UNA DIVERSA‌
«MANIERA MODERNA»

Giovanni Girolamo Savoldo si può considerare il secondo per importanza, dopo Lorenzo Lotto, di una sorta di «maniera moderna» relativa ad alcune province dell’Italia del Nord Est, tra Bergamo e Brescia, con un punto di riferimento su Venezia, che però costituiva una meta controversa e non del tutto accogliente nei loro confronti.

Parlare di maniera moderna per questi artisti (oltre a Lotto e a Savoldo ci possono stare pure Pordenone, Romanino, Moretto, su su fino a Moroni) è alquanto improprio. Se si considera che l’etichetta di «maniera moderna» è forse la maggiore conquista di quel vero e proprio fenomenologo degli stili che può essere considerato Giorgio Vasari, tutti questi nomi non vi trovano posto, almeno nella prima edizione delle Vite, uscita nel 1550, comparendo solo nella più tarda, del 1568, ma in genere meno pregiata perché stesa dal grande aretino con assai minore convinzione, e proprio per recuperare, ma “obtorto collo”, alcuni personaggi cui non aveva dato ricetto nell’edizione precedente, senza però che credesse molto in loro. E infatti, quasi tutti i nomi elencati sopra compaiono, in questa seconda rassegna, ma per cenni in genere brevi e non proprio entusiasti. Il cuore di Vasari batteva per gli eccezionali protagonisti di quella che per lui era l’unica vera «maniera moderna», aperta dal duo Leonardo Michelangelo, che si erano sfidati a Firenze in Palazzo vecchio, in quella che è stata detta quasi per antonomasia la “scuola del mondo”, e che ha innescato poi, se si guarda verso Roma, il grande Raffaello, mentre proprio a Venezia si era svolto l’asse eccezionale da Giorgione a Tiziano. E nella partita ci sarebbe da inserire anche il più eccentrico, dal punto di vista geografico, Correggio a Parma. Rispetto a questa pienamente autorizzata, eccellente, trionfale «maniera moderna» che cosa distingueva, in meno, l’altra che comunque possiamo pure attribuire agli artisti di estrazione lombarda sopra nominati? Senza dubbio, questi si trascinavano dietro tracce di arcaismo, come andremo a verificare nella lettura diretta dei loro dipinti, il che portava a una certa rigidità delle figure e a un qualche impaccio nel dar loro una piena mobilità. Venivano anche mantenuti confini ben definiti tra le figure e gli sfondi, mancava insomma il raggiungimento di quella perfetta sintesi tra figure e ambiente in cui consiste il tonalismo dell’asse veneziano Giorgione Tiziano, ovvero la capacità di stemperare i contorni a contatto con l’atmosfera e di graduare i colori in base al fattore del distanziarsi dei corpi e dell’aprirsi appunto agli effetti dell’aria.

Lorenzo Lotto, Pala di Santo Spirito (1521); Bergamo, Santo Spirito.


Moretto, Madonna in trono col Bambino tra i santi Giacomo maggiore e Girolamo (1517 circa); Atlanta, High Museum of Art.

Il grande rivendicatore della validità di questa particolare maniera moderna di specie lombarda è stato, come si sa, Roberto Longhi, che le ha assegnato una senza dubbio giusta paternità in Vincenzo Foppa, un protagonista, per valerci ancora una volta delle indicazioni stilistiche così precise di Vasari, appartenente alla «seconda maniera», dei nati attorno al quarto decennio del Quattrocento, nel che Vincenzo Foppa è un compagno di banco degli altrettanto grandi Andrea Mantegna e Giovanni Bellini, dotato come loro del vantaggio biologico di una lunga esistenza, fino a congiungersi quasi con le prime mosse di Savoldo e compagni. E senza dubbio, nel rivendicare a vantaggio di questa squadra l’attitudine a un certo precisionismo, al fare attenzione ai dati quotidiani, a un procedere dimesso e prosaico, il riferimento è accettabile. Conviene però aggiungere anche la vicinanza a un “moderno” d’oltre frontiera, al grande Albrecht Dürer, che invece rimase sempre indigesto proprio al nostro Vasari, pronto a giocare sul nome, a italianizzarlo in Duro, ma per farci intendere che dura era anche la sua arte, cioè del tutto priva della capacità di fondersi con l’atmosfera, il che appunto si ripete con Savoldo e compagni. Del resto, una certa prevenzione verso il “moderno” di marca tedesca è stata pure alimentata da Roberto Longhi, che tutto sommato preferiva vedere questi campioni d’arte lombarda come eredi di un filone autoctono, con origine nel padre Foppa, e magari apporti, ricevuti lungo la strada, da Bergognone, da Zenale e da altri ancora. Ma la lezione che Roberto Longhi non si è mai stancato di impartire fin dai suoi primi studi giovanili, affidati addirittura alla tesi di laurea, e via via a tanti incalzanti contributi ulteriori, dal mio punto di vista ostica e inaccettabile, è di aver visto in tutto questo fronte taluni aspetti che portano alla nascita dell’arte strepitosa e rivoluzionaria di Caravaggio, venuto quasi a un secolo di distanza.

Non consentono di legittimare una eredità del genere proprio i pesanti arcaismi residui che in Savoldo e compagni, attraverso la lettura che segue, sarò costretto a indicare. Peseranno, a impedire la ragionevolezza del preteso influsso, proprio quegli aspetti su cui ho già insistito, il dissidio tra l’immobilità delle figure e i paesaggi di sfondo, questi in genere redatti di maniera, con evidenti influssi dai tedeschi e dai fiamminghi. Nulla di tutto ciò troveremmo in Merisi, che però, inutile dirlo, se appunto gli togliamo la scala di accesso che gli sarebbe fornita dalla coorte lombarda, resterebbe a pesare come un irrisolto mistero storiografico: da chi, trasferendosi da Milano a Roma, è stato ispirato nel concepire capolavori quali i Musici, il Bacchino malato, e soprattutto il grandioso Riposo nella fuga in Egitto? Dipinti che decisamente trascendono nella loro forza e intensità gli esiti più lenti, più compromessi col passato regime, dei presunti padri spirituali che l’impostazione longhiana non si è mai stancata di attribuirgli.


Ma, dopo questo primo approccio, assumiamo un passo più analitico, magari cominciando dall’inizio, per quanto non privo di problemi e di quesiti. Al nostro Savoldo si attribuisce una nascita nel 1480, col che sarebbe coetaneo di Lorenzo Lotto, ma c’è pure la tendenza a spostarlo un po’ più avanti negli anni, così ristabilendo il rapporto gerarchico col primo. Gli inizi sono incerti, con assenza di lavori indicativi, il che del resto è un dato che poi lo accompagna per tutta l’esistenza. Gli si attribuiscono non più di una cinquantina di dipinti, in un’epoca in cui gli artisti, considerati anche alla stregua di solerti e assidui artigiani, lavoravano sodo. 


Sant’Antonio abate e san Paolo eremita (1520 circa); Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Tentazioni di sant’Antonio (1515-1518 circa); San Diego, Timken Art Gallery.


Cristo morto con Giuseppe d’Arimatea (1525 circa); Cleveland, Cleveland Museum of Art.

A spiegazione di un simile catalogo ridotto si è anche pensato che Savoldo fosse di origine gentilizia, il che gli avrebbe conferito un’aria quasi dilettantesca, di chi non si butta in senso univoco nel mestiere, avendo forse da amministrare anche dei beni di famiglia. Però, a contrasto con una simile formazione a rilento, emerge dai dati biografici una circostanza ben diversa, che cioè nel 1508 si sarebbe recato a Firenze iscrivendosi pure nella corporazione dei medici e speziali, quasi che il giovane alle prime armi volesse procurarsi una patente solida e riconosciuta nella pratica del suo mestiere. Ma la sua presenza nel capoluogo toscano non cancella assolutamente la barriera tra lui e l’autentica maniera moderna vasariana. Sicuramente egli non ha approfittato di quel soggiorno per assistere all’impresa dei due giganti, Leonardo e Michelangelo che, come si è già detto, si sfidano in Palazzo vecchio, dando luogo alla cosiddetta Scuola del mondo, così avanzata che sembra quasi che gli dèi abbiano voluto punire tanto ardimento, tanto progresso, cancellando per varie vie gli elaborati di entrambi.


Ma a sollievo parziale del nostro Savoldo dobbiamo dire che nella medesima situazione si era trovato anche Raffaello, giunto pure lui a Firenze, eppure, se guardiamo un suo tipico frutto di quegli anni, il Cristo deposto della Galleria Borghese, non vi si scorge appieno il linguaggio avanzatissimo dei due protagonisti della Scuola del mondo. In quel momento, come Savoldo, pure Raffaello è ancora prigioniero della seconda maniera, con corpi rigidi nell’anatomia, impacciati, alquanto duri. Evidentemente egli ha elaborato i suggerimenti ricevuti dalla coppia fondatrice del moderno proprio nel momento, il 1508, del passaggio da Firenze a Roma. Ma naturalmente la splendida maturazione che porta Raffaello a realizzare le Stanze vaticane non avviene nel suo quasi coetaneo bresciano, peraltro del tutto vicino a lui, in quegli anni fiorentini, se consideriamo dipinti affini nel tema, due Compianti sul Cristo morto, conservati rispettivamente a Vienna, Kunsthistorisches Museum, e a Berkeley, University Art Museum. Sono corpi che sembrano lignei, squadernati come su un tavolo di dissezione anatomica, non lontani dall’esemplare più noto della categoria, quello steso a suo tempo da Mantegna. Vale pure la pena di ricordare un cenno che ci giunge dai biografi, a conferma che quella sua presenza, nel primo decennio del nuovo secolo nella Città del giglio, non fu del tutto inosservata. Pare che vi fosse stato notato addirittura da Michelangelo, per farsene un possibile allievo, ma poi quella possibilità rientrò, come era giusto, dato che Savoldo in quella fase non era in grado di fare il grande passo avanti verso una piena adesione alla «maniera moderna». Come del resto non lo fu neppure quella specie di fratello maggiore che aveva in Lotto, attratto direttamente dal richiamo di Roma e delle Stanze vaticane, dove però dette scarsa prova di sé, e dovette riparare proprio nella provincia lombarda, scegliendo Bergamo come patria adottiva.

SAVOLDO
SAVOLDO
Renato Barilli
Giovanni Girolamo Savoldo completa, con il Romanino e il Moretto, la triade degli innovatori della pittura lombarda del primo Cinquecento. La sua formazione è emiliana e toscana, studia in ambito manierista, ma trova il contesto migliore per la sua pittura a Venezia attorno al 1520, in un momento di forte presenza di suggestioni fiammingo-germaniche e giorgionesche. Questa commistione di influenze determina il suo stile molto personale, costruito su una base disegnativa nitida, una grande attenzione al dettaglio e un gusto tutto veneto per la resa atmosferica: uno stile applicato a soggetti molto vari, dal ritratto alla pala d’altare, con una predilezione per i notturni.