PERSONE:
«NON SONO TUTTI AUTORITRATTI»

Marlene Dumas è partita più volte da sé come oggetto di osservazione e di autocritica, ma osservare i suoi autoritratti aiuta anche a seguire il percorso che l’ha condotta a riflettere sul suo stesso dipingere, un po’ come accade nell’ Autoritratto come allegoria della pittura di Artemisia Gentileschi (1630 circa).

In effetti la sua opera forse più iconica, che non rappresenta le sue fattezze ma quelle della figlia da piccola, si intitola The Painter (1994). La bambina ha il pancino azzurro-viola come una sorta di vaso alchemico e ribollente; una mano rossa e una blu, come due armi entrambe attive. A prescindere dai dati biografici - Marlene ha effettivamente creato una serie in collaborazione con la piccola Helena -, l’opera può essere considerata l’autoritratto di un alter ego, volutamente spogliato di tutto ma attento, assorto, teso e pronto alla creatività. 

 
Si intitola Selfportrait già un giovanile inchiostro su carta del 1973, in cui non scorgiamo altro che una grafia meccanica. È stato il suo primo modo di mostrare come la superficie dell’opera fosse un paesaggio politico, cioè disposto ad accogliere l’incrocio tra soggetto e mondo. Non c’è il male assoluto, o piuttosto c’è un male diffuso e nascosto; bisogna saperlo individuare. Il male è anche nel suo stesso viso. In Evil is Banal (1984)(30) ci si mostra con un suo sguardo laterale circondato dall’aureola dorata dei capelli, troppo accesa per apparirci angelica o comunque spirituale, sottolineata dalla presenza scura della mano sotto il mento. Non sta facendo nulla. Forse la colpa sta già solamente nell’essere stata una bambina bianca tra i neri(31) o una ragazza a cui è stato consentito decidere della sua vita. 

Da allora, il tema di cosa includa il confronto io-l’altro si è ampliato. Il Selfportrait at Noon (2008) è un quadrato leggermente schiacciato dentro al quale si staglia un viso tondo, visto dal basso, sospinto ai lati da due grappoli di capelli ricci simili a quelli di un clown. Gli occhi sono rimpiccioliti dalle palpebre gonfie, la bocca non sorride, metà del collo è scavata da pennellate che evocano le pieghe aggiunte dall’età. I colori sono simili a quelli di una fotografia sovraesposta: il viso è pallido, l’azzurro delle iridi è un cenno, l’abito che circonda il collo è un manto nero che accentua il pallore, il sapore spettrale è sedato solo da tracce di rosa sulle labbra e in una narice ovale, memore di un Picasso molto amato, collocata quasi nel centro geometrico dello spazio figurativo. Lo specchio non suggerisce seduzione ma una vitalità inquieta. 

Drunk (1997), non è un autoritratto ma presenta una fisicità femminile simile alla sua. Dumas prefigura il pericolo di perdere il controllo: vi potremmo vedere un invito a godere dell’ebbrezza suggerita da Charles Baudelaire, uno dei punti di riferimento letterari più cari alla pittrice, verso un’opacità nei confronti del reale che ci aiuti ad agire con più coraggio. Ma qui vediamo il contrario: un corpo nudo frontale, senza trucco, senza veli che coprano le forme di una donna attraente ma non giovane e non canonica. L’immagine è ammorbidita da una sorta di comprensione per l’essere umano e le sue cadute: forse a dare questo effetto sono i colori sfumati, i contorni mai rigidi, una luce accaldata e una pittura gestuale. E tuttavia, la visione è spietata. 

Un capitolo successivo di questo stesso timore per la perdita di lucidità è The sleep of reason (2009), ottenuto sovrapponendo due fotografie, dove l’artista si mostra con gli occhi chiusi, in una prospettiva arretrata, con le dita intrecciate e una danza disordinata di unghie scure. I capelli diventano un doppio gomitolo di ghirigori in cui sembra disperdersi il pensiero, mentre la faccia assopita ribadisce la rinuncia alla logica. La citazione nel titolo da Francisco Goya, un altro riferimento molto caro all’artista, rimanda all’acquatinta Capriccio 43 del 1797, in cui la figura dell’autore si accascia su di un tavolo e intorno gli si accalcano pipistrelli, gufi, visi mostruosi e una lince. La morale dell’opera, eseguita nell’Epoca dei lumi ma nella terra di Cervantes e del suo onirismo, riguardava la natura stessa dell’arte: se la fantasia vola libera produce fantasie mostruose; solo se mescolata alla ragione diventa uno strumento per la ricerca della verità. Marlene Dumas, mostrandosi dormiente, denuncia quindi il suo desiderio di rimanere vigile e suggerisce una doppia ragione del suo lavoro: la comprensione empatica dei cedimenti umani, che vanno riconosciuti e soprattutto se vissuti in prima persona, ma anche la una lucida, perdurante vigilanza su di essi. 

Evil is Banal (1984); Eindhoven, Van Abbemuseum.


Drunk (1997).

Volti: «La cosa più attraente degli altri, per me, è la loro alterità» 
Nei dipinti di Dumas non compaiono sentimenti come il rimpianto, l’attrazione per l’esotico o il tentativo di tradurre gli esseri umani in eroi. Come ha asserito, «Io non lavoro sulla nostalgia, perché anche se ho effettivamente utilizzato fotografie di vecchie cartoline come fonte di ispirazione per alcune delle teste, certamente non intendevo trasformare queste facce in qualche stereotipo di guerriero africano. Ciò che mi interessava era come i soggetti guardavano in camera, come la luce del sole colpiva i loro visi, come la scala dei visi era piuttosto piccola […]. Lo ha detto anche Simone de Beauvoir. Questa qualità di guardare a cose terribili e di scrivere o pensare a esse; non puoi farlo se non prendi qualche distanza»(32)

Prendere distanza, però, non significa non prendere posizione. Nessuna forma di “escapism” è ammessa e per questo la poetica di Dumas non può essere annoverata nel mondo del magico o del fantastico. Ha ripetuto spesso una tipologia di ritratto con sguardo in macchina, senza elementi che distraggano sullo sfondo, spesso modulata in maniera da ricordare una foto solarizzata o i primi piani di un regista crudo come Theodor Dreyer. I volti sono al contempo maschere e rivelazioni, nell’ambito di una rivitalizzazione della nozione stessa di ritratto. 

Lo testimonia un ritratto frontale come Albino (1986): un nero albino guarda lo spettatore senza nessun orpello che ci possa distrarre. Collo e capelli sono ridotti al minimo. I lineamenti nuotano in un chiaroscuro monocromo blu, interrotto da qualche punta di rosa nelle labbra, nelle iridi e in ciò che si vede di un orecchio. È evidente che il problema toccato è quello dell’anomalia genetica, che non cancella l’appartenenza razziale ma anzi duplica il disagio che essa genera e crea una mostruosità. Eseguito quasi trent’anni dopo, The Neighbour (2005) mostra un viso quasi solo giocato sui toni del marrone, con qualche punta di giallo e una zona bluastra, nell’assertività di una posa che chiama in causa l’etnia dello spettatore. 
I visi che Dumas ritrae sono quelli del nostro presente e di uno spazio polirazziale che include anche i migranti. Li troviamo nelle serie di ritratti in cui i volti, ciascuno su di un foglio di carta differente, vengono disposti in una griglia che ricorda le tassonomie poliziesche. Appartengono a questa sensibilità i Portrait Heads nati dai primi anni Novanta, tra cui Black Drawings (1991-1992), Models (1994), con i sottogruppi Rejects (1994 - a oggi), Chlorosis (1994), Jesus Serene (1994) e Underground (1994-1995) fino agli Young Men (2002-2005); questi ultimi sono particolarmente interessanti perché ritraggono immigrati di varie provenienze, dal Marocco al Medio Oriente, che gli europei tendono a confondere nonostante differenze abissali che i soggetti avvertono tra di loro. Nelle parole dell’artista: «Tu, il tipo Mediterraneo la fisiognomica del Latin Lover. L’arabo sullo scooter bianco. Il giovane amante, il rapper, il fratello palestinese. E le figlie olandesi si innamorano. E i loro padri entrano in confusione. E li definiscono tutti turchi marocchini»(33). L’occhio di chi accoglie con diffidenza l’immigrazione extraeuropea confonde e offende al contempo, e di fatto sovente rigetta. 

Si potrebbe accostare questa freddezza della presenza a certi provini in bianco e nero a cui Andy Warhol sottoponeva gli amici della Factory, eseguiti con mezzi che semplificano l’immagine come la macchina per fototessera, la polaroid, la cinepresa portapak. Correndo con lo sguardo più all’indietro, potremmo addirittura chiamare in causa i fotografi che hanno cercato di mappare l’apparenza degli uomini comuni. Primo tra tutti August Sander, che pagò con una censura violenta il solo fatto di avere voluto rappresentare le Faces of Our Time (dal titolo del suo libro uscito nel 1929), nell’ambito di un progetto che doveva descrivere i volti del XX secolo.

Models (1994); Eindhoven, Van Abbemuseum.


Black Drawings (1991-1992); Tilburg, De Pont Museum.

Ebbe poi intenti simili, documentari e non sentimentali, la famosissima mostra The Family of Man, curata da Edward Steichen al Museum of Modern Art di New York nel 1955, che girò per il mondo durante otto anni. Marlene Dumas può essere vista come rappresentante di una tipologia di intellettuale che, pur non appartenendo a simili epoche, non usando le stesse tecniche e non avendo in comune delle teorie, è accomunata dal volersi fare “testimone”(34) dei modi in cui è dato esistere. 

Non sarebbe appropriato, però, non cogliere anche la “pietas” che l’artista immette nei suoi quadri. Il viso è l’“altro” nel senso dato da Emmanuel Levinas a questa espressione, cioè colui che a tutta prima ci offende e che vorremmo addirittura uccidere ma in cui, poi, finiamo per identificarci. E in particolare con la pelle, la superficie visibile del suo viso, «che è ciò che resta più nudo, più destituito […] minacciato»(35).. Trattando alcuni di questi momenti, l’emotività con cui tendiamo a rispondere può diventare addirittura parossistica. La presenza classificatoria dei volti di Marlene Dumas, dal sapore tagliente, ci fa trovare anche «davanti al dolore degli altri», nella speranza che un’immagine possa comunicarlo meglio di una fotografia non modificata(36): ciò che rende forti queste opere è che mescolano ed esaltano l’immaginario condiviso di varie epoche, che si è stratificato in secoli di storia dell’arte ed è nato ben prima della fotografia, facendole in effetti da guida. 

Rejects (1994 - a oggi).


Rejects (1994 - a oggi).

30 È evidente il riferimento allo scritto più famoso di Hannah Arendt e quindi il sostrato politico-storico della serie a cui il dipinto appartiene, intitolata The Eyes of the Night Creatures. A essa fa capo anche Albino che si menzionerà più avanti. Il catalogo della mostra nella galleria di Paul Andriesse (1985) ha un breve testo del gallerista stesso. 
31 Y. Hasegawa, Interview with Marlene Dumas, in Marlene Dumas: Broken White, Tokyo, Metropolitan Museum of Contemporary Art, Tokyo 2008, p. 151. 
32 Dal dialogo con Barbara Bloom in: D. van den Boogerd, B. Bloom, M. Casadio, I. Bonacossa, op. cit., pp. 7-29; 26-28. 
33 M. Dumas, Respect! Forms & Community, Contemporary Art from the Netherlands, Marrakech 2005. 
34 Cfr. C. H. Butler, Painter as Witness, in Marlene Dumas: Measuring Your Own Grave, cit., p. 45. 
35 E. Levinas, Ethics and Infinity, Conversations with Philippe Nemo, Pittsburgh 1985, p. 86. 
36 Cfr. i dubbi espressi dalla potenza comunicativa della sola fotografia, anche la più drammatica, derivante dai luoghi di guerra, in: S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Milano 2021.

MARLENE DUMAS
MARLENE DUMAS
Angela Vettese
Marlene Dumas (Città del Capo 1953) è tra le più influenti artiste contemporanee.Nata in Sudafrica, si è formata e poi definitivamente trasferita in Olanda. Si esprime con la pittura e il disegno, con molta parsimonia di segni e colore. Sembra muoversi nell’ambito dell’espressionismo, anche se in modo decisamente personale. I temi toccati dalla sua arte spaziano dalla sessualità alla violenza, dal razzismo all’Africa, esprimono il desiderio e la sofferenza, in una dimensione ambigua e provocatoria. L’ambito dei suoi soggetti è circoscritto alla figura umana, trattata in termini essenziali, spesso nuda e violentata, con linee pulite e sobrie che raggiungono però effetti emotivi fortemente coinvolgenti.