a margine.
micrologie

Non considero “saggi” nel senso tradizionale del termine gli scritti che seguono; parlerei piuttosto di “approssimazioni” [...]. Vorrei sottolineare il fatto che nessuno di questi lavori esaurisce il proprio soggetto, ma riesce al massimo ad approssimarsi ad esso. 
Imre Kertész 

Vita e morte le pronuncio con una nota in calce, con un asterisco... 
Marina Cvetaeva
fuori testo. Margini.1 Abbiamo uno straordinario ritratto di Empedocle dipinto da Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto a lato del giudizio universale. Empedocle emerge da un buio cratere rotondo. Si protende all’indietro con il gomito sinistro appoggiato all’orlo del cratere per sostenere il peso del corpo nella tensione dello sguardo verso il fuori. La mano destra è sollevata, aperta all’altezza del volto. Da una sorta di rosso turbante, trattenuto sul capo da una fascia bianca, scendono dei riccioli biondi fin sulle spalle coperte da una giubba color oro. Un ciuffo esce dal turbante sulla fronte, parallelamente alle dita della mano aperta: l’indice e il medio tesi, l’anulare e il mignolo leggermente flessi. Vediamo il suo volto di mezzo profilo. Gli occhi sono aperti, e un sorriso apre il suo viso a ciò che egli vede. Sui libri di storia dell’arte leggiamo: “Empedocle si sporge a guardare il finimondo”. I libri di storia dell’arte sono ingannevoli. Se seguiamo la direzione del suo sguardo vediamo ciò che egli vede. Non è il finimondo. Capri, ippogrifi, delfini, strani animali alati, cavalieri, che si intrecciano in uno straordinario arabesco su uno sfondo dorato. La scena, al bordo inferiore del cratere, si fa ancora più ricca: la fenice, divinità paniche e dionisiache, e metamorfosi che mescolano l’umano al naturale, e il mondo cosiddetto reale al mondo immaginale. Empedocle, nel ritratto di Signorelli, guarda fuori del quadro, fuori della pagina: atopos, desituato, forse persino felice

Marina Cvetaeva in una poesia scritta nel 1927 per la morte di Rainer Maria Rilke scrive, ad un certo punto, “Vita e morte le pronuncio con una nota in calce, / con un asterisco...” Fuori testo, fuori dalla pagina. Ciò che è più importante, a margine. 

L’impensabile. Theodor W. Adorno nella Dialettica negativa, afferma che l’orrore di Auschwitz, ha spezzato al pensiero metafisico speculativo “la base della sua compatibilità con l’esperienza”. L’esperienza non è solo indicibile, ma è anche impensabile. Impensabile diventa il senso di ciò che c’è e che attraversa le nostre esistenze. Forse il senso delle cose e del mondo potrebbe ridiventare dicibile se venisse “realizzato ciò che è pensato nel suo segno”. L’arte, continua Adorno, “ne anticipa qualcosa”. Egli pensa qui a Friedrich Nietzsche, “l’artista pensante [che] comprendeva l’arte impensata”. È vero che il pensiero che non si arrende all’insensato, vale a dire alla dominante assenza di senso di ciò che è puramente esistente, sembra destinato alla follia. Eppure di questa follia non è possibile fare a meno perché non trionfi appunto l’insensato. La follia diventa allora “la verità nella forma in cui gli uomini ne vengono colpiti”. È la verità dell’arte che è comunque apparenza, ma che appunto “riceve la sua irresistibilità da ciò che non ha apparenza”, da ciò che ora è nascosto, da ciò che è ora impensabile, da ciò che per questo ci appare come follia: da ciò che è enigma e segreto. Adorno a questo punto si rivolge a Samuel Beckett e a quella particolare forma gnostica che Beckett mette in atto nella sua opera, in cui “affiora l’immaginario del nulla come un qualcosa che la sua poesia trattiene”. La sua negazione del mondo creato apre alla “possibilità di un altro non ancora esistente”. 

La responsabilità artistica. L’arte rifiuta la conciliazione tra oggetto e rappresentazione, tra parola ed esperienza, spingendosi all’estremo, oltre il limite. “La dignità dell’arte”, scrive Adorno a proposito di Beckett in Note per la letteratura, “oggi non si misura sul fatto che sfugga felicemente o con abilità a quelle antinomie, ma sul fatto che le sappia portare a compimento”. In una parola che sappia far diventare senso anche l’assenza di senso. Le opere di Lucio Fontana, di Mark Rothko, di Samuel Beckett testimoniano di una responsabilità dell’artista anche di fronte alla crisi delle parole e delle immagini. Anche l’afasia va testimoniata, anche il silenzio deve trovare la forma in cui esprimersi recuperando la tensione con le parole ormai usurate, ma soprattutto con le parole che ora sembrano solo possibili. L’arte si dà infatti come compito di mostrare che accanto al mondo che c’è, al mondo precipitato nell’indicibile di Auschwitz, è immaginabile un mondo possibile anche attraverso la negazione di ciò che c’è e che appare inesorabilmente nella sua evidenza. Se il taglio di Fontana, l’impenetrabile cortina di Rothko, il balbettio di Beckett negano il mondo e le parole usuali che lo dicono, nell’apparenza delle loro opere affiora appunto l’ipotesi di un altro mondo, di una realtà che cerca di riarticolarsi e di dirsi. 

 
Una nuova responsabilità per l’arte dunque, che può mettersi in tensione con il pensiero speculativo aprendo lo spazio in cui anche questo possa nuovamente muoversi, ritrovare un suo rapporto con l’esperienza, assumersi una nuova responsabilità nei confronti del senso del mondo, nei confronti del presente. 

 
Lo sfarinamento del tempo. Il “tempo scardinato” è un’ossessione del barocco. Ma anche oggi, l’ossessione temporale è straziante. Il soggetto è in gioco in questa ossessione di un tempo che si sfarina tra le mani. Un tempo che si consuma è anche nelle pratiche artistiche. Il gesto artistico sembra riflettere lo sgretolamento del tempo, ed è anch’esso sempre più un atto che si consuma: il suo tempo è sempre un tempo che finisce, che finisce subito. Per esempio, delle performance di cui si possono registrare solo le tracce attraverso segni - video, fotografia - che non appartengono più alla performance stessa: sono un altro linguaggio, un’altra cosa. Un linguaggio dunque che già nel suo apparire invita alla metamorfosi, o al suo nulla, se il performer - come di fatto è accaduto - proibisce di fotografare e filmare le sue performances. In questo modo non ne sopravvive altra traccia, se non quella soggettiva della memoria dello spettatore. Una memoria che la scompone e la ricompone, o la sfrangia o, infine, la condanna all’oblio. Sullo sfondo di questi linguaggi sembra dunque riapparire la manifestazione di qualcosa che vibra su un confine e che spingendosi contro e oltre il confine manifesta la precarietà, la caducità delle cose del mondo. Manifesta drammaticamente la possibilità del nulla. 

L’arte non deve essere edificante. Il pensiero trova la sua consistenza - e questo già da Platone - sullo sfondo della polis, sullo sfondo della comunità politica, ovvero di quel Zwischen-den-Menschen su cui tanto ha insistito Hannah Arendt. Il pensiero trova dunque le sue ragioni di fronte alla politica: i soggetti e le persone. Perché, allora, Adorno ha indicato Beckett come l’autore più significativo dell’epoca dopo Auschwitz dal momento che egli sembra così irrimediabilmente remoto dalla dimensione politica? 

 
Oggi ci sono tante facoltà di arti in cui vediamo giovani impegnati in tesi di laurea in cui prescrivono all’arte compiti direttamente politici: ambiente, emarginazione, coinvolgimento.

 
A me pare che questo sia un equivoco che ci riporta ai vecchi dibattiti sull’arte impegnata. L’arte si muove - anche al di là dei vincoli che frenano la speculazione filosofica - non per “insegnare” ma per cercare. Già Aristotele riconosceva all’arte il diritto all’alogon, all’illogico. Infatti l’arte si muove in un territorio che sta tra le istanze soggettive e quelle propriamente concettuali. Non esiste un’arte senza pensiero, così come non esiste un’arte che si riduca a una dimensione concettuale. Qual è allora il compito dell’arte? Potremmo dire che il suo compito è di dare figura a ciò che non ha espressione. Con Georges Bataille, potremmo dire che il suo compito è rendere visibile l’invisibile, pensabile l’impensabile. Più ancora - e qui è il luogo di Beckett - di testimoniare il mondo, ma anche la distruzione delle parole che parlano il mondo, di testimoniare dunque anche l’afasia. L’arte non salverà il mondo. Questo lo aveva capito già Dmitrij Karamazov. Non rende buono il malvagio e giusto l’ingiusto. Non convincerà il tiranno alla democrazia. Il suo punto di resistenza contro le forze distruttive sta nella responsabilità dell’artista nei confronti della sua opera, del senso che la sua opera esprime. 

Elogio dell’ombra. Paul Celan. C’è una poesia di Celan che amo molto, che ho più volte citata, e che mi pare dire molto di quanto cerco io stesso di dire. Anche qui, in questo libro e per questo la riprongo. 

Parla anche tu,
parla per ultimo,
di’ la tua parola.

Parla - 
Ma non dividere il No da Sì.
Da’ alla tua parola anche il senso:
Dalle l’ombra. 


Dalle ombra abbastanza,
dagliene tanta,
quanta tu sai ripartita intorno a te tra
mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte.

Guarda attorno:
vedi come essa diventa viva in giro -
Presso la morte! Viva!
Dice verità chi dice ombra. 

Acqua. David Hokney. L’acqua mobile che con il suo moto trasforma le cose, anche le ossa, come ha detto Shakespeare, “in qualcosa di ricco e di strano”. L’acqua a cui tutto si mescola intorbidandosi. Ma è proprio dall’acqua intorbidata dallo sperma di Crono che, come sapevano Pico della Mirandola e Botticelli, nasce Afrodite, la dea della bellezza. E poi l’acqua come specchio, a partire dal mito orfico di Narciso che ha attraversato tutto l’occidente e la sua storia. 

Specchio. Il mito orfico di Narciso riporta al mito orfico di Dioniso Zagreus, il Dioniso che mentre gioca con pupattole si guarda allo specchio e proprio in quel momento viene dilaniato dai Titani. Come in Balthus e le sue bimbe giocattolo che si guardano allo specchio in attesa della violenza che incombe su di loro pronta a dilaniarle. Dioniso nel mito si salva: il suo corpo dilaniato viene ricomposto da Zeus. Anche Orfeo si salva, e persino Narciso si salva nei Sonetti a Orfeo di Rilke. Non c’è invece salvezza negli specchi di Balthus. Forse non c’è salvezza in nessuno degli specchi dell’arte contemporanea. È come se il mito si fosse trasportato fino a noi per cambiare di segno, e quando un mito cambia di segno vuol dire che siamo in un tornante d’epoca. Ed ecco che lo specchio diventa trasparente nel Grande vetro di Marcel Duchamp, ma al di là di esso non vediamo nulla. In esso vediamo solo cose scarnificate della loro ombra. Vediamo la nostra incapacità di fecondare la femme mariée. Lo specchio diventa cieco in Fresh Widow, sempre di Duchamp. Si svuota delle sue immagini, come in Francis Bacon. O si frantuma e ci rinvia un’identità frammentata e incomponibile, come in Michelangelo Pistoletto. E dietro lo specchio? Forse al di là dello specchio oggi scorgiamo le bambole infrante di Cindy Sherman, le sfigurazioni di Marlene Dumas.
Specchio e finestra.
C’è nel Rijksmuseum di Amsterdam un quadro forse di Frans Hals che per un piccolo particolare è rimasto in modo inquietante dentro la mia memoria. Si tratta di un interno: una tavola, delle persone, un convito. Sulla tavola ci sono le solite cose, tra cui una coppa di peltro. Su quella coppa è riflessa una finestra, e nel minuscolo riflesso di quella finestra scorgiamo la natura che sta fuori della casa. Ciò che è inquietante in questo dipinto è che non appena scorgiamo la finestra, non appena vediamo il riflesso della natura esterna, tutto l’ambiente, uomini e cose, si irrigidisce come in una natura morta: come se la natura, esclusa, avesse la forza di penetrare ovunque, in una lama di una luce riflessa, e di pietrificare ogni cosa con il suo sguardo di Medusa. La finestra, dall’inizio, nella storia delle rappresentazioni visive, fino a Edward Hopper, fino ai nostri giorni, è sempre stata il simbolo di una scissione tra il fuori e il dentro: del doppio sguardo, il nostro, che guarda il mondo, e quello delle cose che ci ri-guardano, che restituiscono il nostro sguardo. Lo sguardo della natura è uno sguardo terribile, perché appunto, come ha detto Eraclito, la “natura ama nascondersi”, perché mai potremo penetrare a fondo i suoi segreti. 
Imago mortis. Camere da letto. Schiele.Una stanza vuota. La stanza dell’artista a Nuelengbach (La mia camera, 1911), la camera dell’assente, come la stanza di Arles di Van Gogh. A Neulengbach è con lui Wally Neuzil, a cui egli si lega in un rapporto di erotismo estremo. Eppure la stanza che è davanti a noi non è abitata da Wally. È vuota, inesorabilmente vuota. I colori ocra, viola, marrone, nero si immobilizzano e trasformano l’oscillazione luminosa e terribile della stanza di Arles di Van Gogh - che è stata certamente il modello di riferimento per questo dipinto -, in una sorta di cella claustrale presa in un istante in cui le cose che la abitano sembrano pietrificarsi in un arresto che le trattiene per sempre sull’orlo della vita da cui sembrano appena uscite. 

Ma la stanza è solo apparentemente vuota. Egon Schiele è dentro questo mondo immoto. Si è ritratto in esso per ben per tre volte, come nel Triplo autoritratto sempre del 1911. Sul bordo in basso del quadro, perfettamente in centro, in uno spazio vuoto, tra il rosso di una sedia e il viola e giallo di un tappeto leggiamo per tre volte: 


EGON SCHIELE 1911 


Il suo nome è lì, che campeggia nel vuoto della stanza trasformata in un non-dove. Il suo corpo consunto è altrove. Lo ritroverà e lo ritrarrà altre volte, accanitamente. Perché questa disperazione immensa è anche un immenso interrogativo, su di sé e sul mondo. 

Morgue. I corpi morti di The Morgue di Andrès Serrano, la terribile serie di cibachromes presentati e pubblicati nel 1992 (Galerie Yvon Lambert, Parigi), sono visibili solo attraverso la violenta rappresentazione di un dettaglio, come se solo questo potesse dare in qualche modo ragione di esistenze reificate e infine pietrificate nello statuto di “cosa” nella morte. Il dettaglio rappresenta non la morte violenta quanto la violenza stessa della morte che è dentro la nostra stessa vita. Serrano ha detto, infatti, di voler rappresentare la vita e nella vita la morte. 
Il segreto del potere.3 Mi sono chiesto perché così spesso quando sono a Roma entro nella Galleria Doria Pamphilij anche per vedere un unico quadro, il ritratto del papa Innocenzo X dipinto nel 1650 da Diego Velázquez. Forse perché non c’è opera in cui sia raffigurato con altrettanta potenza la nudità e l’orrore del potere. Trecento anni dopo, nel 1953, - ma gli studi per questo quadro risalgono al 1950, e continuano per almeno un decennio -, Francis Bacon trasforma il ritratto di Velázquez in una immagine apocalittica, una delle più potenti immagini apocalittiche del Moderno, paragonabile a Finale di partita e a L’innominabile di Beckett, forse a Meridiano di sangue di Cormac Mc Carthy. 

Innocenzo X nel dipinto di Velázquez non ha corpo. La mantellina rossa non poggia su niente, la veste bianca è una sorta di nuvola di trine che potrebbe anche coprire nulla, in contrasto con la compattezza del rosso cupo che domina tutto il quadro, che si fa sempre più intenso e cupo escludendo completamente ogni altra cosa. Nel quadro c’è soltanto Innocenzo X, o meglio c’è il suo sguardo obliquo, la sua bocca, che forse sta schiudendosi in una smorfia, come se tutto il resto, il mondo intero fosse assorbito e disegnato o annientato da quel volto. In questo corpo negato, in quegli occhi e in quella bocca, c’è solo potere, c’è solo la crudeltà del potere. Nella mano sinistra, tra il pollice e l’indice, tiene un foglio piegato. È questo che ha fatto nascere quello sguardo che non ha luce e che si dirige verso destra? Ma neanche a destra pare ci sia qualcuno, e la parete rossa chiude lo spazio e conclude il quadro sulla solitudine del papa. Ma se non c’è nessuno dove guarda Innocenzo X? Non è certo uno sguardo che si perda nell’infinito il suo, o che manifesti meditazione o preghiera. Manifesta solo potere, la determinazione al potere che ha reso irrilevante il suo stesso corpo e che nega qualsiasi debolezza o fragilità che le spalle leggermente curve avrebbero potuto suggerire. 

 
Velázquez aveva una grande famigliarità con il potere. Era il pittore di corte di Filippo IV, il re di Spagna, che regnava su vari paesi in un impero che mai era stato tanto esteso. Eppure non c’è ritratto di Filippo IV che manifesti la stessa assoluta concentrazione di potere come la figura di Innocenzo X. Tutt’al più penserei alle Meninas, in cui Velázquez ha confinato il re e la regina nel riflesso di uno specchio opaco, e ha rappresentato se stesso di fianco a una grande tela con il pennello in mano, lo strumento del suo potere. Ma torniamo a Innocenzo. La bocca, che in un primo momento appare serrata, si schiude appena in un angolo a destra, come a destra guardano anche i suoi occhi. Bacon si è messo di fronte a questa immagine. Pare che non abbia mai visto direttamente questo quadro, che non l’abbia voluto vedere, forse perché ne era inquietato o forse perché si sentiva in piena sfida con Velázquez. Si è messo di fronte a questa immagine, a quella bocca, a quella fessura tra le labbra nell’angolo destro, e ha dilatato quella fessura, ha spalancato quella bocca. Ha aperto così una voragine, il buco nero che può inghiottire il mondo intero. Nel quadro di Velázquez Innocenzo dominava il mondo, o lo rendeva irrilevante. In Bacon l’angoscia e l’orrore del potere si manifestano come apocalisse, come la rivelazione di una fine che sta iniziando, che è già iniziata. 

 
C’è un’orribile seduzione in quella bocca nera e spalancata. C’è qualcosa che attrae in quell’orrore, in quella figura che porta con sé l’annientamento, e anche nella sfigurazione a cui Bacon ha sottoposto il suo antico antagonista, Velázquez. Bacon cerca di trascinare nella catastrofe anche la storia dell’arte, e in particolare Velázquez che ne era un dei più illustri rappresentanti. L’uno e l’altro però - Velázquez e Bacon - si guardano da lontano. Necessari e indispensabili l’uno all’altro. E ci guardano, anche per noi indispensabili. 

Defigurazioni. Sfigurazioni. L’io moderno, l’io in cui coabitano, come già aveva scritto Valéry, tutte le contraddizioni. Un io scarnificato, come in Giacometti, un io che si dà in immagini sfigurate, dilabrate. Da Manet agli anni quaranta e cinquanta del XX secolo, in cui si è spento il furore delle avanguardie storiche, il passo è meno lungo di quanto si pensi. Esiste un paradosso della forma. Sembra a che ad essa non si possa sfuggire. È il conflitto tra la forma e l’informe. 

 
Come ha scritto Lukács nel 1910 introducendo L’anima e le forme, si procede sempre attraverso figure. Anche il mistico propone e scopre attraverso immagini e figure il suo mondo, quel mondo che pare invece essere “al di là di ogni forma”. Anche “l’infiguratività dei mistici” dunque è essa stessa una forma. Pensiamo a Quadrato bianco su sfondo bianco di Kasimir Malevich. Non c’è qui assenza di figura e di forma, anzi, non a caso, questo quadro è stato letto come una icona, come uno sguardo proteso al divino: come una pienezza, una forma conclusa e perfetta. Secondo Lukács, il significato è il “riflesso di un bagliore che sta al di là delle immagini, ma che filtra attraverso ognuna di esse”. La forma dunque è destinata a comprendere tutto, e a risolvere tutto in sé, l’esperienza e ciò che va oltre ogni esperienza. Come ha detto George Steiner in Grammatiche della creazione, essa porta con sé anche l’informe da cui ha preso le mosse. 

 
Intorno alla metà del secolo scorso si realizza una rottura rispetto alla tradizione pittorica e anche alla tradizione della modernità. E anche alle ipotesi critico-estetiche di Lukács. Lucio Fontana: il taglio sulla tela, immedicabile. Dietro il taglio c’è il nero, ciò che non ha e non può avere figura. Questo taglio ha un parallelo letterario e filosofico in Georges Bataille che in Madame Edwarda parla della fenditura del sesso di Edwarda come di un’apertura assoluta, un’apertura nella carne che conduce ad uno sprofondamento abissale. Sono, il taglio di Fontana e il sesso descritto da Bataille, ferite metafisiche. Non di una metafisica che aspira platonicamente a un “mondo sopra il mondo”, ma piuttosto a una verità che si iscrive nella superficie del mondo, in ciò che è e appare e che ci è prossimo, che, proprio per questo, ci conduce a una incognita profondità. 

 
Il nesso tra Fontana e Bataille può sembrare improprio, ma in realtà illumina ciò che la defigurazione permette di cogliere. Ancora una volta attraverso la carne, che ci rinvia a Francis Bacon. Infatti, dietro il taglio di Fontana come dietro le immagini di Bacon, c’è, come si è detto, la carne. Alexandre Kojève, commentando in un mitico seminario alla Sorbona a Parigi tra il 1933 e il 1939 frequentato da Bataille e praticamente da tutti gli intellettuali parigini, la Fenomenologia dello spirito di Hegel, ha parlato dell’uomo come di “morte incarnata”. La morte che si fa carne, carne morente, che vive dentro l’uomo, che è l’uomo. La morte incarnata rinvia al Bue appeso (o Bue squartato) di Rembrandt, che ne fa una sorta di un pala d’altare, come ha capito Bacon che fa di questa stessa carne una crocifissione. Arrivare fino alla carne, colpirla non è dunque soltanto ferire un corpo, è penetrare nella morte che questa carne chiude dentro di sé. 

 
Accanto a Fontana e a Bacon, Alberto Giacometti. E poi la scarnificazione del linguaggio di Samuel Beckett, che si spinge fino alla polverizzazione delle parole in Antonin Artaud e Paul Celan. 

Sentire modernamente. Van Gogh viaggiando nella notte, di novembre, su un carretto aperto, sente nel buio, al di là dei cigolii delle ruote del carro nel fango del sentiero, in mezzo al canto dei galli che si leva ovunque nella brughiera, “cadere le foglie gialle” dai pioppi esili al di là della strada. Boccioni in una nota dei suoi Diari nel 1910 scrive che ci sono pochi quadri, ma evidentemente qualcuno c’è, “che esprimono modernamente (nel senso più assoluto) il cadere di una foglia.” 

 
Autoritratto. Vergogna di sé. La vergogna fa parte del piacere, soprattutto nel piacere dell’autoesibizione. La vergogna esibita, un perverso piacere mentale, può insinuarsi nella drammatica nudità dell’Autoritratto nudo del 1505 di Dürer, in molte pagine di Montaigne, nelle lancinanti immagini degli autoritratti di Schiele. Ma c’è un oltre la vergogna, come ostensione e come piacere: un luogo in cui le parole piacere e vergogna non hanno più senso. È qui che Rembrandt deposita sul suo viso, sugli occhi che gli si fanno opachi e vitrei, i segni della morte che sente avvicinarsi a lui, che entra a far parte del suo orizzonte di vita, che segna ogni cosa su cui egli posa lo sguardo. È l’atto chenotico della Masturbazione (1911) di Egon Schiele, che si svuota non solo del suo sperma, ma della vita stessa, mentre la testa si reclina sulla spalla in una stanchezza immedicabile e irrimediabile.

Ritratti e autoritratti e paesaggi. Michel Tournier ha scritto che “l’autoritratto può prendere la forma di una confessione e di una accusa dell’artista di fronte alla società del suo tempo: quel giorno là, ero così solo, così abbandonato da tutti, che avevo da dipingere un solo volto umano, il mio [...]. Così sono gli autoritratti della vecchiaia di Rembrandt e tutti quelli di Vincent Van Gogh”. Artaud forse ne converrebbe, ma l’autoritrattro vero di Van Gogh, che Artaud ci ha proposto è il Campo di grano con volo di corvi. Un paesaggio può essere un volto, il proprio stesso volto. Un volto può essere un paesaggio, e le rughe e le pieghe che lo solcano possono essere i sentieri che si aprono come nel campo di grano di Van Gogh. Ho detto in questo stesso libro che le molte montagne Sainte Victoire che Cézanne ha dipinto, potrebbero essere una sequenza di autoritratti dal 1885 al 1906, l’anno della sua morte. Di contro si potrebbe pensare che i numerosi autoritratti di Van Gogh e di Rembrandt siano una esplorazione del mondo. Paesaggi. 

L’Olympia di Franz Kafka. C’è un’immagine che custodisce un segreto. È un’immagine che compare in un testo già di per sé misterioso ed enigmatico, La metamorfosi di Franz Kafka. Nelle opere di Kafka raramente appaiono immagini pittoriche, o comunque di arte visiva, e non fanno eccezione, a mio giudizio, le opere autistiche di Titorelli ne Il processo. Dunque Gregor Samsa, il protagonista della Metamorfosi, si sveglia una mattina trasformato “in un enorme e mostruoso insetto”. Si chiede cosa gli sia successo, si guarda intorno come per riappropriarsi di se stesso attraverso un luogo abituale, e la prima cosa che vede, appeso al muro sopra il tavolo su cui stanno impacchettate le stoffe del suo campionario (Samsa era un commesso viaggiatore), “un ritratto che poco prima egli aveva ritagliato da una rivista illustrata e sistemato in una bella, dorata cornice”. Cosa rappresenta per Samsa questo ritratto, ritagliato da una rivista, ma collocato in una cornice dorata, in piena vista? Il quadro, perché a questo punto non possiamo che dare questa definizione, “raffigurava una signora, provvista di cappello e di pelliccia e di un boa di pelliccia, che sedeva eretta levando verso l’osservatore un manicotto di pelliccia nel quale era scomparso l’intero avambraccio”. Il riferimento a quest’opera tornerà dopo poche pagine quando la madre, per giustificare il figlio di fronte al procuratore della ditta che era venuto a chiedere ragione del suo ritardo, afferma che Gregor è ligio, serio. Passa le sere a leggere il giornale e a leggere gli orari dei treni. E poi si dedica a lavori di traforo. “Ad esempio, in due o tre sere ha intagliato una piccola cornice. La stupirà vedere quanto è graziosa: è appesa lì dentro, nella camera, la vedrà subito quando Gregor aprirà”. 

 
Apprendiamo dunque che la cornice dorata è opera dello stesso Gregor, che ha provveduto, come scopriremo, a coprire con un vetro l’immagine, che è comunque di piccole dimensioni, come era già da arguire dal fatto che si tratta di un’immagine ritagliata da una rivista. Apprendiamo anche che questa immagine è in piena vista (“la vedrà subiro quando Gregor aprirà”). L’immagine torna ancora una volta quando Gregor vuole difendere lo spazio, in cui vive ormai da insetto, dalla sorella che, con tutte le buone intenzioni, per rendergli più agevole il movimento vuole svuotare la stanza, meno il divano sotto il quale Gregor riparava per nascondersi alla vista di chi entrava. Gregor cambia più volte direzione muovendosi di qua e di là disperatamente. Non sa cosa salvare per prima cosa, “finché vide appeso alla parete per il resto già vuota, il ritratto della signora tutta vestita di pelliccia”. Non pensa di salvare, appesa alla parte di fronte, la sua stessa fotografia, che lo ritraeva sorridente in divisa da sottotenente, con la mano alla spada. Ciò che deve essere salvato è la signora, e come viene sottolineato, la “signora tutta vestita di pelliccia”. Così sale sulla parete, strisciando, “e si strinse al vetro”. Gregor ora lo copriva interamente “e nessuno l’avrebbe portato via di sicuro”. È stretto al vetro, con il “ventre rovente”, che “era saldamente incollato” ad esso tanto che, alla fine, “dovette staccarsene con la forza”. 

 
La signora tutta in pelliccia è l’ultimo brandello di umanità che gli è rimasta? Ma l’animalizzazione di Gregor non è mai completa. Arriverà ad affrettare la sua fine proprio per la voglia di ascoltare la sorella che suona il violino, per il desiderio di poterla ancora mandare in conservatorio. Quando anche questo gli mancherà si lascerà morire, e non sarà certo salvato dalla signora in pelliccia.

Torniamo da lei. Un cappello di pelliccia, un boa di pelliccia, e un manicotto di pelliccia, che leva verso lo spettatore, “nel quale era scomparso l’intero avambraccio. La signora in pelliccia è l’antitesi di Olympia, il suo altro assoluto. Là dove Olympia esibiva nudità, la signora esibisce il pelo della pelliccia che l’avvolge, del manicotto di pelo in cui anche il suo avambraccio è interamente scomparso. Nulla del suo corpo è visibile. Nulla ci è detto del suo sguardo. Sappiamo però che leva verso lo spettatore non gli occhi, ma il manicotto di pelliccia. 


Qual è il suo segreto? Qual è l’intenzione segreta di Gregor che sembra tenere a questa immagine più che ad ogni altra cosa? Qual è l’intenzione dell’artista, dello stesso Franz Kafka, che così l’ha raffigurata? È lei la mostruosa anticipazione del processo di deumanizzazione a cui è sottoposto Gregor Samsa? Il corpo coperto di pelo animale è una profezia? Ma non lo è ugualmente anche la nudità assoluta di Olympia, “l’impura per eccellenza”, vestale animalesca, che fa pensare, ha scritto Valéry, ad una “animalità rituale”? 

 
Leggiamo La metamorfosi e in un primo tempo la signora sembra non farsi vedere. Si è nascosta al nostro sguardo. Quando rileggiamo il racconto lei si avvicina sempre di più al proscenio, sempre più vicino a noi. Non ha volto, non ha corpo. Sta dentro la piccola cornice dorata come il ritratto di una inquietudine. O forse come il ritratto di un oscuro segreto. Un oscuro segreto celato dentro, come ho già detto, un altro cupo segreto, che lo racchiude come una cornice dorata.

IL SEGRETO DI MANET
IL SEGRETO DI MANET
Franco Rella