Studi e riscoperte. 1
L’Oriente e gli orientalismi nella concezione europea

La révéLation
m’est venue
de L’orient

Terra di conquista e di velleità egemoniche, l’Oriente è stato ridotto dall’Occidente a immagini stereotipate ed esotizzanti rintracciabili nella pittura europea già dal Settecento. Tendenza cavalcata da molti pittori arabi e nordafricani ma tenuta a debita distanza da una nutrita schiera di artisti algerini.

Elena Agudio

Con un gesto semplicissimo, nel 1943 l’artista uruguaiano Joaquín Torres García aveva banalmente ribaltato l’immagine dell’America Latina, capovolto la prospettiva della convenzionale immagine del planisfero che già da prima dei tempi di Mercatore la nostra cultura aveva imposto sul mondo, creando un cortocircuito nell’immaginazione dell’osservatore. La sua operazione artistica era assai poco scontata in realtà, considerando che tutt’oggi lo sguardo occidentale e la prospettiva eurocentrica sul mondo continuano a restare imperanti e che l’idea di mettere in discussione l’orientamento della mappa del mondo pare essere un’operazione macchinosa e totalmente innaturale. 

Come quella del Sud del mondo, anche l’invenzione dell’Oriente è una mera congettura dell’Occidente, un progetto della civiltà europea, frutto delle mire espansioniste del Vecchio (e poi del Nuovo) mondo, come la teoria postcoloniale ha ampiamente dibattuto e insegnato. Nel 1978 nel suo più celebre saggio, Orientalism, Edward W. Said scriveva: «L’orientalismo non è solo una fantasia inventata dagli europei sull’Oriente, quanto piuttosto un corpus teorico e pratico nel quale, nel corso di varie generazioni, è stato fatto un imponente investimento materiale. Tale investimento ha fatto dell’orientalismo, come sistema di conoscenza dell’Oriente, un film attraverso il quale l’Oriente è entrato nella coscienza e nella cultura occidentali»(1).


John Frederick Lewis, Il ricevimento (1873), New Haven, Yale Center for British Art.

(1) E. W. Said, Orientalism, New York 1978 (trad. it., Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente [1991], trad. Stefano Galli, Milano 2007, p. 16).

A illustrare il fascino esotico di terre lontane sono stati i pennelli di pittori capaci di dare vita al sogno machista della sensualità


Un vero e proprio programma egemonico e imperialistico, ponderato nei secoli - e perfino tradotto in immagini dagli artisti -, intimamente fondato su una perversa dialettica tra conoscenza e potere, con il fine ultimo di fabbricare un’immagine di un “Altro” assoluto, di un Oriente esotico e inferiore come giustificazione per la sua sottomissione e conquista. Nel suo raffinatissimo progetto intellettuale e politico, con Orientalism Said poneva il primo pilastro per il suo vasto piano di decostruzione di quel divario tra la realtà dell’Oriente e la sua rappresentazione - nella cultura come anche nella storia dell’arte occidentale - rivelando le pratiche coloniali in esso nascoste, e la comprensione del loro impatto sulla cultura e sulla politica, sui valori e sulle percezioni, sulla letteratura e sull’identità degli europei da una parte, e dall’altra di quelle genti e di quei popoli che Frantz Fanon nel 1961 aveva definito come «i dannati della terra». 

E non lo faceva solo per mezzo della sua attenta critica filosofica, ma anche esortando l’Oriente a una lotta politica, estetica ed epistemologica, “in primis”, a prendere la parola e a rappresentare se stesso, liberando la propria cultura dalle tracce e dai sedimenti dell’eredità orientalista, considerando il problema e il fatto che «nel mondo arabo c’è questo abbandono tendenzioso, questa cieca imitazione di teorie totalizzanti, e nessuno si sforza di trasformarle in qualcosa di rilevante per la cultura araba»(2). Ispirandosi a Gramsci (e a Foucault ovviamente), Said proponeva l’alternativa radicale dell’autodeterminazione, una controegemonia capace di negare la schiavitù imposta dai sistemi dominanti, una teoria di perpetua sconsacrazione di ogni principio universalizzante e totalizzante, per una poetica della dissonanza, della decentralizzazione e della demistificazione(3). Come Gramsci, Said ci invitava a spostare le coordinate critiche, e a capire che la lotta politica, culturale e storica non consiste tanto nel rapporto tra la tradizione e la modernità, come la cultura occidentale ci ha voluto far credere, ma piuttosto tra la parte subalterna e la parte egemonica del mondo. 

Da cittadino americano (arabo palestinese, Said aveva un padre americano e la sua formazione intellettuale era avvenuta seguendo l’iter e il canone occidentale), lo faceva con la lucidità di poter osservare con attenzione le pratiche neocoloniali che gli Stati Uniti andavano elaborando e mettendo in atto da qualche decennio. Il suo discorso, nel pieno della retorica islamofobica e antiaraba del mondo di oggi, dall’interno delle mura fortificate della fortezza Europa, risuona ancora contemporaneo e cruciale a quarant’anni di distanza.


Eugène Delacroix, Donne di Algeri nei loro appartamenti (1834), Parigi, Musée du Louvre.


Francesco Netti, Odalisca (1884-1886).


Jean Auguste Dominique Ingres, Odalisca con schiavo (1842), Baltimora, Walters Art Museum.


Joaquín Torres Garcia, Mappa invertita del Sud America (1943), Montevideo, Fundación Torres García.

(2) E. W. Said, Ta’qibat ‘ala al-Istishraq (Paralipomeni a Orientalismo), a cura di S. Hadidi, Beirut 1996, p. 142.
(3) «Il significato ultimo di una teoria», afferma Said, «è quello di viaggiare, di spingersi continuamente al di là dei propri confini, di emigrare, di trovarsi in un certo senso perennemente in esilio», in «una dispersione geografica», in un «movimento [che] suggerisce l’esistenza di altri possibili luoghi, spazi e situazioni per la teoria, tutti attivamente diversi, senza dover far ricorso a un facile universalismo o a totalizzazioni sovradeterminanti».

Liberare la propria cultura dalle tracce
e dai sedimenti dell’eredità orientalista
per un’estetica indipendente


La proiezione occidentale dell’Oriente (e sull’Oriente) è chiaramente leggibile anche seguendo il percorso della storia dell’arte moderna, sin dall’inquietante legame tra la pittura del Quattrocento - che aveva programmaticamente inquadrato il mondo moderno in una prospettiva centralizzante, che rispecchiava le proprie esigenze e desideri - e il futuro ritratto del globo fornito dal colonialismo e imperialismo. E che si concretizza nel percorso esotizzante e mistificatorio della pittura europea di vero e proprio stampo colonialista, già dalla fine del Settecento (a seguito della spedizione di Napoleone in Egitto del 1798) e poi nell’Ottocento soprattutto in Francia e in Inghilterra, quando fiorì una corrente pittorica definita poi proprio “orientalista”, ad alimentare in un certo senso l’estendersi degli interessi territoriali europei in Nord Africa e nel Medio Oriente. A illustrare il fascino e il mistero esotico di terre lontane (da conquistare), sono stati principalmente i pennelli eccelsi di pittori uomini, capaci di dare vita al sogno machista della sensualità incarnandolo in odalische, bagnanti e bellezze lascive: basti pensare ai dipinti di maestri come Eugène Delacroix e Jean-Auguste-Dominique Ingres, Mariano Fortuny o, in Italia, ad artisti come Domenico Morelli, Francesco Hayez, Francesco Netti o Roberto Guastalla. 

«La révélation m’est venue de l’Orient», scriveva nel 1947 Matisse al suo amico critico Gaston Diehl: è proprio sulla scia di queste influenze orientaliste che anche la pittura di Matisse si forma, con un avanguardistico e rinnovato interesse per il repertorio di forme e morfologie orientali certo, ma ancora con quell’intimo trasporto per l’esotico e l’“orientale”, con quell’insostenibile leggerezza propria di uno sguardo inconsciamente ancora colonialista. 

In realtà anche molti pittori dello stesso Maghreb e del mondo arabo furono vittime di una certa prospettiva orientalista, inghiottiti dall’estetica imperante nelle accademie e nell’educazione occidentale, e forse talvolta anche colpevoli di quell’“abbandono tendenzioso” e di quella “cieca imitazione” che Said lamentava. Ma molti artisti algerini, nonostante l’influenza europea, lavorarono per lo sviluppo di un’estetica nazionale indipendente: tra questi basti citare Mohammed Khadda, allievo di Picasso, Azouaou Mammeri, Mohammed Râcim, fondatore della scuola algerina di miniatura e continuatore di quella tradizione pittorica che resta il fasto della civiltà algerina, M’Hammed Issiakhem e Choukri Mesli, tutti maestri di una nuova scuola e figli di un’epoca in cui le civiltà si incontrano e le estetiche si contaminano.


Giulio Rosati, Ispezione di una nuova arrivata nell’harem (prima del 1917).


Mohammed Râcim, Ballerine (vecchia Algeri) (1932 circa).

Di Azouaou Mammeri: Festa marocchina a Marrakech (1931), Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou;


Di Azouaou Mammeri: Veduta di Fès (senza data), Parigi, Musée d’Orsay.

ART E DOSSIER N. 331
ART E DOSSIER N. 331
APRILE 2016
In questo numero: SGUARDI L'occhio nell'arte tra mito e fascinazione. STEREOTIPI Immagini d'oriente nella pittura occidentale. MITI D'OGGI Puer aeternus Murakami. LONDRA Nuove sale al V&A. IN MOSTRA Piero della Francesca a Forlì, Correggio e Parmigianino a Roma, Severini a Mamiano, Matisse a Torino.Direttore: Philippe Daverio.