uno svolgimento e i caratteri salienti delle arti all’interno di quella cultura, fatta di architetture ma anche di sculture (celebri i Guerrieri di Mont’e Prama), metallurgia, ceramica, strutture funerarie.