Innocenzo X nel dipinto di Velázquez non ha corpo. La mantellina rossa non poggia su niente, la veste bianca è una sorta di nuvola di trine che potrebbe anche coprire nulla, in contrasto con la compattezza del rosso cupo che domina tutto il quadro, che si fa sempre più intenso e cupo escludendo completamente ogni altra cosa. Nel quadro c’è soltanto Innocenzo X, o meglio c’è il suo sguardo obliquo, la sua bocca, che forse sta schiudendosi in una smorfia, come se tutto il resto, il mondo intero fosse assorbito e disegnato o annientato da quel volto. In questo corpo negato, in quegli occhi e in quella bocca, c’è solo potere, c’è solo la crudeltà del potere. Nella mano sinistra, tra il pollice e l’indice, tiene un foglio piegato. È questo che ha fatto nascere quello sguardo che non ha luce e che si dirige verso destra? Ma neanche a destra pare ci sia qualcuno, e la parete rossa chiude lo spazio e conclude il quadro sulla solitudine del papa. Ma se non c’è nessuno dove guarda Innocenzo X? Non è certo uno sguardo che si perda nell’infinito il suo, o che manifesti meditazione o preghiera. Manifesta solo potere, la determinazione al potere che ha reso irrilevante il suo stesso corpo e che nega qualsiasi debolezza o fragilità che le spalle leggermente curve avrebbero potuto suggerire.
Velázquez aveva una grande famigliarità con il potere. Era il pittore di corte di Filippo IV, il re di Spagna, che regnava su vari paesi in un impero che mai era stato tanto esteso. Eppure non c’è ritratto di Filippo IV che manifesti la stessa assoluta concentrazione di potere come la figura di Innocenzo X. Tutt’al più penserei alle Meninas, in cui Velázquez ha confinato il re e la regina nel riflesso di uno specchio opaco, e ha rappresentato se stesso di fianco a una grande tela con il pennello in mano, lo strumento del suo potere. Ma torniamo a Innocenzo. La bocca, che in un primo momento appare serrata, si schiude appena in un angolo a destra, come a destra guardano anche i suoi occhi. Bacon si è messo di fronte a questa immagine. Pare che non abbia mai visto direttamente questo quadro, che non l’abbia voluto vedere, forse perché ne era inquietato o forse perché si sentiva in piena sfida con Velázquez. Si è messo di fronte a questa immagine, a quella bocca, a quella fessura tra le labbra nell’angolo destro, e ha dilatato quella fessura, ha spalancato quella bocca. Ha aperto così una voragine, il buco nero che può inghiottire il mondo intero. Nel quadro di Velázquez Innocenzo dominava il mondo, o lo rendeva irrilevante. In Bacon l’angoscia e l’orrore del potere si manifestano come apocalisse, come la rivelazione di una fine che sta iniziando, che è già iniziata.
C’è un’orribile seduzione in quella bocca nera e spalancata. C’è qualcosa che attrae in quell’orrore, in quella figura che porta con sé l’annientamento, e anche nella sfigurazione a cui Bacon ha sottoposto il suo antico antagonista, Velázquez. Bacon cerca di trascinare nella catastrofe anche la storia dell’arte, e in particolare Velázquez che ne era un dei più illustri rappresentanti. L’uno e l’altro però - Velázquez e Bacon - si guardano da lontano. Necessari e indispensabili l’uno all’altro. E ci guardano, anche per noi indispensabili.
Defigurazioni. Sfigurazioni. L’io moderno, l’io in cui coabitano, come già aveva scritto Valéry, tutte le contraddizioni. Un io scarnificato, come in Giacometti, un io che si dà in immagini sfigurate, dilabrate. Da Manet agli anni quaranta e cinquanta del XX secolo, in cui si è spento il furore delle avanguardie storiche, il passo è meno lungo di quanto si pensi. Esiste un paradosso della forma. Sembra a che ad essa non si possa sfuggire. È il conflitto tra la forma e l’informe.
Come ha scritto Lukács nel 1910 introducendo L’anima e le forme, si procede sempre attraverso figure. Anche il mistico propone e scopre attraverso immagini e figure il suo mondo, quel mondo che pare invece essere “al di là di ogni forma”. Anche “l’infiguratività dei mistici” dunque è essa stessa una forma. Pensiamo a Quadrato bianco su sfondo bianco di Kasimir Malevich. Non c’è qui assenza di figura e di forma, anzi, non a caso, questo quadro è stato letto come una icona, come uno sguardo proteso al divino: come una pienezza, una forma conclusa e perfetta. Secondo Lukács, il significato è il “riflesso di un bagliore che sta al di là delle immagini, ma che filtra attraverso ognuna di esse”. La forma dunque è destinata a comprendere tutto, e a risolvere tutto in sé, l’esperienza e ciò che va oltre ogni esperienza. Come ha detto George Steiner in Grammatiche della creazione, essa porta con sé anche l’informe da cui ha preso le mosse.
Intorno alla metà del secolo scorso si realizza una rottura rispetto alla tradizione pittorica e anche alla tradizione della modernità. E anche alle ipotesi critico-estetiche di Lukács. Lucio Fontana: il taglio sulla tela, immedicabile. Dietro il taglio c’è il nero, ciò che non ha e non può avere figura. Questo taglio ha un parallelo letterario e filosofico in Georges Bataille che in Madame Edwarda parla della fenditura del sesso di Edwarda come di un’apertura assoluta, un’apertura nella carne che conduce ad uno sprofondamento abissale. Sono, il taglio di Fontana e il sesso descritto da Bataille, ferite metafisiche. Non di una metafisica che aspira platonicamente a un “mondo sopra il mondo”, ma piuttosto a una verità che si iscrive nella superficie del mondo, in ciò che è e appare e che ci è prossimo, che, proprio per questo, ci conduce a una incognita profondità.
Il nesso tra Fontana e Bataille può sembrare improprio, ma in realtà illumina ciò che la defigurazione permette di cogliere. Ancora una volta attraverso la carne, che ci rinvia a Francis Bacon. Infatti, dietro il taglio di Fontana come dietro le immagini di Bacon, c’è, come si è detto, la carne. Alexandre Kojève, commentando in un mitico seminario alla Sorbona a Parigi tra il 1933 e il 1939 frequentato da Bataille e praticamente da tutti gli intellettuali parigini, la Fenomenologia dello spirito di Hegel, ha parlato dell’uomo come di “morte incarnata”. La morte che si fa carne, carne morente, che vive dentro l’uomo, che è l’uomo. La morte incarnata rinvia al Bue appeso (o Bue squartato) di Rembrandt, che ne fa una sorta di un pala d’altare, come ha capito Bacon che fa di questa stessa carne una crocifissione. Arrivare fino alla carne, colpirla non è dunque soltanto ferire un corpo, è penetrare nella morte che questa carne chiude dentro di sé.
Accanto a Fontana e a Bacon, Alberto Giacometti. E poi la scarnificazione del linguaggio di Samuel Beckett, che si spinge fino alla polverizzazione delle parole in Antonin Artaud e Paul Celan.
Sentire modernamente. Van Gogh viaggiando nella notte, di novembre, su un carretto aperto, sente nel buio, al di là dei cigolii delle ruote del carro nel fango del sentiero, in mezzo al canto dei galli che si leva ovunque nella brughiera, “cadere le foglie gialle” dai pioppi esili al di là della strada. Boccioni in una nota dei suoi Diari nel 1910 scrive che ci sono pochi quadri, ma evidentemente qualcuno c’è, “che esprimono modernamente (nel senso più assoluto) il cadere di una foglia.”
Autoritratto. Vergogna di sé. La vergogna fa parte del piacere, soprattutto nel piacere dell’autoesibizione. La vergogna esibita, un perverso piacere mentale, può insinuarsi nella drammatica nudità dell’Autoritratto nudo del 1505 di Dürer, in molte pagine di Montaigne, nelle lancinanti immagini degli autoritratti di Schiele. Ma c’è un oltre la vergogna, come ostensione e come piacere: un luogo in cui le parole piacere e vergogna non hanno più senso. È qui che Rembrandt deposita sul suo viso, sugli occhi che gli si fanno opachi e vitrei, i segni della morte che sente avvicinarsi a lui, che entra a far parte del suo orizzonte di vita, che segna ogni cosa su cui egli posa lo sguardo. È l’atto chenotico della Masturbazione (1911) di Egon Schiele, che si svuota non solo del suo sperma, ma della vita stessa, mentre la testa si reclina sulla spalla in una stanchezza immedicabile e irrimediabile.
Ritratti e autoritratti e paesaggi. Michel Tournier ha scritto che “l’autoritratto può prendere la forma di una confessione e di una accusa dell’artista di fronte alla società del suo tempo: quel giorno là, ero così solo, così abbandonato da tutti, che avevo da dipingere un solo volto umano, il mio [...]. Così sono gli autoritratti della vecchiaia di Rembrandt e tutti quelli di Vincent Van Gogh”. Artaud forse ne converrebbe, ma l’autoritrattro vero di Van Gogh, che Artaud ci ha proposto è il Campo di grano con volo di corvi. Un paesaggio può essere un volto, il proprio stesso volto. Un volto può essere un paesaggio, e le rughe e le pieghe che lo solcano possono essere i sentieri che si aprono come nel campo di grano di Van Gogh. Ho detto in questo stesso libro che le molte montagne Sainte Victoire che Cézanne ha dipinto, potrebbero essere una sequenza di autoritratti dal 1885 al 1906, l’anno della sua morte. Di contro si potrebbe pensare che i numerosi autoritratti di Van Gogh e di Rembrandt siano una esplorazione del mondo. Paesaggi.
L’Olympia di Franz Kafka. C’è un’immagine che custodisce un segreto. È un’immagine che compare in un testo già di per sé misterioso ed enigmatico, La metamorfosi di Franz Kafka. Nelle opere di Kafka raramente appaiono immagini pittoriche, o comunque di arte visiva, e non fanno eccezione, a mio giudizio, le opere autistiche di Titorelli ne Il processo. Dunque Gregor Samsa, il protagonista della Metamorfosi, si sveglia una mattina trasformato “in un enorme e mostruoso insetto”. Si chiede cosa gli sia successo, si guarda intorno come per riappropriarsi di se stesso attraverso un luogo abituale, e la prima cosa che vede, appeso al muro sopra il tavolo su cui stanno impacchettate le stoffe del suo campionario (Samsa era un commesso viaggiatore), “un ritratto che poco prima egli aveva ritagliato da una rivista illustrata e sistemato in una bella, dorata cornice”. Cosa rappresenta per Samsa questo ritratto, ritagliato da una rivista, ma collocato in una cornice dorata, in piena vista? Il quadro, perché a questo punto non possiamo che dare questa definizione, “raffigurava una signora, provvista di cappello e di pelliccia e di un boa di pelliccia, che sedeva eretta levando verso l’osservatore un manicotto di pelliccia nel quale era scomparso l’intero avambraccio”. Il riferimento a quest’opera tornerà dopo poche pagine quando la madre, per giustificare il figlio di fronte al procuratore della ditta che era venuto a chiedere ragione del suo ritardo, afferma che Gregor è ligio, serio. Passa le sere a leggere il giornale e a leggere gli orari dei treni. E poi si dedica a lavori di traforo. “Ad esempio, in due o tre sere ha intagliato una piccola cornice. La stupirà vedere quanto è graziosa: è appesa lì dentro, nella camera, la vedrà subito quando Gregor aprirà”.
Apprendiamo dunque che la cornice dorata è opera dello stesso Gregor, che ha provveduto, come scopriremo, a coprire con un vetro l’immagine, che è comunque di piccole dimensioni, come era già da arguire dal fatto che si tratta di un’immagine ritagliata da una rivista. Apprendiamo anche che questa immagine è in piena vista (“la vedrà subiro quando Gregor aprirà”). L’immagine torna ancora una volta quando Gregor vuole difendere lo spazio, in cui vive ormai da insetto, dalla sorella che, con tutte le buone intenzioni, per rendergli più agevole il movimento vuole svuotare la stanza, meno il divano sotto il quale Gregor riparava per nascondersi alla vista di chi entrava. Gregor cambia più volte direzione muovendosi di qua e di là disperatamente. Non sa cosa salvare per prima cosa, “finché vide appeso alla parete per il resto già vuota, il ritratto della signora tutta vestita di pelliccia”. Non pensa di salvare, appesa alla parte di fronte, la sua stessa fotografia, che lo ritraeva sorridente in divisa da sottotenente, con la mano alla spada. Ciò che deve essere salvato è la signora, e come viene sottolineato, la “signora tutta vestita di pelliccia”. Così sale sulla parete, strisciando, “e si strinse al vetro”. Gregor ora lo copriva interamente “e nessuno l’avrebbe portato via di sicuro”. È stretto al vetro, con il “ventre rovente”, che “era saldamente incollato” ad esso tanto che, alla fine, “dovette staccarsene con la forza”.
La signora tutta in pelliccia è l’ultimo brandello di umanità che gli è rimasta? Ma l’animalizzazione di Gregor non è mai completa. Arriverà ad affrettare la sua fine proprio per la voglia di ascoltare la sorella che suona il violino, per il desiderio di poterla ancora mandare in conservatorio. Quando anche questo gli mancherà si lascerà morire, e non sarà certo salvato dalla signora in pelliccia.