L’occhio infallibile del pittore indaga da presso l’epidermide del vecchio frate, rilevando le rughe della fronte e la folta barba tramata di riflessi luminosi con esiti di impressionante verità ottica: ancora una volta preannunciando Caravaggio, Rubens, Velázquez. Il dipinto è per molti versi analogo al Ritratto di un fratello laico entro finta cornice (1557 circa): simile l’impostazione di tre quarti con taglio all’altezza delle spalle, analoga l’idea dello sguardo assorto volto a sinistra che rifugge il dialogo con l’osservatore. L’illusionismo dell’immagine, oltre che per le qualità tattili del colore, steso con pennellate dense come nella Lucrezia Agliardi, è rafforzato dal trompe l’oeil della falsa cornice lignea, che proietta il corpo dell’effigiato in uno spazio doppiamente fittizio.
Tra i ritratti di uomini di Chiesa si segnala quello del bergamasco Giovan Crisostomo Zanchi, forse eseguito in occasione della nomina (1559) a generale dell’ordine dei canonici lateranensi. Poeta e linguista di fama, autore di un popolare dizionario delle Sacre scritture, il religioso è colto con un’espressione di eccezionale verità psicologica, valorizzata dall’acuto naturalismo dei dettagli: gli occhi velati di stanchezza, la pelle arrossata, la corta barba appena brizzolata. Il punto di ripresa ravvicinato e lo sfondo disadorno esaltano il gioco dei bianchi e dei neri nell’abito e nel cappello e i rimbalzi della luce spiovente da sinistra sullo zigomo, la fronte e il naso.
Gli è prossimo il probabile ritratto del fratello Basilio, anch’egli canonico lateranense, uomo dottissimo, autore di versi e opere di grammatica e commentari biblici, noto anche per le accuse di eresia di cui fu vittima e che gli costarono due volte l’arresto: per ordine prima di papa Paolo IV quindi di Pio V. Se l’impostazione di spalla e a mezza figura è quella di altri analoghi ritratti, indimenticabile è la vivacità dello sguardo in tralice puntato sull’osservatore, che ha l’immediatezza di un’istantanea. Nonostante l’accenno di sorriso, l’espressione è di malinconico disincanto.
L’imponente demolizione di chiese, case e palazzi iniziata nel 1561 per erigere la nuova cinta muraria rappresentò per Bergamo un gravissimo trauma. Fu un atto di forza con cui Venezia ottenne un duplice obiettivo: rafforzare le difese di una città baluardo posta ai confini occidentali della Repubblica, riaffermare il proprio dominio sulla fazione filoimperiale dell’aristocrazia locale. Contestualmente la feroce faida (1563) che contrappose due tra le più influenti famiglie della città gli Albani e i Brembati finì per disperdere quella cerchia di committenti colti che più di altri avevano contribuito all’affermazione di Moroni in città. La fortuna del pittore iniziò a declinare anche a causa dei nuovi orientamenti della Curia in materia di arte sacra, che lo esclusero dalle commissioni più importanti, precludendogli anche i favori di gran parte dell’aristocrazia locale. Tra gli esiti ultimi di questa fortunata stagione va annoverato il Cavaliere in nero (1567 circa), mirabilmente accordato sulle tonalità cupe e profonde dei velluti dell’abito, dei grigi della parete e del rosa del pavimento. Nel clima di progressivo isolamento, al grande pittore non resterà che ritirarsi nella natìa Albino, dove darà inizio all’ultima, comunque straordinaria fase della carriera.