Anche le sculture a figura intera come Children of a Dead King (2010), ricoperte di madreperla, coralli, spugne e conchiglie, possono essere accostate a Enea, Anchise e Ascanio (1618-1619) di Gian Lorenzo Bernini, per le espressioni contrite e sofferenti dei loro volti di giovani incatenati, simili a quella di Enea, che fugge da Troia portando con sé la sua famiglia. Ancora più calzante il confronto tra la Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice (1804- 1808) di Antonio Canova e la Reclining Woman (2012), che sembra quasi ispirata al capolavoro neoclassico.
Con la sua mostra Hirst riesce a trasformare l’intero museo in una preziosa “Wunderkammer” dove la fantasia si mescola con la realtà: una messa in scena barocca che trasforma l’illusione in fascinazione, in un gioco tra marmo e corallo, stucco e malachite, pietre dure e bronzo, passato e presente. Una narrazione complessa e illusoria costruita sul filo rosso del collezionismo, scaturita dal cortocircuito tra Barocco e contemporaneo come un labirinto descritto da Jorge Luis Borges, che potrebbe avere come punto di partenza questa frase di Friedrich Schlegel: «Molte opere degli antichi sono diventate frammenti. Molte opere dei moderni lo sono già al loro nascere».
Con questa operazione Damien Hirst ingloba nel suo racconto la stessa Galleria Borghese e il suo ambizioso e ossessionato fondatore, per proiettarla nel presente attraverso le tele del ciclo Colour Space Paintings eseguite nel 2016. Queste opere, più libere e meno schematiche dei famosi Spot Paintings , «infrangono l’idea di un’immagine unificata, fluttuano nello spazio, scontrandosi e fondendosi l’uno nell’altro, con un senso di movimento che contraddice la stasi della tela», spiega Codognato. Nel loro andamento caotico e liquido, ricordano «cellule al microscopio », afferma l’artista, che sottolinea la natura più vicina a elementi umani proprio per la loro casualità, visibile in un’opera come Purple Lagoon (2016). «Nei Colour Space», aggiunge il curatore, «le macchie energiche della pittura a smalto alludono a un movimento tremolante; placche terrestri che scivolano lentamente l’una sull’altra. La struttura formale dei colori è in un dialogo aperto e fluttuante, in un’effusione di stimoli cromatici e materici, ricostruendo pittoricamente una viscosità sensuale. Il campo di colore sulla tela possiede un’energia magmatica, carnosa, ipnotica, irresistibile».
Una messa in scena barocca che trasforma l'illusione in fascinazione, in un gioco tra marmo e corallo, stucco e malachite, pietre dure e bronzo
Ma le sorprese non finiscono qui: la conclusione di
Archaeology Now è un “coup de théâtre” nel giardino segreto dell’Uccelliera, dove troneggia il gruppo scultoreo
Hydra and Kali (2015). Se nel videodocumentario della mostra veneziana le due divinità mostruose erano impegnate in un terribile duello sul fondo dell’oceano Indiano, ora si presentano davanti alle aiuole di Villa Borghese, protagoniste di un combattimento impossibile nella realtà ma auspicabile nel paludoso e ambiguo territorio della post-verità. Del resto, è lo stesso Damien Hirst a metterci in guardia su quanto sia labile il confine tra vero e falso con una frase lapidaria: «Credo che quello che ci fa credere nelle cose non è quello che sono, ma quello che non sono». Probabilmente sia Cif Amotan che Scipione Borghese sarebbero d’accordo.