LA PAROLA
ALL’ARTISTA

Intervista di Ludovico Pratesi a Maurizio Cattelan

Artisti si nasce o si diventa?

Artisti, se si è fortunati, si muore. Tutto quello che viene prima è un lungo percorso per capirci qualcosa.


Qual è stato il momento in cui hai deciso di fare l’artista?

Mi ricordo il giorno preciso: ero sulla strada tra casa e l’ospedale dove lavoravo. C’era una galleria d’arte che esponeva in vetrina degli specchi di Pistoletto. Mi hanno colpito a tal punto che ho preso coraggio e sono entrato per capirci di più. Da quel giorno l’arte mi si è piantata in testa come un tarlo, piccolo, irremovibile e vorace.


Padova, Forlì, Milano e New York sono le città dove hai trascorso la tua vita. Queste città hanno in qualche modo influenzato la tua carriera, nel bene o nel male? 

Ho sempre tentato di mantenere un certo distacco dalle città dove ho abitato, in modo da vivere sempre in quella condizione di straniero in patria, così poco confortevole ma allo stesso tempo molto stimolante: sentirsi a casa è un sentimento che ho sempre evitato con cura. Preferisco rimanerne fuori, come il personaggio di John Wayne alla fine di Sentieri selvaggi.


Quali sono stati i rapporti più importanti per la tua carriera?

Quelli con le persone che mi hanno detto no. È da quei no che si capisce se un’amicizia è disinteressata: è una selezione molto ristretta di persone in cui ho fiducia cieca. Ho sempre lavorato in squadra e non mi sono mai illuso di poter dare vita a qualcosa senza un dialogo continuo con le persone di cui mi fido e che stimo. Ho sempre trovato più facile tirare fuori idee dai cappelli altrui, e probabilmente la cosa è reciproca!


Quando hai cominciato a percepire il mondo dell’arte come un sistema?

Non credo di aver mai iniziato, in realtà. Mi suona un po’ come se si parlasse di una cupola mafiosa, quando invece penso si tratti di un (relativamente) sano meccanismo di relazioni che si basa in parte sul mercato, in parte su idee e la possibilità di realizzarle. Non riesco a vederci niente di negativo, e per questo non mi piace adottare il termine sistema, a meno che non sia usato in modo totalmente laico, puramente etimologico. Ma allora perché parlarne?

Che relazioni hai con l’Italia?

L’Italia è il posto dove fare le mie lezioni di mandolino e dove produrre i miei lavori. Rappresenta molte cose contraddicenti tra loro, è il suo bello e la sua condanna.


Essere un italiano a New York negli anni Novanta è stato un vantaggio?

Mi ritengo fortunato: da quando mi ci sono trasferito New York è sempre stata la città più stimolante dal punto di vista della scena artistica. Credo che la renda speciale il fatto che ogni nuova teoria, o movimento, qui è abbracciata senza troppi problemi su ciò che è sbagliato e ciò che non lo è: si è sempre in grado di trovare una nuova “fede” e c’è sempre tempo per cambiare idea il giorno dopo.


Su quali basi scegli i collaboratori con i quali lavori per realizzare le tue opere?

È semplicissimo, la scelta si basa sulle abilità che io non ho: di volta in volta prendo contatti con orafi, marmisti, tassidermisti… non ho mai voluto imparare a fare niente, per essere sicuro di non diventare schiavo di un mezzo espressivo in particolare. Si corre sempre il rischio di schiacciare le buone idee sotto il peso della fattibilità tecnica.


Hai mai avuto assistenti?

Mai avuto assistenti né studio: il mio consiste nella condivisione dello schermo via Skype con le persone con cui di volta in volta collaboro… ormai ho disimparato a usare anche il telefono! Ad esempio, quando con Pierpaolo [Ferrari] prepariamo gli shooting di TOILETPAPER, passiamo le giornate davanti al computer: non abbiamo bisogno di riunioni con nessuno, se non con il producer che deve organizzare i casting.


Se dovessi descrivere il tuo lavoro a una persona che non lo conosce, quali sono le opere alle quali faresti riferimento?

A quelle che erano in mostra alla Monnaie [di Parigi]: abbiamo fatto una scelta molto accurata, direi che lì c’era davvero il concentrato del mio lavoro nella sua forma migliore. Abbiamo lavorato come si fa con un libro, o con una rivista. Il processo di editing è una delle parti più importanti nella vita di tutti i giorni, oltre alle mostre. Una singola decisione spesso prende sviluppi interessanti e inaspettati, che non hai minimamente messo in conto dall’inizio. Il compito più difficile è quello di eliminare il superfluo: è doloroso e necessario allo stesso tempo. Da qualsiasi parte si prenda il risultato, come nel Sudoku, dovrebbe essere lo stesso: “I’m not afraid of love”.


Poster di America (2016), opera installata al Solomon R. Guggenheim Museum di New York.

Qual è la mostra che ti ha più coinvolto?
Senza dubbio il Guggenheim è stato il più impegnativo, La Monnaie il più rivelatorio. È stata una mostra “post-requiem”: una grande occasione per sbarazzarsi del personaggio di “burlone” che volente o nolente influenza la percezione dei miei lavori. Una volta che tutto il chiacchiericcio intorno a me come persona sarà meno rumoroso, sono fiducioso che il silenzio permetterà a chiunque di andare più in profondità circa gli aspetti di quei lavori che sono stati raramente analizzati fino a ora.

Come mai hai deciso di smettere di lavorare dopo l’antologica al Guggenheim?
Avevo bisogno di tirare una linea tra me e il mio lavoro, e che quella stessa linea diventasse un’opportunità stimolante per gli altri di avvicinarsi alle opere. Le ho messe a disposizione, e ognuno ha potuto sfruttare il loro potenziale, senza chiedermi il permesso sul come e quando. Penso che la mostra alla Fondazione Beyeler [a Riehen, in Svizzera] sia stata un buon esempio di come, anche senza l’artista, si riesca a fare qualcosa di nuovo, senza in effetti produrre nulla.

Hai dei maestri?
Sì, sempre e solo cattivissimi e per questo innominabili!

Come mai hai deciso di riprendere a lavorare come artista quest’anno?
Non credo di averlo deciso ancora: ho lavorato con Chiara Parisi alla mostra [alla Monnaie di Parigi], è vero, e abbiamo installato America al Guggenheim. Per il resto mi sento in una situazione di limbo, e non si sta poi così male.

Le più grandi paure della tua vita?
Tutte da superare: credo che lo scopo di ognuno di noi sia tentare di sopravvivere alla nostra morte, almeno nel ricordo. Le immagini hanno questo potere: se funzionano, possono durare anche per secoli, esorcizzano la paura della morte. Io non pretendo tanto per i miei lavori, ma è quella possibilità di permanenza che mi interessa: che si tratti di un paio di secondi o dell’eternità poco importa, quello che conta è “impressionare” la mente di qualcun altro. In qualche modo equivale a possederla, anche se solo per un attimo.

Le più grandi passioni della tua vita?
Le mie paure.

Se potessi ricominciare tutto da capo, rifaresti le stesse cose?
Dipende: se fossi consapevole di essere ripartito da capo, come in Groundhog Day, cercherei di cambiare il corso degli avvenimenti. Altrimenti, senza consapevolezza, credo che il corso degli eventi sarebbe identico.

Quanto è stato importante per te lavorare a progetti come The Wrong Gallery, “Permanent Food”, “Toilet Paper” o Shit and Die?
Fondamentale per vedere se stessi da fuori, con lo sguardo delle persone con cui ho collaborato. Come ti dicevo, ho sempre pensato che le idee migliori spesso vengono fuori dal confronto con gli altri, dalle persone che lavorano con te. Tutte queste collaborazioni mi hanno arricchito e alimentato, è cibo per la mente.

Che consiglio daresti a un giovane artista italiano oggi?
Mai spiegare le ragioni del proprio lavoro. Se qualcosa può essere ridotto a un concetto chiaro, è sicuro come l’inferno che sia anche artisticamente morto. L’arte non ha alcuna intenzione diretta e unica, in caso contrario si tratta di un problema che è già stato risolto, e non c’è niente di interessante in questo. È l’opera d’arte in sé che può impegnarsi in un dialogo culturale più ampio. Per l’artista l’opera è pura auto-espressione, e vale quanto una seduta dall’analista.

Essere un artista è una fortuna o una condanna?
È un privilegio: quando un uomo sa di essere impiccato, la sua mente si concentra meravigliosamente.

CATTELAN
CATTELAN
Ludovico Pratesi
Un dossier dedicato a Maurizio Cattelan. In sommario: Un artista per caso; Il fallimento come strategia; Lo zoo di Cattelan; La politica non è il mio mestiere; Autoritratto dell'artista (da bambino); Gran finale; La parola all'artista. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.