UN COLORISMO SFRENATO‌

Ma allora, dobbiamo abbandonare sia Lotto sia Savoldo a un destino minore, estraneo alla modernità, almeno se ne prendiamo la nozione secondo la modalità piena cara a Vasari?

Non del tutto, perché a questo punto gioca le sue carte l’«intramontabile Bellini», come giustamente lo definisce Passamani, nel saggio introduttivo alla mostra più ricca e ultimativa che Brescia non ha mancato di dedicare a Savoldo, suo figlio. Vincenzo Foppa, in questo Longhi ha visto giusto, è senza dubbio un valido precedente, ma dal seno stesso della «seconda maniera» a imporsi su tutti, grazie anche a una straordinaria longevità, è stato Giovanni Bellini, che si è eretto a grande “influencer” di tutti i fatti di Venezia e dintorni, ponendosi anche come segno di contraddizione e di svolta. Prendiamo come campione in tale veste un dipinto esemplare dell’“ultimo” Bellini, per esempio la Pala di San Zaccaria, del 1505, conservata nella chiesa omonima di Venezia. E magari accostiamole per un confronto il frutto ugualmente riassuntivo del compagno di generazione Foppa, entrambi austeri nella solennità delle figure “stanti” dei santi, nello spiegamento di forme architettoniche chiamate a dare al tutto una degna cornice (Adorazione dei magi, Londra, National Gallery). Ma sappiamo bene come Giorgione è riuscito a interpretare, rifondere, rinnovare in modo splendidamente “moderno” (sempre nell’accezione di Vasari) la pala belliniana, dandoci la Pala di Castelfranco. Procede in questa direzione portando la Madonna e il Bambino, e i santi ai lati, coraggiosamente ridotti di numero, appena due, a uscir fuori dalla gabbia architettonica, ad affrontare, potremmo dire con termine alquanto anacronistico, il “plein air”, un’inondazione di luce. Il che implica che il paesaggio circostante venga sottratto a un compito di puro riempitivo per essere chiamato a un protagonismo diretto, alla pari con i personaggi umani. Anche il nostro Savoldo si abbevera a quella medesima fonte fornita da Bellini, ma in misure più tradizionali, più in linea con l’impostazione del maestro veneziano. E abbiamo così il suo dipinto forse più solenne e quasi istituzionale, la Madonna col Bambino in trono e il beato Benedetto XI Bocassino, i santi Nicola e Domenico, Tommaso, Girolamo e Liberale, di San Nicolò di Treviso.

Vincenzo Foppa, Adorazione dei magi (1500 circa); Londra, National Gallery.


Giorgione, Pala di Castelfranco (1503-1504); Castelfranco Veneto (Treviso), duomo

Per l’esecuzione dell’opera, commissionata per l’altar maggiore della chiesa trevigiana, la scelta dei frati domenicani era caduta su un loro confratello, fra Marco Pensaben, pittore di scuola belliniana che, per motivi ignoti, abbandonò improvvisamente il lavoro a uno stadio tuttora sconosciuto, ma che doveva contemplare con ogni probabilità l’impostazione compositiva. Questa appare infatti ancora tardo quattrocentesca per la disposizione delle figure e per la cornice architettonica. Una volta passata la commissione a Savoldo, l’artista bresciano completò l’opera occupandosi quasi certamente di tutta l’esecuzione pittorica, compresi il rifacimento delle parti già dipinte per rendere omogeneo lo stile dell’insieme e, in parte, la modifica di alcune figure, come per esempio la Vergine e l’angelo musicante.


Lorenzo Lotto, Madonna col Bambino e santi (1505 circa); Edimburgo, National Gallery of Scotland.
Come si vede, la scena, seguendo l’esempio dei padri, Bellini stesso e anche Foppa, torna a essere affollata, senza il coraggio giorgionesco di sfoltire il numero dei santi. E siamo pure in presenza di una mezza misura, tra il sostare in un interno solenne e invece lo spingersi a prendere aria al di fuori. Anche in Lotto potremmo trovare esiti di uguale natura, di cauto rispetto della lezione belliniana. Però, a questo punto dovremmo concludere con giudizio alquanto negativo a danno di entrambi questi artisti, troppo ligi nel seguire le orme dei dominatori della seconda maniera, mentre si mostrano incapaci di fare un balzo in avanti. Ma sia Lotto che Savoldo hanno intuito che in tal modo rimanevano chiusi dentro un destino minore e ripetitivo, conveniva trovare una qualche via d’uscita, di riconquistata originalità. Parlando di Lorenzo Lotto in un mio saggio, ne ho messo in rilievo le mosse dinamiche ed esuberanti che conferisce ai suoi personaggi, in tal modo sottraendoli al parallelismo rigido e impacciato che è proprio delle soluzioni arcaizzanti. Si veda per esempio la Madonna col Bambino e santi, Edimburgo, National Gallery, dove il pargolo sembra voler sgusciare via dall’abbraccio della madre, fino a disegnare col corpo di lei un angolo retto, obbligandola a sua volta, per ristabilire l’equilibrio, a spostare il proprio busto in direzione contraria. Così la scena acquista dinamismo, e in genere un tratto stilistico di questa natura trova conferma anche in altri dipinti di Lotto, qua e là le varie figure fanno impennate, movimenti sghembi, guizzanti. Savoldo invece sceglie una strategia di natura del tutto diversa, pur inseguendo un medesimo scopo di uscir fuori da schemi ripetitivi e di vecchio stampo. 

Si tratta di una soluzione cromatica eccezionale, consistente nell’applicare, soprattutto alle vesti, ai panni, alle tonache dei suoi personaggi, dei colori accesi, quasi di “cattivo gusto”, verrebbe la tentazione di sollevare a questo proposito, nonostante l’anacronismo, lo spettro del kitsch, o comunque di una illuminazione, ottenuta, sempre correndo in avanti, con luci fosforescenti, degne della propaganda pubblicitaria dei nostri giorni, con relativo cangiantismo, con mutazione ritmica delle gamme cromatiche, ma purché siano sempre tenute sopra le righe, a un passo dal cattivo gusto. Trovo di nuovo nelle parole di Passamani un’ottima caratterizzazione di queste straordinarie soluzioni coloristiche, quando parla di «timbro acciaio negli azzurri, nei verdi, nei rossi, degno di un pittore di vetrate o di smalti o di tavole fiamminghe». Meglio non si poteva dire, per tutte queste soluzioni, che in definitiva intendono fornire un compenso rispetto all’adozione supina dei modelli belliniani. Ma, come si vede, sono aspetti che conducono indietro, ben lontano dal “lume naturale” che invece è la grande conquista giorgionesca, poi da lui trasmessa a Tiziano, e giustamente inserita dal Vasari nei parametri di una «maniera moderna» propriamente intesa. Mentre la modernità di Savoldo è raggiunta, per così dire, sfruttando mezzi impropri. Ma non per nulla quando il Vasari nella seconda edizione delle Vite si degnerà di riservare un posticino al pittore bresciano, coglierà a volo proprio questo suo aspetto singolare, assieme alla pratica dei notturni, che rientra nella medesima serie di effetti, fuori dal “naturale”, dal verosimile. Conviene riportare le poche parole che l’aretino riserva al nostro artista, tra il consenso e la limitazione, riconoscendogli «quadri di notte e di fuoco, belli, e sono altre cose di simili fantasie, delle quali era maestro».


Giorgione, La tempesta (1502-1503 circa); Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Per un primo incontro coi dipinti di Savoldo improntati allo sfruttamento di “effetti speciali”, potremmo partire dal Profeta Elia, Washington, National Gallery of Art, in cui la figura del profeta mostra tutti i segni di un certo arcaismo, per quel suo appallottolarsi al centro del dipinto, ben stretto negli abiti che lo cingono, lo stringono. Ma a riscattarne l’aspetto che in sé sarebbe ritardato, interviene appunto la colorazione, audace, perfino stridente, col rosa ciclamino della cappa e l’azzurro pervinca della tunica. Retrogradi, invece, sono gli squarci paesistici che intravediamo alle spalle della figura, tali comunque da porsi a grande distanza da un Giorgione, che in quel torno di tempo era stato capace di darci La tempesta. Ma in definitiva il nostro artista doveva essere ben consapevole che in quel colorismo artificioso stava il suo asso nella manica, la carta migliore a sua disposizione da sfruttare fino in fondo, e dunque tanto vale che ci portiamo subito alle dimostrazioni più significative di questa sua consapevolezza, consistenti nella serie delle Maddalene, o come altro la tradizione abbia voluto intitolare quelle figure femminili che ci si presentano erette per tre quarti, e pronte a sciorinare vesti marezzate, luccicanti, emananti bagliori e riflessi. L’artista era tanto convinto del carattere dominante di quella sua prestazione, da darcene varie repliche. Forse la capostipite è quella che si conserva a Berlino, Gemäldegalerie, ma ci sono le repliche conformi che si trovano a Firenze, Pitti, a Londra, National Gallery, e pure in collezioni private. In realtà, solo alcune di queste sono repliche per intero, l’astuzia del nostro autore si è servita di questo corpo femminile come di un manichino cui far indossare abiti diversi, purché tutti contrassegnati da questo artificioso splendore serico, pronto anche a mutare, da un esemplare all’altro, come se il regista, al modo reso possibile solo ai nostri giorni, proiettasse sull’ingombro della persona un fiotto di luci diverse, dal dorato all’argenteo, facendo uso di ogni risorsa della scala cromatica, nel rispetto di un’unica condizione: che comunque si trattasse di un bagno cromatico fuori dal naturale, tale da suscitare meraviglia. Sempre permettendoci qualche pur indebito anacronismo, vengono in mente le variazioni cromatiche con cui un artista dei nostri giorni, Andy Warhol, ha rilanciato le foto standard di personaggi famosi, riscattandone appunto la stereotipia. Dopotutto, con l’una o l’altra di queste sue Maddalene, Savoldo si iscrive poderosamente in un canone della pittura italiana, da cui non potrebbe essere rimosso. E in genere queste sciabolate di luminosità stridente, magari chiamate a ravvivare degli sfondi altrimenti alquanto sordidi e abbrunati, è una caratteristica che in genere non lo abbandona, la si ritrova in ogni suo dipinto, quasi come firma autografa.

Maria Maddalena (1535-1540 circa); Berlino, Gemäldegalerie.


Maria Maddalena (1535-1540 circa); Londra, National Gallery. 


Maria Maddalena (1535-1540 circa); Firenze, Gallerie degli Uffizi, collezione Contini Bonacossi.

SAVOLDO
SAVOLDO
Renato Barilli
Giovanni Girolamo Savoldo completa, con il Romanino e il Moretto, la triade degli innovatori della pittura lombarda del primo Cinquecento. La sua formazione è emiliana e toscana, studia in ambito manierista, ma trova il contesto migliore per la sua pittura a Venezia attorno al 1520, in un momento di forte presenza di suggestioni fiammingo-germaniche e giorgionesche. Questa commistione di influenze determina il suo stile molto personale, costruito su una base disegnativa nitida, una grande attenzione al dettaglio e un gusto tutto veneto per la resa atmosferica: uno stile applicato a soggetti molto vari, dal ritratto alla pala d’altare, con una predilezione per i notturni.