Studi e riscoperte. 2
I draghi tra mito e tassidermia

CREATORI
DI BASILISCHI

Tra Cinque e Seicento un combinato di erudizione, curiosità scientifica, abilità tecnica dà origine a una serie di manufatti spacciati per veri “draghi”, finte meraviglie della natura.

Carlo Canna

Curiosando tra le pagine delle opere di scienziati ed eruditi europei del XVI e XVII secolo è possibile imbattersi nelle immagini, con relative descrizioni, delle creature fantastiche più note al mondo, i draghi, che, talvolta, rappresentano qualcosa di diverso da semplici raffigurazioni scaturite dall’adozione di specifici modelli iconografici uniti all’estro creativo dell’artista. Diversi studi, infatti, tendono a dimostrare che in realtà si trattava di straordinari esempi di bioarte creati coniugando mito e tassidermia, ovvero di veri e propri draghi in miniatura realizzati modificando o assemblando parti di una o più specie animali. A partire dal Rinascimento, tali curiosità naturali, ricercatissime, andarono ad arricchire le collezioni delle élites europee, e illustri uomini di scienza, nelle loro opere di storia naturale, diedero ampio spazio allo studio dei draghi, creature che all’epoca si collocavano ai confini dell’erpetologia in quanto ritenute più simili ai serpenti che non a “mostri” veri e propri. Tra questi scienziati, un posto di rilievo è occupato dal medico e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605) che nelle Serpentum et draconum historiae (1640) ci fornisce diversi esempi del genere, ponendosi in una posizione a cavallo tra lo scetticismo più intransigente e l’eccessiva credulità.

Tra i casi riconosciuti dallo scienziato come falsi, ci sono quelli classificati come “Draco ex Raia”, pesci appartenenti all’ordine dei Raiformi fatti essiccare e tagliati a forma di drago attraverso una tecnica ben descritta da Conrad Gessner (1516-1565), un collega di Aldrovandi, che pure fa un breve accenno a un simile procedimento.

Stiamo parlando di quegli artefatti, più volte citati anche con il termine di “basilischi”, come quelli in perfetto stato di conservazione provenienti dalle collezioni storiche dei musei di storia naturale di Verona e Venezia. Un altro esempio di falso smascherato dallo scienziato bolognese è quello, decisamente più elaborato, di un’idra a sette teste, il mostruoso serpente policefalo noto sin dalla mitologia greca, che l’Aldrovandi affermò di aver esaminato e riconosciuto come «summo artificio afficto» nel Tesoro della Repubblica veneta.

Ben più problematica - almeno apparentemente - per lo scienziato risulta l’identificazione di un drago apparso il 13 maggio del 1572 nella campagna bolognese di cui fece realizzare una raffigurazione dal vivo per poi farlo essiccare e conservarlo nel suo museo. L’immagine che ci è stata restituita del “Draco bononiensis” mostra un serpente con un ventre rigonfio nella parte centrale, fornito di soli arti anteriori. Aldrovandi ne fornisce un’accurata descrizione arrivando a classificarlo come una sorta di serpente mostruoso. Secondo il rinascimentalista e italianista Marco Ruffini(1), in realtà questo esemplare era un artefatto creato all’interno dello stesso museo del naturalista, che in tal modo intendeva fornire una prova materiale sull’esistenza del drago come fatto naturale e non come segno anticristiano. 



Due esemplari di basilisco (XVI secolo), Venezia, Museo di storia naturale.

Un falso costruito assemblando abilmente parti di animali diversi


Questo perché, a detta dello studioso, la creatura era rappresentata nello stemma gentilizio del bolognese Ugo Boncompagni, parente dello stesso Aldrovandi, che era salito al soglio pontificio sotto il nome di Gregorio XIII (pontificato 1572-1585) nello stesso giorno in cui lo scienziato ci dice che era apparso il drago. Lo scopo ultimo di Aldrovandi, scrive Ruffini, era quello di trovare un mecenate nel proprio concittadino e parente, anche se Gregorio XIII e i suoi mostrarono molto poco interesse verso il drago “naturale”, che non fruttò allo scienziato alcuna protezione o beneficio. Se di falso si trattava, dunque, è probabile, come suggerito dal biologo statunitense Phil Senter(2), che il “serpente-drago” in questione fosse stato creato ad arte unendo parti di animali diversi che potevano essere facilmente reperiti localmente come la biscia dal collare per la struttura di base (testa, collo, parte inferiore del tronco e coda), un pesce (probabilmente una carpa) per la parte superiore del tronco e un rospo comune per le zampe.





Due versioni del “Draco ex Raia”, da Ulisse Aldrovandi, Serpentum et draconum historiae, Bologna 1640.

Tra i draghi riportati dallo scienziato, uno di quelli che più si avvicina alla figura, ben radicata nell’immaginario moderno, del rettile dotato di zampe, ali di pipistrello e coda serpentina, è un esemplare di “Draco aethiopicus” che, pare, venne donato già essiccato ad Aldrovandi da un tal Francesco da Cento nel 1591. Molto simile al drago alato riportato precedentemente da Pierre Belon (1517- 1564) nell’opera Les Observations de plusieurs singularités et choses mémorables, trouvées en Grèce, Asie, Judée, Egypte, Arabie & Autres pays étrangers (prima edizione 1553, edizione riveduta e ampliata 1588), dove il naturalista francese afferma di aver visto numerosi resti di queste creature, e da Gessner in Schlangenbuch (1589), il drago di Aldrovandi se ne distingue per la presenza di cinque vistose gobbe sul dorso. Così viene descritto: «Aveva piedi dotati di artigli e piccole orecchie. Era ricoperto dorsalmente di squame verdi e ventralmente di squame giallastre e lucide. La bocca era armata di denti aguzzi. Gli occhi erano neri e cerchiati di giallo». Sulla base della documentazione storica e iconografica, il sovracitato Phil Senter e Darius M. Klein(3) ritengono che le raffigurazioni del drago di Belon e di Aldrovandi, entrambe riportate nelle Serpentum et draconum historiae, fossero dei falsi ottenuti a partire da un serpente a cui furono aggiunte parti di mammiferi (cranio e zampe) e, per simulare le ali, le pinne pettorali di un “pesce civetta” (Linneo 1758).


Il drago del cardinale Barberini, da Giovanni Faber, Rerum medicarum novae Hispaniae Thesaurus, Roma1651.

«La bocca era armata di denti aguzzi. Gli occhi erano neri e cerchiati di giallo»


Allo stesso modo, Senter e Klein(4) identificano come un artefatto il drago alato mummificato donato da re Luigi XIII (1601-1643) al cardinale Francesco Barberini (1597-1679), che troviamo raffigurato nelle opere secentesche degli eruditi Giovanni Faber (1574-1629) e Athanasius Kircher (1602-1680). Le immagini, infatti, mostrano diversi dettagli anatomici dello scheletro e della pelle che, unitamente alla dettagliata descrizione del drago riportata da Faber in Rerum Medicarum Novae Hispaniae Thesaurus (opera multi-autoriale del 1651), secondo gli studiosi sono riconducibili alle seguenti specie: il cranio a quello di una donnola, gli arti a quello dello stesso animale o di una lucertola ocellata, la coda alla colonna vertebrale di un’anguilla e la pelle a quella di diversi rettili (serpenti e lucertole); le ali, invece, restano un mistero. È da notare che nelle raffigurazioni di questo drago, così come in quella del “Draco aethiopicus”, troviamo ancora la presenza degli arti anteriori, un dettaglio anatomico del tutto incompatibile con quello delle ali che nella storia evolutiva dei vertebrati che hanno sviluppato un volo vero e proprio (pterosauri, uccelli e pipistrelli) sono il primo paio di arti, quelli anteriori appunto, modificati per il volo. Diversamente, è utile soffermarsi sulle raffigurazioni di un drago che rappresentano uno degli esempi più “realistici” nella storia dell’iconografia dedicata a questi animali fantastici, a tal punto da spingere recentemente alcuni creazionisti a interpretarle come una testimonianza sulla sopravvivenza degli pterosauri (rettili volanti vissuti al tempo dei dinosauri) nel XVII secolo.

Tre raffigurazioni tratte dall’opera Nuovi ritrovamenti divisi in due parti (1696) dell’ingegnere idraulico olandese Cornelius Meyer (1629-1701) mostrano un drago in vita e cadavere, dotato di ali da pipistrello e di soli arti posteriori, trovato nelle aree paludose fuori Roma. Tra queste, a colpire di più, è l’immagine che, come il drago del cardinale Barberini, mostra in modo evidente diverse aree dello scheletro e della pelle del presunto drago-pterosauro. Ed è ancora una volta Phil Senter, insieme al biologo Pondanesa D. Wilkins, a svelarci i segreti sulla vera natura di questa creatura, ovvero quella di un falso costruito assemblando abilmente parti di animali diversi con l’aggiunta di ali e coda artificiali(5). Dunque, nulla a che vedere con gli pterosauri, rettili preistorici che, a dire il vero, tra gli animali esistiti realmente, sono senza dubbio quelli che complessivamente richiamano di più l’immagine delle mitiche creature alate; questi rettili, infatti, presentavano vistose creste sul cranio, mascelle fornite di denti aghiformi (nella maggior parte della specie), una lunga coda (nelle forme più antiche) e arti anteriori trasformati in ali membranose simili a quelle dei pipistrelli che potevano raggiungere un’apertura di circa undici metri. Ma non sputavano fuoco. E soprattutto, si sono estinti da oltre sessanta milioni di anni.


“Draco bononiensis”, da Ulisse Aldrovandi, Serpentum et draconum historiae, Bologna 1640.

(1) M. Ruffini, Le imprese del drago. Politica, emblematica e scienze naturali alla corte di Gregorio XIII (1572-1585), Roma 2005.

(2) P. Senter, L. C. Hill, B. J. Motion, Solution to a 440-year-old Zoological Mystery: The Case of Aldrovandi Dragon, in “Annals of Science”, vol. 70, n. 4, 2013, pp. 531-537.

(3) P. Senter, D. M. Klein, Investigation of claims of late-surviving pterosaurs: the cases of the winged dragons of Belon, Aldrovandi, and Cardinal Barberini, in “Palaeontologia Electronica”, vol. 17, n. 3. (https://doi.org/10.26879/461).

(4) Ibidem.

(5) P. Senter, P. D. Wilkins, Investigation of a claim of a late-surviving pterosaur and exposure of a taxidermic hoax: the case of Cornelius Meyer’s dragon, in “Palaeontologia Electronica”, vol. 16, n. 1 (https://doi.org/10.26879/346).

ART E DOSSIER N. 383
ART E DOSSIER N. 383
GENNAIO 2021
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