LE DONNE DEL MITO 

Le due «poesie» ovidiane (23) con Diana e Atteone e Diana e Callisto vanno sempre insieme nella corrispondenza di Tiziano con Filippo II, dall’annuncio del completamento in data 19 giugno 1559 («l’una de Diana al fonte sopragiunta da Atheone, l’altra di Calisto pregna di Giove spogliata al fonte per commandamento di Diana dalle sue ninfe») (24) a quello della spedizione il 22 settembre (con l’importante precisazione «confesso esser tre anni, e più, che li ho cominciati») (25) e ad altre lettere successive in cui il pittore chiede e ottiene, con molto ritardo, di esser rassicurato del gradimento del sovrano.

Vanno insieme nella composizione, per un gioco insistito di rimandi e simmetrie che corrisponde evidentemente a una strettissima unità di contenuti. E sempre insieme sono andate nella loro storia successiva, dalla collezione del duca di Sutherland al lunghissimo deposito nella National Gallery of Scotland a Edimburgo, fino alla recente “comproprietà” tra questa e la National Gallery di Londra che ha scongiurato il pericolo della loro separazione. 

Atteone appare nelle Metamorfosi (III, 138-252) come un professionista dell’attività venatoria, tanto che ora ha battuto monti e selve con grande compagnia di uomini e cani prima di concedere a sé e agli altri la sosta serale: la caccia è stata abbondante («Compagni, grondano di sangue ferino le reti e le armi, e la giornata ha portato gran fortuna»). Ma, forse non ancora pago, Atteone continua tuttavia a « vagare con passi incerti per l’ignota selva», finché “il fato” lo conduce al sacro boschetto e alla limpida fonte dove Diana e le sue ninfe, nude, si stanno bagnando. 


Qui entra Tiziano. Atteone, ancora armato e accompagnato da un cane, lascia cadere l’arco in terra e apre le braccia in un gesto di sorpresa e di paura, perché subito prevede e comprende l’imminente disgrazia, e la vede rappresentata e annunciata nello sguardo minaccioso di Diana e nel teschio di cervo sul rustico pilastro. Tra le ninfe c’è chi protesta, chi si copre, chi si ritrae, chi si nasconde e chi non s’è ancora accorta di nulla; c’è la cagnetta ringhiosa che reagisce all’intrusione nella “privacy”; mentre la dea non sembra aver troppa fretta di coprirsi - nonostante lo zelo della cosiddetta “ancella nera” - perché ha già stabilito che quel mortale, penetrato indebitamente nel suo spazio riservato, non potrà raccontare a nessuno d’aver visto senza veli la dea vergine e le vergini ninfe. Tiziano, a questo punto, si ferma: non rappresenta Diana che trasforma Atteone in cervo spruzzandogli addosso un po’ d’acqua dalla fonte; né il cacciatore imbestiato e sbranato dai suoi cani. Anche se al finale aveva già pensato, visto che lo annuncia insieme alle due «poesie» di Diana, se lo riserverà per tempi futuri, per quando sarà pronto un nuovo linguaggio, finalmente adeguato alla dimensione della tragedia. Per ora il momento fatale è quello della scelta, allorché Atteone, invece di fermarsi a riposare con i compagni, continua a “errare”, che significa vagare ma anche sbagliare. 


Diana e Callisto (1556-1559); Londra, National Gallery, in alternanza con Edimburgo, National Gallery of Scotland.

Ora compare il grande tema della fortuna (del caso, del fato, del destino), che Ovidio aveva annunciato già introducendo l’episodio proprio come “crimine di fortuna” (“fortunae crimen”) e non “delitto” (“scelus”), e che poi, come abbiamo visto, aveva sviluppato lungo tutto il racconto. Tiziano commenta la capricciosa mutevolezza della fortuna, imprevedibilmente buona o cattiva, con la fonte obliqua e instabile, e soprattutto con la doppia figura di Diana/Luna (la dea e la sua presunta “ancella”, in realtà chiaramente identificata dalla fascia a forma di crescente lunare che le attraversa le spalle), dunque bianca e nera, luminosa e oscura, manifesta e occulta. Con il personaggio di Diana fa il suo ingresso a pieno titolo nelle storie tizianesche un altro tema fondamentale: l’ingiustizia e la crudeltà degli dèi. 


Durante la caccia sicura e giocosa di Diana e del suo séguito, Callisto, una di quelle ninfe tenute al rispetto assoluto della castità, e anzi la prediletta della dea, si allontana dal gruppo fermandosi a riposare in un boschetto. Giove, come in tante altre occasioni, sfrutta a suo vantaggio la trasformazione presentandosi alla fanciulla sotto le sembianze di Diana stessa ed evitando in tal modo ogni sospetto: troppo tardi Callisto si rende conto dell’inganno. Qui, con Diana e Callisto, entra Tiziano. Nove mesi dopo, Diana giunge a un fresco ruscello e al solito propone a tutte di bagnarsi. Callisto tenta di sottrarsi, ma è spogliata a forza dalle compagne; scoperto il suo ventre rigonfio, la dea la scaccia senza alcuna pietà - «Vattene via di qui, e non sporcare le acque sacre». E qui Tiziano esce, dopo soli tredici versi (Metamorfosi, II, 453-465), trascurando il lungo e mirabolante seguito della vicenda, che non interessava a lui né interessa a noi. 


Ridotta la caccia a piacevole passatempo, innocuo perché e finché collettivo (ma rischioso appena la ninfa ne fa esperienza individuale e separata), il significato del dipinto è tutto nelle complementari dinamiche interne al branco di vergini elette e feroci: il gesto perentorio di Diana, doppiamente funzionale giacché possiamo intenderlo come ordine iniziale della spoliazione e/o segnale conclusivo dell’espulsione; l’efficiente brutalità delle tre colleghe impegnate a bloccare e scoprire la disgraziata ninfa che debolmente e inutilmente si dibatte; l’assoluta indifferenza delle altre, quali preoccupate soltanto di vezzeggiare la dea padrona, quali di prepararsi per la caccia, adeguatamente fornite di archi, frecce, giavellotti e cane. Tutte quante unite, comunque, a proteggere l’inviolabile assetto del clan, a ristabilirne l’armonica integrità, minacciata dalla trasgressione di una sola, con l’immediata emarginazione della “colpevole”, sebbene questa sia in realtà una vittima innocente.

Il branco delle vergini feroci è in piena azione. In evidenza quella in piedi di profilo, che tira via il manto bruno di Callisto, svela il suo ventre sformato e richiama su quel punto l’attenzione di un’altra, seminascosta e prona, che sta togliendo alla malcapitata uno dei calzari; un’altra ancora bada soltanto a tenerla ferma e blocca la mano alzata in un debole gesto di protesta e difesa; l’ultima, più all’interno, trattiene l’altro braccio della “colpevole” e intanto collabora a spogliarla della veste bianca, per poi volgersi a Diana, a chiedere assenso per sé e giudizio per la compagna disgraziata.


Diana e Atteone (1556-1559); Londra, National Gallery, in alternanza con Edimburgo, National Gallery of Scotland.

Come quella di Atteone, la storia di Callisto nell’interpretazione disarmonica di Tiziano introduce nella storia delle immagini una meditazione profonda e dolorosa sui grandi temi “moderni” del privilegio e del potere, anche se inevitabilmente mascherata da apologo sul capriccio e la violenza degli dèi degli antichi. 


Atteone, tramutato in cervo da Diana sorpresa al bagno, fugge, stupito che le sue gambe corrano tanto veloci. Solo quando vede il suo nuovo aspetto riflesso in uno specchio d’acqua capisce quel che è accaduto, poiché la sua mente è rimasta qual era. A questo punto i cani lo scorgono, lo inseguono, lo dilaniano. Atteone vorrebbe chiamarli, farsi riconoscere, ma ormai dalla sua bocca non possono più uscire parole (Metamorfosi, III, 198-241). 


Nella Morte di Atteone di Londra, il disgraziato cacciatore, còlto proprio nel mezzo dell’agghiacciante processo di imbestiamento, barcolla sotto l’assalto dei cani. È il momento del regresso dalla condizione umana alla condizione ferina, sottolineato in Ovidio dalla separazione tra coscienza e parola, e in Tiziano dalla natura duplice del protagonista, in parte uomo e in parte bestia. Nella straordinaria tessitura di quasi tutto il dipinto secondo un nuovo frantumato linguaggio, risalta la figura di Diana, regolarmente finita perché gli dèi, a differenza degli uomini, non perdono mai la loro integrità.


Diana e Atteone (1556-1559); Londra, National Gallery, in alternanza con Edimburgo, National Gallery of Scotland.

La presenza della dea che scocca un’ultima invisibile freccia - priva di ogni ragione narrativa dopo l’episodio del bagno e della metamorfosi - è puramente metaforica: dipende da una libera interpretazione sui due versi che concludono la vicenda nel testo ovidiano («e non fu saziata, si racconta, l’ira di Diana faretrata / se non quando per le tantissime ferite finì la sua vita»), che sottolinea la diretta responsabilità della dea nella terribile morte del cacciatore mostrandola nell’evidenza assoluta del gesto omicida. 


Tiziano aveva promesso a Filippo II fin dalla lettera del 19 giugno 1559 un «Atheone lacerato dai cani suoi», ma non glielo spedì mai. La Morte di Atteone, come l’allucinante Supplizio di Marsia per mano di Apollo scorticatore, è un dipinto degli anni estremi, privo di destinazione programmata o rintracciabile. Tiziano, che nei dipinti per Filippo non s’era mai soffermato sul finale del mito, ora interviene proprio sulla tragica conclusione e fornisce così la chiave ultima di interpretazione della sua lunga discussione sul rapporto tra dèi e uomini: un rapporto che ribalta il senso previsto dalla cultura umanistica, poiché conduce gli uomini non al raffinamento e all’elevazione ma all’imbestiamento e alla distruzione. 


Ratto di Europa (1559-1562); Boston, Isabella Stewart Gardner Museum.

Prima delle storie gemelle di Diana, prima delle svagate servette tramutate in rabbiose vendicatrici, prima della dea casta e assassina, c’erano Danae e Venere e Adone, con i morbidi corpi vantati dal pittore, o chi per lui, in una lettera astuta e fin troppo famosa inviata a Filippo nel 1554 («E perché la Danae, ch’io mandai già a Vostra Maestà, si vedeva tutta dalla parte dinanzi, ho voluto in questa altra poesia variare, e farle mostrare la contraria parte, acciò che riesca il camerino, dove hanno da stare, più gratioso alla vista»)(26): la disponibilissima fanciulla sdraiata sul letto stropicciato e promettente, la dea innamorata che mostra le cospicue terga mentre cerca di trattenere il ragazzotto fanatico ormai in partenza per la caccia. Giove è un fecondatore elegante e prezioso, dissimulato nella pioggia d’oro. L’unica violenza, ma non rappresentata, è quella della bestia zannuta e inferocita che cancellerà dal ventre di Adone ogni residuo di voluttà.


Dopo le storie gemelle di Diana, c’è il Ratto di Europa di Boston, promesso a Filippo II fin dalla lettera del 19 giugno 1559 (quella a proposito dei due quadri di Diana) e annunciato in spedizione il 26 aprile 1562(27). Europa, principessa di Tiro, è rapita da Giove in sembianze di toro candido e mansueto che se la porta via tra le acque (Metamorfosi, II, 836-875). Tiziano utilizza, come sempre, soltanto alcuni versi e alcuni dettagli delle fonti letterarie, adattandoli alle necessità dell’immagine: la mano che stringe il corno e l’altra che trattiene la veste scompigliata dal vento, lo sguardo rivolto all’indietro, le gambe ritratte dai flutti, la ghirlanda di foglie e fiori novelli posti dalla fanciulla a ornare le corna del toro. 


Ratto di Europa (1559-1562); Boston, Isabella Stewart Gardner Museum.

È una storia a lieto fine: la fanciulla darà inizio alla civiltà cretese e nome a un continente(28). Ma il lieto fine non sta e non può stare nel dipinto, dove c’è invece un’altra storia del totale dominio del dio sul(la) mortale. Il senso ultimo del dipinto è nel volgersi della fanciulla all’indietro, a cercare con rimpianto il lido già lontano, animato dagli inutili richiami delle compagne, perché il rapitore dissimulato che la trascina verso l’ignoto le ha sottratto d’un colpo l’umana dimensione dell’innocenza e della giovinezza. Non c’è alcuna violenza: quel che accadrà è figurato nei due Amori in volo, uno con l’arco, l’altro con due frecce incrociate quale simbolo di unione e la lunga fascia che allude al cinto virginale ovviamente “perduto”. Andromeda è offerta in sacrificio per placare il dio Nettuno, offeso dalla madre di lei, Cassiopea regina d’Etiopia, che s’era vantata d’esser più bella delle ninfe del mare. La fanciulla viene legata alla rupe, ma fortunatamente Perseo, di passaggio in volo coi suoi calzari alati, resta colpito dalla sua bellezza e scende accanto a lei proprio nel momento in cui appare un’enorme orca marina. Perseo si libra di nuovo nell’aria, poi cala a precipizio sul mostro. Inutilmente questo tenta di volgere le fauci, inutilmente si dibatte, s’immerge o si leva sulle acque: Perseo lo uccide con più colpi della sua spada ricurva. Andromeda, liberata dalle catene, convola festosamente a nozze col suo salvatore (Metamorfosi, IV, 663-752). Il Perseo e Andromeda della Wallace Collection di Londra, di datazione controversa ed esecuzione prolungata, diventò forse un pendant egualmente marino, ma crepuscolare, anzi quasi notturno, del luminosissimo Ratto di Europa(29), con lo stesso linguaggio “materico” nei motivi accessori di spume agitate e cieli striati, e in più i liberi artifici della positura e della complessione africana di Andromeda, del virtuosistico scorcio di Perseo in picchiata - macchie coloratissime di giallo e di rosso a spezzare il cupo cielo grigio-azzurro - e del fantastico tour-deforce del dragone agitato e rumoroso. Anche questa è una storia a lieto fine, col matrimonio, addirittura, tra salvatore e salvata. Ma di nuovo il lieto fine non sta e non può stare nel dipinto, che resta dominato dalla paura della fanciulla incatenata allo scoglio, sola alla mercé del mostro - perché ormai gli dèi non mandano che mostri - qualora l’eroe volante non riesca nell’impresa. Come le amiche abbandonate da Europa sull’assolata spiaggia fenicia, così i genitori e i parenti di Andromeda, lontani sul lido della buia città etiopica, sono spettatori impotenti di fronte all’arbitrio degli dèi.


Tarquinio e Lucrezia (1571); Cambridge, Fitzwilliam Museum.

Le mostre sulle donne di Tiziano hanno necessariamente fatto i conti anche con le precedenti mostre sulle «poesie» mitologiche, a Londra, Madrid e Boston, tra le quali solo l’ultima enunciava in titolo un progetto coerente: donne, mito e potere. Così, dovendo anch’io fare i miei conti dopo mezzo secolo di studio, sono tornato a ragionare proprio in questi termini su Ovidio, Tiziano e le loro donne speciali. Tiziano conosce bene le favole degli antichi e ha imparato a non fidarsi dei loro dèi, non solo della cinica Diana ma soprattutto di Giove, stupratore seriale e incorreggibile. Sa che Ovidio, sotto il velo delle favole, parla di ogni potere assoluto, per il presente e per il futuro. Conosce la distanza tra il tempo dei poeti antichi e il suo tempo, e capisce di doverne prendere la misura solo con le immagini, scegliendo nei testi quel che gli serve e nemmeno un verso di più. Narra di delitti inauditi senza indugiare più di tanto sulla violenza fisica, perché sa che la violenza insopportabile è quella mentale, quella della colpa, del castigo, della paura. Fanno eccezione, come già sappiamo, i dipinti con Atteone sbranato e Marsia scuoiato, che non prevedono donne brutalizzate e comunque non sono per Filippo: il sovrano spagnolo non avrebbe mai accettato che i prediletti corpi femminili apparissero sciupati. 


In assenza di una biografia vera - che racconti come era e non solo cosa faceva - sarà tuttavia il caso di concedere a Tiziano, sul lungo percorso, anche il privilegio della contraddizione, o il lusso dell’ambiguità. Poiché, come si sa, lo spazio è spesso tiranno, non mi soffermerò a narrare nei dettagli la storia notissima di Lucrezia romana, donna sposata di specchiate virtù oltre che di grande bellezza, violentata nottetempo da Tarquinio figlio del Superbo e poi, al mattino dopo, suicida per orgoglio e per onore dinanzi a padre e marito (Livio, Ab urbe condita, I, 57, 4-11, e 58, 1-12; ma soprattutto Ovidio, Fasti, II, 685-852). 


Nel dipinto di Cambridge con Tarquinio e Lucrezia, spedito a Filippo nel 1571(30), Tiziano sceglie il momento in cui Tarquinio afferra un braccio di Lucrezia e la minaccia da presso con un pugnale. Lucrezia, pur dibattendosi e cercando di respingere lo scellerato (per la verità con scarsa energia e convinzione, terrorizzata com’è dall’arma luccicante), non è certo la semplice e aggraziata giovane delle fonti ma una matrona dalle forme abbondanti, pressoché completamente nuda ma ben acconciata e ingioiellata, adagiata su un letto con molti materassi, molti cuscini, coltri e lenzuola disfatte. Lucrezia si presenta insomma come una donna ad alto ed esibito potenziale erotico, tale da provocare e giustificare, secondo inveterata ottica maschile, il “raptus” di Tarquinio(31). Non diversamente dalle «poesie» mitologiche per il sovrano, questo dipinto “storico” coniuga erotismo e violenza, mai prima d’ora così strettamente intrecciati. Tuttavia, Tiziano si ferma anche qui ben prima del doppio epilogo tragico di stupro e suicidio: non conoscendo la storia e le sue fonti, potremmo benevolmente immaginare che arrivi qualcuno a difesa di Lucrezia, o che Tarquinio, sorpreso dalla resistenza della donna, rinunci in extremis al crimine; o almeno chiederci, ingenuamente, come andrà a finire.


Tarquinio e Lucrezia (1572-1575); Vienna, Akademie der Bildenden Künste.

Se quello di Cambridge è il quadro della contraddizione e dell’ambiguità, il Tarquinio e Lucrezia di Vienna(32) è il quadro del risarcimento personale di Tiziano: “ripresa” impressionante perché ravvicinatissima, fantasmagoria di violenza, dolore e colore allo stato puro, allucinata visione tale da inventare una finitura alternativa, mai vista prima, che riduce la storia all’essenziale di pochi movimenti agitati, superbamente resi dal turbine commisto di bianco, ocra e vermiglio. Nella stanza suggerita soltanto dalla tenda e da un cuscino, il deciso e impassibile aggressore scatta in avanti, pronto a colpire col braccio armato di un pugnale sottile e acuminato. La giovane - priva di ornamenti ma con le chiome ben acconciate, e molto coperta rispetto alle altre versioni, anche se il seno è suggerito in trasparenza sotto la veste leggera - si contorce opponendo decisa resistenza, con la bocca serrata che non concede nemmeno un grido; ma sembra ormai barcollante, prossima a cadere verso l’esterno, tra le braccia protettive dello spettatore che abbia compreso la viltà del forte e il coraggio della debole, l’immoralità del vincitore e la suprema moralità della sconfitta. 


Questo linguaggio di macchie, spessori, vortici, sbavature e strisciature caratterizza in forma organica e costante alcuni capolavori - pochi, particolari, e rigorosamente senza destinatario - dell’ultima pittura di Tiziano: una pittura che di norma tutti abbiamo etichettato come non finita, sia pure con motivazioni distinte e spesso contrapposte, prima di capire che si tratta invece di una pittura infinita (e infinibile, illimitata) che continua implacabilmente a seguire il suo percorso di radicale indipendenza(33), rinunciando finanche all’invenzione a vantaggio del massimo caricamento dell’espressione e del massimo effetto di emozione sui temi della violenza, del dolore, della solitudine, della morte. 


Alla fine, la (cosiddetta) Ninfa e pastore di Vienna apre problemi ancora nuovi, che riguardano preliminarmente l’identificazione dei personaggi e la definizione del significato(34). D’accordo che è difficile abbandonare i titoli storicamente consolidati, ma è pur vero che “ninfa” e “pastore” finiscono sempre per scomodare poesia erotica, ecloghe e bucoliche, e naturalmente l’immancabile Arcadia/arcadia, come regione geografica, come riferimento letterario, come dimensione concettuale: tutte effettivamente proposte, e tutte disperatamente estranee a ogni riconoscibile momento poetico di Tiziano; ed è pur vero che non occorrono grandi competenze iconografiche per riconoscere Bacco e Arianna attraverso la pelle maculata di leopardo che fa da giaciglio a lei e finisce con la coda sulla spalla di lui, la corona di pampini sul capo e il flauto a becco nella mano di lui, il tipo di lei - diffusissimo per Arianna nella scultura antica - e il motivo del suo risveglio da un sonno pesante, di stremo e di dolore, per la virtù rigenerante del richiamo musicale e amoroso. 


Siamo allora - per interpretazione, al solito, e non per traduzione - ben dentro il racconto mitologico, dove Tiziano è facile incontrarlo. In questa immagine concettuale dal linguaggio disfatto, ancora carica di erotismo ma sommersa nella malinconia, Bacco e Arianna recuperano per un momento quel tanto di libertà dionisiaca che il pittore aveva concesso a se stesso e ai due amanti cinquanta anni prima (35); ma ormai lo sguardo profondo della donna, che plausibilmente vorrebbe volgersi al compagno, a metà del movimento si blocca a fissare lo spettatore, gli impedisce di sottrarsi all’appello, lo inchioda al rimpianto di un umanesimo che non c’è più.


Tarquinio e Lucrezia (1572-1575); Vienna, Akademie der Bildenden Künste.

Bacco e Arianna (1572-1575); Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie. Bacco e Arianna, ormai fuori dal mito, sono richiamati a un ultimo idillio – ma la musica si spegne, lo sguardo si interrompe. Il capro rampante bruca le foglie rimaste sull’unico ramo verde di un albero morente. Si annuncia un temporale di grigi sporcati da sbavature di rosa e di giallo. Un’epoca di grandi illusioni finisce nel dolore, mentre continua l’emozione infinita della pittura di Tiziano.

23 Sulle «poesie» di Tiziano: A. Gentili, Da Tiziano a Tiziano. Mito e allegoria nella cultura veneziana del Cinquecento, Roma 1996 (rist.), pp. 149-246. Poi le mostre recenti: Titian: Love, Desire, Death (Londra, National Gallery, ed Edimburgo, National Gallery of Scotland, 2020); Titian: Women, Myth and Power (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum); tutte con date condizionate dalle vicende della pandemia. 
24 M. Mancini, Tiziano e le corti d’Asburgo nei documenti degli archivi spagnoli, Venezia 1998, pp. 246-247, n. 129. 
25 Id., ivi, pp. 255-257, n. 135. 
26 Lettere di diversi eccellentissimi huomini, raccolte da L. Dolce, Venezia 1554, p. 232; Tiziano. L’epistolario, a cura di L. Puppi, Firenze 2012, p. 213, n. 177. 
27 M. Mancini, op. cit., p. 289, n. 170. 
28 Il più recente e completo riepilogo sul tema si deve a K. Hosono, Il Ratto di Europa di Tiziano: il significato politico e le fonti figurative, in “Venezia Cinquecento”, XIII/25, 2003, pp. 153-181. 
29 Come già suggerito da Panofsky, op. cit., pp. 166- 171. Tiziano aveva promesso a Filippo la «poesia» di Perseo e Andromeda fin dal 1554, ossia da quella famosa lettera in cui si dice della Danae e di Venere e Adone. La lettera prosegue così: «Tosto le manderò la poesia di Perseo e Andromeda, che havrà un’altra vista differente da queste». Fiduciosi in quel «tosto», e in altri indizi consistenti ma non risolutivi, la maggior parte degli studiosi suggeriscono per il dipinto della Wallace Collection (o almeno per il suo avvio) una datazione 1554-1556, intermedia tra Venere e Adone e i due quadri di Diana; altri sostengono invece che fu eseguito (o completato) diversi anni più tardi, diciamo al 1563-1565, che sembra ipotesi migliore per soggetto e linguaggio. 
30 M. Mancini, op. cit., pp. 366-367, n. 246. 
31 Per variabili analisi del tema di Lucrezia e delle sue versioni tizianesche: R. Goffen, op. cit., pp. 192- 212; F. Del Torre Scheuch, Heroines and Saints, in Titian’s Vision of Women. Beauty - Love - Poetry, cit., pp. 229-237. 
32 M. Fleischer, Tarquinio e Lucrezia, in L’ultimo Tiziano e la sensualità della pittura, catalogo della mostra (Venezia, Gallerie dell’Accademia, 26 gennaio-20 aprile 2008), Venezia 2008, pp. 224-226, n. 2.7. 
33 J. Koering, Titien sculpteur?, in “Venezia Cinquecento”, XVIII/36, 2008, pp. 177-196 (186-190). 
34 A. Gentili, Da Tiziano a Tiziano, cit., pp. 217-224; E. Oberthaler, Lo stile tardo di Tiziano alla luce della Ninfa e Pastore, in L’ultimo Tiziano, cit., pp. 113-123; W. Deiters, Ninfa e pastore, ivi, pp. 230-231, n. 2.9; Th. Dalla Costa, The “Poesie” and Loves of the Gods: Titian and After, in Titian’s Vision of Women. Beauty - Love - Poetry, cit., pp. 321-325. 
35 Nel Bacco e Arianna di Londra per Alfonso d’Este (1524-1525), col salto di Bacco dal suo carro a incontrare Arianna disperata sul lido e con la trasformazione conclusiva della fanciulla in smagliante corona di stelle: A. Gentili, Da Tiziano a Tiziano, cit., pp. 138-145. 

TIZIANO. LE DONNE
TIZIANO. LE DONNE
Augusto Gentili
Nella pittura veneta del Cinquecento l’immagine femminile è particolarmente presente, e con caratteri che la differenziano dal resto della produzione artistica europea del tempo.   Il nostro dossier indaga – oltre al contesto sociale della città – le implicazioni simboliche connessa alla figura femminilenella pittura di Tiziano, soprattutto – capace di interpretare una sorta di nuovo canone di bellezza –, ma anche in Giorgione e negli altri protagonisti della cultura del periodo. L’indagine è sulla rappresentazione del femminile come indizio di una mentalità, nel secoloin cui le prime artiste iniziano ad affacciarsi sulla scena pubblica con qualche successo.