Studi e riscoperte. 2
Il ruolo dello sguardo tra mito e arte

a me gli occhi

Il mito greco ci svela un percorso che unisce figura femminile, bellezza, anima e sguardo, rivelando come l’atto del vedere sia legato alla fascinazione e all’amore, ma anche, a volte, alla perdizione di sé.

Rossana Mugellesi, Stefania Landucci

Nel mondo antico, seppure non sinonimi, i termini che indicano l’occhio e il volto erano di fatto intercambiabili: come fulcro del volto, l’occhio lo rappresenta nella sua totalità e come parte del corpo è insieme «“videns” e “visa”: cioè, che non solo vede ma su cui anche si affissano reciprocamente gli sguardi quando due individui si trovano l’uno dinanzi all’altro, per stabilire tra di loro un primo contatto»(1). Nell’epica omerica è proprio la divinità femminile a essere definita spesso per le modalità dello sguardo: ha occhi splendenti e luminosi, chiari o scuri in base alle circostanze, sorride e guarda da lontano il mondo con sguardo onniveggente, e la sua natura è talmente al di sopra di quella umana che può rivelarsi solo sotto false apparenze o attraverso veli o cortine di nubi: impossibile per un mortale sollevare impunemente gli occhi verso una dea. 

Uscendo dalla sfera del divino, da sempre gli artisti hanno ricercato il segreto dello sguardo femminile e per esempio nella pittura olandese del Seicento ci si riferiva con il termine “tronie” al volto, ma anche all’espressione, una sorta di ritratto di resa psicologica cui si applicarono molti pittori sperimentando nuove tecniche (Rubens, Van Dyck, Rembrandt...) e tra questi Vermeer con la Ragazza con orecchino di perla: «Uno sguardo carico di fascino e mistero, la bocca socchiusa, le labbra umide, un atteggiamento naturale - quasi un’istantanea -, il lampo di luce della perla nel buio»(2).


Da sempre gli artisti
hanno ricercato il segreto
dello sguardo femminile


La giovane ruota il collo, imponendo agli occhi il massimo grado di angolazione e abbandonando poi lo sguardo in uno spazio trasognato, mentre la postura potrebbe rimandare a un contesto amoroso ed essere giustificata da un intenso interesse suscitato da un uomo; da qui un meccanismo proiettivo di riservata seduzione che rende lo spettatore vigile e consapevole. 

L’opera di Vermeer sottolinea dunque il forte potere dello sguardo nella trasmissione di un messaggio d’amore: nell’Alcibiade (132e-133a) Platone scriveva che «quando guardiamo negli occhi qualcuno che è di fronte a noi, il nostro viso si riflette in ciò che chiamiamo la pupilla come in uno specchio: chi vi si guarda vi vede la sua immagine», e nel Fedro (255d) applicava tale visione proprio all’ambito amoroso: «Nel suo amante, come in uno specchio, è se stesso che ama […], avendo così un contro amore che è un’immagine riflessa dell’amore», concetto ribadito nel far derivare il nome di Eros dal verbo “eisreín” (scorrere dentro) perché è caratteristica precipua dell’amore penetrare nell’anima dall’esterno passando attraverso gli occhi. Nell’antica come nella più moderna rappresentazione della dinamica dell’innamoramento, l’occhio determina lo sguardo seduttore che raggiunge l’anima e la infiamma: così l’organo della vista gioca un ruolo insieme attivo e passivo, configurandosi sia come l’arco che scaglia il dardo d’amore che come il bersaglio verso cui è diretto(3).


Odilon Redon, L’occhio, come un pallone bizzarro, si dirige verso l’infinito (1882), New York, MoMA - Museum of Modern Art.

(1) I. Rizzini, L’occhio parlante. Per una semiotica dello sguardo nel mondo antico, Venezia 1998, p.105.
(2) C. Pescio, Vermeer, monografia allegata ad “Art e dossier”, n. 292, ottobre 2012, p. 38.
(3) I. Rizzini, op. cit., p. 122.

René Magritte, Oggetto dipinto: occhio (1936), Chicago, Art Institute.


Jan Vermeer, Ragazza con orecchino di perla (1665-1667), L’Aja, Mauritshuis.

Su questa teoria della visione si basa l’erotismo platonico se, come scrive Vernant a riguardo, «ciò che io vedo di me stesso nell’occhio dell’amato è ciò che in cambio egli ama in me: non la mia singola figura ma ciò che la oltrepassa e che essa può evocare solo in modo imperfetto, vale a dire la Bellezza, la forma del Bello in sé; è questo l’oggetto specifico dell’amore, quello a cui sempre l’amore tende, così come l’occhio, nello scambio di sguardi, cerca la luce e il sole che gli sono affini»(4)

Sulla stessa linea interpretativa possiamo collocare il fascino ammaliatore della Medusa la cui vicenda è narrata da Esiodo che, in una versione meno nota rispetto a quella mostruosa rappresentata da Caravaggio e Rubens, per primo allude a un racconto relativo alle Gorgoni. Ma è nelle Metamorfosi di Ovidio che ritroviamo la vicenda narrata in modo più dettagliato e innovativo: una puntuale descrizione della dimora delle Gorgoni, la spiegazione del motivo per cui Medusa è l’unica delle sorelle ad avere serpenti nei capelli(5) e la somiglianza di destino con Persefone (la violenza con cui fu rapita e portata da Ade nel regno dei morti) la quale, peraltro, usa proprio la testa di Medusa per impedire ai mortali l’accesso all’Ade. 

L’immagine di Medusa nell’iconografia greca trova una precisa collocazione fra l’VIII e il VII secolo secondo due linee definite, quella narrativa (vasi e decorazione templare), legata al contenuto dei miti in cui compare, e quella simbolica, che la vede invece ridotta a semplice testa mozzata, sintesi del potere di pietrificazione. Con Fidia il volto di Medusa diventa bello e seducente: forse al modello greco a noi non giunto sembra ispirarsi la Medusa Rondanini(6) di cui Johann W. Goethe, in Viaggio in Italia, scrisse che esprimeva il dissidio fra la vita e la morte, fra il dolore e il piacere, esercitando un profondo inesplicabile fascino. E ancora il cronista bizantino Giovanni di Antiochia definì la Gorgone come una cortigiana bellissima il cui fascino era così straordinario da trasformare in pietra chiunque volgesse su di lei lo sguardo; mentre durante il Rinascimento si esaltò il contrasto tra quest’ultimo e la chioma anguicrinita (Caravaggio, Rubens e la tela perduta di Leonardo) e nel romanticismo diventò addirittura una sorta di icona di cui Percy B. Shelley parlava in termini di «tempestosa seduzione del terrore» o «fascino della corruzione». 

A ben vedere nella tradizione occidentale letteraria e figurativa lo sguardo della Gorgone seduce non per l’aspetto mostruoso né per quello affascinante, bensì per il potere che possiede: «Il fatto che lo svelamento della verità condanni, anziché redimere; il fatto che l’esercizio dello sguardo, la volontà di vedere, conduca a conseguenze nefaste; il fatto che la scoperta della costitutiva duplicità della condizione umana implichi la morte o l’accecamento, tutto ciò è davvero fonte di terrore e di turbamento, poiché conferma quanto in ogni senso potente possa essere il vedere. E lascia fin d’ora intendere per quali ragioni, per molti secoli, si è potuto pensare che vi fosse uno sguardo così forte da poter trasformare in pietra tutto ciò su cui si posava»(7)

Secondo gli antichi la pupilla era anche la sede dell’anima (“anima pupillina”), concepita come una sorta di piccolo viso che si affaccia alla finestra dell’occhio, e ciò è testimoniato dal fatto che il greco “kore”, “fanciulla” ha come corrispettivo latino “pupilla”, “bambina, bambola”: poiché l’occhio è definito come il più vicino all’anima tra tutti gli organi di senso, poteva essere considerato anche come sede dell’anima stessa, in virtù dell’instancabile movimento della piccola figura umana che corre senza tregua dagli occhi al cuore.


Medusa Rondanini (copia tardo-ellenistica o romana da originale del V secolo a.C.), Monaco di Baviera, Glyptothek.

(4) J. P. Vernant, Tra mito e politica, Milano 1998, p. 70.
(5) Ovidio, Metamorfosi, IV, 794-803: «Medusa era di una bellezza meravigliosa, e fu desiderata e contesa da molti pretendenti, e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei capelli. Ho conosciuto un tale che sosteneva di averla vista. Si dice che il signore del mare la violò in un tempio di Minerva: la figlia di Giove si voltò indietro e si coprì i casti occhi con l’ègida, ma perché il fatto non restasse impunito, trasformò i capelli della Gorgone in schifosi serpenti. Ancora oggi Minerva, per sbigottire e atterrire i nemici, porta davanti, sul petto, i serpenti da lei stessa creati».
(6) La Medusa Rondanini è una statua di marmo raffigurante la testa della Medusa, probabilmente copia tardo-ellenistica o augustea di un originale greco di epoca classica o ellenistica andato perduto.
(7) U. Curi, La forza dello sguardo, Torino 2004, p. 64.

Ma Kore è anche il nome di Persefone/Proserpina e, come osserva Calasso, «se la pupilla si chiama “kore”, ne consegue che l’occhio per eccellenza è quello di Ade/ Plutone(8): nel suo, infatti, mentre la rapiva, Kore vide riflessa se stessa. Da allora, quella fanciulla nell’occhio diventò la pupilla, per tutti. Come se l’occhio fosse appena uscito per una razzia dal regno dei morti. La visione era una preda. E l’occhio sopraggiungeva dalle tenebre per catturare una fanciulla e chiuderla nel palazzo sotterraneo della mente»(9). Ed è ancora Ovidio(10) a raccontare il rapimento della fanciulla a opera del Dio degli inferi, insistendo sul fatto che l’impeto di Ade fosse dettato dalla passione, una passione resa ancora più travolgente dal potere dello sguardo: infatti Cupido, istigato da Venere, lo colpì diritto al cuore, e «quando Plutone - fu quasi tutt’uno - la vide, se ne innamorò e la rapì». 

Dal racconto della ninfa Aretusa, che ha visto negli inferi Proserpina, si apprende che la fanciulla è triste, con l’aria un po’ spaventata, e tuttavia regina, potente consorte del sovrano dell’Averno: splendida la resa pittorica di Persefone del preraffaellita Dante Gabriel Rossetti che, proprio tramite la fissità dello sguardo, la identifica con il suo ruolo di regina delle ombre, ove il bruciatore d’incenso è attributo della sua condizione di dea, il ramo di edera è simbolo dei ricordi, infine la melagrana richiama la metamorfosi di Ascàlafo, trasformato in gufo da Proserpina perché colpevole di aver rivelato il digiuno da lei non rispettato - mangia appunto dei chicchi di melagrana - condizione indispensabile, imposta da Ade, a che la fanciulla potesse tornare sulla terra. Pregnanti le osservazioni di Starobinski relativamente al potere e alla valenza simbolica dello sguardo: «Vedere è un atto mortale. Può essere la passione di Linceo, ma le mogli di Barbablù ne muoiono. I miti e le leggende si trovano qui straordinariamente d’accordo. Orfeo, Narciso, Edipo, Psiche, la Medusa ci insegnano che a forza di voler estendere la portata dello sguardo, l’anima si offre all’accecamento e alla notte»(11)

La forza e l’intensità del gesto - violento, appassionato e impetuoso - sono invece rese magistralmente da Bernini nel Ratto di Proserpina dove blocca l’azione al culmine del suo svolgimento per evidenziare l’espressività corporea dei personaggi, il cui movimento è accentuato da quello dei capelli e del drappo che scopre il corpo giovane e sensuale della fanciulla, in contrasto con quello possente e virile di Plutone. Proserpina lotta inutilmente per sottrarsi alla morsa spingendo la sua mano sul volto del dio, il quale affonda letteralmente le mani nella coscia e nel fianco della giovane con un effetto straordinario: il marmo riesce a dare la sensazione della morbidezza della carne(12)

Nel gruppo scultoreo sono però particolarmente significativi gli sguardi: Plutone ha le pupille avidamente incollate a Proserpina, e tuttavia, nel fervore della lotta, quasi non può guardarla poiché la mano sinistra della fanciulla preme contro il suo sopracciglio destro: vederla, esserne folgorato e procedere al rapimento sono atti visibili simultaneamente, quasi una sequenza cinematografica. Sul volto di lei compare una lacrima di marmo che potrebbe probabilmente, con un suggestivo e forse ardito accostamento, anticipare le lacrime di vetro immortalate da Man Ray in Larmes. E se, citando Henri Cartier- Bresson, fotografare è «porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore», e se, citando Charles Baudelaire, nell’occhio abita il seme primigenio dell’arte, centrale nella veicolazione dell’amore, l’occhio può divenire forza distruttiva o analogo all’immagine dell’anima. Se vedere è essere, l’occhio sarà occhio creatore, occhio onniveggente, occhio del giudizio, occhio della coscienza. 

L’occhio, come un pallone bizzarro, si dirige verso l’infinito è un’originale opera del pittore francese Odilon Redon: sospesa tra il cielo e una terra desolata, la pupilla è ostinatamente rivolta verso l’alto quasi a indicare la superiorità della dimensione celeste da raggiungere; l’unico passeggero è una testa decapitata, a richiamare la precarietà della vita. Lungi dall’essere un simbolo di modernità, la mongolfiera potrebbe alludere piuttosto a un sentimento che oscilla tra l’infinito e il nulla, tra la speranza e il fallimento, tra l’estasi e la disperazione: l’amore. Nei suoi scritti Redon(13) riflette sulla metafora della mongolfiera creando quasi i presupposti per quelle che saranno le riflessioni di Julian Barnes in Livelli di vita in cui lo scrittore inglese offre un racconto, prevalentemente autobiografico, dell’amore visto appunto attraverso la metafora della mongolfiera, ora in alto ora a terra, ora appagante e felice ora violento e doloroso: «Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere coi piedi per terra, eppure - e perciò - aspiriamo a elevarci. Da spettatori terragni quali siamo, qualche volta ci è dato di raggiungere gli dèi. Alcuni di noi lo fanno attraverso l’arte, altri con la religione; nove su dieci, con l’amore»(14)

Di ossessione dell’occhio e di occhio-idolo si torna a parlare con il surrealismo, in cui si sostiene l’occhio possa avere la sua definitiva autonomia quando avrà «vita, anima, personalità non come un organo, ma come un eroe dalle molteplici risorse, vigile, magnanimo, inquieto»(15): si assiste quasi a un recupero degli antichi che, come abbiamo evidenziato sopra, ritenevano che il valore espressivo degli occhi potesse rappresentare l’anima, e allo scultore Dedalo avevano addirittura riconosciuto il merito di aver aperto gli occhi alle statue, prima chiusi o assenti. 

Nella produzione pittorica di Magritte l’occhio viene più volte rappresentato in linea con l’associazione metonimica uomo-testa-occhio già tipica delle antiche mitologie del mondo mediterraneo e allora vorremmo chiudere questa nostra ricerca proponendo al lettore una sua opera forse meno nota, ma certo di notevole impatto: Oggetto dipinto: occhio. Quale sarà l’anima della donna dall’occhio doppiamente incastonato nell’armoniosa rotondità di un cerchio perfetto e nel rigore di una cornice quadrata? Sarà lei quella di cui scrive «tutto ciò che so della speranza che ripongo nell’amore è che solo una donna può darle realtà»? E sarà con lei che potrà godere dell’amore, «la grande forza difensiva che dischiude agli amanti un mondo incantato fatto esattamente su misura per loro»?(16)


Dante Gabriel Rossetti, Persefone (1874), Londra, Tate Britain.


Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina (1621-1622), Roma, Galleria Borghese.

(8) Ade: “a-idéin”, “non vedere” indica l’invisibilità del sovrano del regno dei morti. §
(9) R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano 1988, p. 239.
(10) Ovidio, op. cit., V, 341-571.
(11) J. Starobinski, L’occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, Torino 1975, p. 9.
(12) Cfr., di chi scrive, Caldo come il marmo, in “Art e Dossier”, n. 297, marzo 2013, pp. 40-45.
(13) O. Redon, A se stesso, Milano 2004.
(14) J. Barnes, Livelli di vita, Torino 2013, p. 38.
(15) W. Deonna, Il simbolismo dell’occhio, Torino 2008, p. X.
(16) R. Magritte, Scritti, Milano 2001, vol. I, pp. 55 e 103.

ART E DOSSIER N. 331
ART E DOSSIER N. 331
APRILE 2016
In questo numero: SGUARDI L'occhio nell'arte tra mito e fascinazione. STEREOTIPI Immagini d'oriente nella pittura occidentale. MITI D'OGGI Puer aeternus Murakami. LONDRA Nuove sale al V&A. IN MOSTRA Piero della Francesca a Forlì, Correggio e Parmigianino a Roma, Severini a Mamiano, Matisse a Torino.Direttore: Philippe Daverio.