CATALOGHI E LIBRI

MAGGIO 2016

CABARET VOLTAIRE

Oggi il Cabaret Voltaire di Zurigo, al numero 1 di Spiegelgasse, è un luogo di ritrovo moderno, molto cool, che ospita nella cripta una mostra permanente, Dada in nuce. Qui cento anni fa, in una stanza fumosa e claustrofobica, nacque Dada, sodalizio intellettuale e artistico di giovani rifugiatisi in Svizzera da vari paesi per sfuggire la guerra e condannarla. E qui, dal febbraio scorso, si celebra una “maratona” di cinque mesi e mezzo, giusto quanto restò aperto, nel 1916, il cabaret, che poi fu chiuso per schiamazzi e oltraggio al pudore. Il locale era la trattoria dell’ebreo illuminato Jan Ephraim, che già un anno prima aveva concesso una stanza per il varietà letterario Pantagruel. Nel 1916 il trentenne tedesco Hugo Ball gli chiese dunque una sala «per fare cabaret». Una scrittrice ebrea lo finanziò. Hans Arp portò quadri dell’amico Picasso, e altri artisti contribuirono con le loro opere a una prima mostra, che si  affiancò il 6 febbraio a una performance irripetibile, cui ne seguirono altre. I rumeni Tristan Tzara e Marcel Janco presentarono “poemi simultanei”. Janco creò maschere colorate, oggi divenute le sue opere più note, in un intreccio fra primitivismo, tragedia greca e teatro giapponese. Si alternarono soirée “russe” e “francesi”, si recitarono Apollinaire, Jacob, Rimbaud, si suonarono frenetici ritmi africani, in sintonia con l’interesse per l’art nègre. Leggenda vuole che Lenin vi facesse una capatina (abitava a pochi metri da lì). Insomma, un luogo rivoluzionario, all’origine di Dada, che come dichiarò nichilisticamente Hugo Ball, «non vuol dire nulla». Il 23 giugno Ball apparve sul palco come un “vescovo magico”: uno sciamano intubato in un cartone azzurro, con una mantella rosso e oro, che se lui muoveva i gomiti simulava lo sbattere delle ali; in testa, un imbuto bianco, rosso e blu. Ball salmodiò un’associazione di «versi senza parole », assonanze prive di senso che suggestionarono lui stesso, oltre a chi lo ascoltava: «Gadji beri bimba», vi ricorda qualcosa? Questo nonsense fu rievocato nel 1978 dai Talking Heads di David Byrne nelle strofe del ritmatissimo brano I Zimbra. Per chi voglia approfondire, il bel libriccino presenta brani da vari scritti di Ball, fotografie e documenti dada.

Hugo Ball Castelvecchi, Roma 2016 96 pp.; 10 ill. b. n. € 12,50

UN PATRIMONIO DA RICONQUISTARE

Federico Giannini, che cura il blog Finestre sull’arte e l’omonima rubrica sulla nostra rivista, ha appena pubblicato un libro in buona parte in linea con le battaglie di Salvatore Settis per un diverso approccio ai problemi che affliggono il nostro patrimonio culturale: problemi non solo di salvaguardia ma anche di “buon utilizzo”. Al linguaggio conciso s’accompagna una ben documentata conoscenza di alcune fra le vicende più recenti e controverse, come la discutibilissima “riforma”, da parte del ministero dei Beni culturali, del sistema museale e delle Soprintendenze, oppure certe «mostre mostruose» come quella, già molto denigrata, all’Expo, con opere d’arte fra prosciutti e salami, e altre (non tutte, ci permettiamo di aggiungere) che tirano a far cassetta senza dire granché. E poi, sul lavoro che manca per i giovani, e non solo. Da leggere. Per combattere, o emigrare per sempre.


Federico Giannini Talos, Cosenza 2016 180 pp. € 15

LE FAENZE DI LUCIO FONTANA

Generazioni di critici hanno studiato Lucio Fontana (Rosario de Santa Fé 1899 - Comabbio 1968) riconoscendone la versatile creatività, e in questa rubrica se ne è parlato spesso. L’innovativa opera poliedrica del maestro italiano nato in Argentina si è svolta in decenni cruciali per la formazione di nuovi linguaggi artistici e si è manifestata, sin dalla metà degli anni Trenta (ancor prima dei suoi “interventi” plastici sulla tela e dei Concetti spaziali), con l’adozione di tecniche al tempo ritenute in larga parte inferiori rispetto a pittura e scultura: ceramica, mosaici, graffiti. Il primo successo delle sue ceramiche, realizzate ad Albisola (Savona) dall’amico Mazzotti, risale proprio a quegli anni; due mostre si tennero a Milano e a Genova poco prima che l’artista tornasse in Argentina nel 1940. Per spiegare la natura di quelle opere Fontana precisò di essere «uno scultore e non un ceramista ». Col dopoguerra e il rientro in Italia l’artista non solo ha “dialogato” con i coetanei ma ha offerto notevoli spunti alle generazioni successive, in particolare a giovani sperimentatori come Manzoni e Klein. Nuove chiavi di lettura sono giunte di recente; oltre alla bibliografia citata da Irene Biolchini, ricordiamo le osservazioni di Michele Dantini (in Geopolitiche dell’arte, Marinotti, Milano 2012) sul «furore artistico e creativo» delle ceramiche di Fontana, in una sorta di competizione immaginativa con quelle di Picasso (citato, anche se in modi diversi, da Irene Biolchini). La studiosa ripercorre qui, in primo luogo, la fortuna critica del Fontana ceramista nel contesto italiano, arricchendola di una ricca documentazione, ma soprattutto analizza un episodio finora di attribuzione controversa, il progetto e la realizzazione della tomba monumentale della famiglia Melandri nel cimitero dell’Osservanza a Faenza. Si precisa così la sicura autografia dell’importante monumento in gres, grazie a un’indagine storica che ristabilisce i rapporti fra Fontana e il committente, con interessanti intrecci con Gio Ponti e la Milano fine anni Cinquanta.

Irene Biolchini Museo internazionale delle ceramiche di Faenza Faenza 2015 128 pp., 30 ill. colore € 20

CARLO SCARPA. L'ARTE DI ESPORRE

Attorno alla vicenda professionale di Carlo Scarpa (1906- 1978) aleggia il paradosso. Fra i più originali architetti e designer del secolo scorso, stimato da intellettuali come Duchamp e Chastel, Scarpa, figlio di un maestro e di una sarta, a vent’anni ottenne l’abilitazione in disegno architettonico all’Accademia di Venezia, e subito iniziò a insegnare all’Istituto universitario di architettura. Negli anni il suo genio creativo ha prodotto miriadi di progetti (fra i tanti, il negozio Olivetti a Venezia, gli uffici Gavina a Roma, la ristrutturazione del Museo di Castelvecchio a Verona, la Querini Stampalia a Venezia, le sale dei primitivi agli Uffizi, il Padiglione del libro alla Biennale di Venezia del 1950), nonché l’allestimento di mostre temporanee come quella memorabile di Klee alla Biennale di Venezia del 1948, e la meno nota mostra di Duchamp a Roma nel 1965. Fu anche direttore artistico, con esiti raffinati, di vetrerie come la Venini di Murano e di aziende internazionali di arredi e design. Tuttavia, fu più volte denunciato per esercitare la professione senza far parte dell’albo degli architetti (l’iscrizione all’Ordine peraltro gli era stata negata più volte). Ancora nel 1975, in un articolo su “Le Monde”, Chastel, che lo conosceva dai tempi della Biennale del 1948, rimarcava che molti francesi in visita in Italia lo conoscevano senza saperlo, perché Scarpa era «il più grande allestitore di mostre d’arte», anche all’estero, e si augurava che in Francia non fossero più solo pochi esperti ad accorgersene. Comunque, ancora in vita Scarpa fu insignito di premi e onorificenze internazionali. Non poté tuttavia presenziare alla meritata laurea ad honorem concessagli dall’Università veneziana nel novembre 1978. Morì due mesi prima, cadendo da uno scala di marmo italiano in un albergo giapponese. Il libro di Philippe Duboÿ, che lo conobbe bene, è un’intelligente “promenade architecturale”, per dirla con Le Corbusier, che rende noti rari testi di Scarpa ed è più che un’utile e documentata guida all’opera così vasta del maestro veneziano.


Philippe Duboÿ prefazione di Patricia Falguières traduzione di Rossella Rizzo Johann & Levi, Milano 2016 270 pp., 120 ill. b. n. € 25

ART E DOSSIER N. 332
ART E DOSSIER N. 332
MAGGIO 2016
In questo numero: LA VERTIGINE DELL'ACCUMULO Wunderkammer e collezionismi seriali. LA CUCINA E' ARTE?. BENI CULTURALI: il punto sulla riforma. EROINE E CONCUBINE: il mondo di Delacroix in mostra a Londra. IN MOSTRA Boccioni a Milano, Imagine a Venezia, Dimitrijevic a Torino.Direttore: Philippe Daverio