Al tempo in cui De Cesaris portava avanti i suoi restauri in San Luigi, questi dettagli non si conoscevano. Ci sarebbero voluti ancora dieci anni e la passione di Consuelo Lollobrigida, storica dell’arte, che aveva iniziato già nel 1997 a studiare la figura di Plautilla. Una mattina, mentre passava in fretta davanti alla cappella del re di Francia, diretta verso la Contarelli, l’occhio le era caduto sull’iscrizione alla base della pala d’altare del sovrano capetingio.
Sotto i suoi piedi calzati di rosso spiccava la scritta «Plautilla Briccia Romana Invenit», la firma della pittrice che l’aveva ritratto in abiti regali e con le insegne dei poteri temporale e spirituale incarnati dalla monarchia assoluta: la foglia di palma e la corona di rose, la croce e lo scettro, e i gigli di Francia. Fu così che Lollobrigida prese a inseguire la misteriosa artista negli archivi romani. E nel 2017 pubblicò la monografia Plautilla Bricci. Pictura et Architectura Celebris. L’architettrice del barocco romano.
Le scoperte di Lollobrigida, e quelle più recenti di altri studiosi, sono ora confluite nella mostra curata da Yuri Primarosa e voluta da Flaminia Gennari Santori nelle sale delle Gallerie nazionali di arte antica - Galleria Corsini, appena riaperte al pubblico. Qui sono riunite per la prima volta tutte le opere di Plautilla ritrovate fino a oggi, grafiche e pittoriche: dai disegni per il Vascello al progetto per la tomba di Mazzarino, che non si realizzò, come quello per l’ipotetica scalinata di Trinità dei Monti, che prevedeva la possibilità di salire l’erta in carrozza. Ci sono i suoi dipinti, con i colori chiari, pastellati, già quasi settecenteschi, accanto a capolavori inediti o poco conosciuti dei maestri a lei più vicini.
E non mancano i ricamatori di successo, poiché l’arte del ricamo, nella Chiesa della Controriforma, era di competenza esclusivamente maschile, e di gran prestigio, ritenuta una nobile disciplina derivante dal disegno e sorella della pittura. Gran ricamatore fu Annibale Carracci.
E, altrettanto famoso, Andrea Benedetti, padre dell’abate
Elpidio, nella cui bottega forse esercitò il proprio apprendistato la stessa Plautilla. Gregorio XV si era rivolto a lui, nel 1622, per una preziosa pianeta in damasco, con sette medaglioni di figure dipinte e ricamate con fili d’oro e di seta, visibile in mostra.
Il percorso si apre con il Ritratto di architettrice, rintracciato a Los Angeles e riferito a un «pittore attivo a Roma nel terzo quarto del XVII secolo». Per Giovanni Papi è «molto verosimile» che tramandi il volto di Plautilla, con tutti i suoi difetti: gli occhi lontani e un po’ strabici, il naso lungo e incurvato, il mento sfuggente con la fossetta, il collo massiccio. Immagine troppo realistica per un’allegoria dell’architettura. La donna, che regge con la destra un compasso, mentre ostenta con la sinistra un foglio con disegni di archi e pilastri e alcuni calcoli, potrebbe dunque essere Plautilla negli anni in cui lavorava al Vascello.
Ricchissimo e indispensabile il catalogo, che ricostruisce la straordinaria avventura dell’architettrice: il voto di verginità impostole dal padre, suo primo maestro, per legarla al mercato dei quadri di devozione; il rapporto, non solo artistico, con Elpidio Benedetti, che la sostenne e al tempo stesso cercò di usarla come semplice esecutrice delle sue invenzioni e di farla sparire nella sua ombra. Per rivendicare di essere non solo quella che passava il colore, lei pennellò un paio di volte sui dipinti, accanto alla firma, la parola «invenit» (ideò). E seppe trasformare la sua condizione di donna votata alla solitudine in un’occasione di insolita libertà: non moglie, non monaca, non zitella, ma signora e padrona di sé, del suo corpo, della sua arte.