Ma Kore è anche il nome di Persefone/Proserpina e, come osserva Calasso, «se la pupilla si chiama “kore”, ne consegue che l’occhio per eccellenza è quello di Ade/ Plutone(8): nel suo, infatti, mentre la rapiva, Kore vide riflessa se stessa. Da allora, quella fanciulla nell’occhio diventò la pupilla, per tutti. Come se l’occhio fosse appena uscito per una razzia dal regno dei morti. La visione era una preda. E l’occhio sopraggiungeva dalle tenebre per catturare una fanciulla e chiuderla nel palazzo sotterraneo della mente»(9). Ed è ancora Ovidio(10) a raccontare il rapimento della fanciulla a opera del Dio degli inferi, insistendo sul fatto che l’impeto di Ade fosse dettato dalla passione, una passione resa ancora più travolgente dal potere dello sguardo: infatti Cupido, istigato da Venere, lo colpì diritto al cuore, e «quando Plutone - fu quasi tutt’uno - la vide, se ne innamorò e la rapì».
Dal racconto della ninfa Aretusa, che ha visto negli inferi Proserpina, si apprende che la fanciulla è triste, con l’aria un po’ spaventata, e tuttavia regina, potente consorte del sovrano dell’Averno: splendida la resa pittorica di Persefone del preraffaellita Dante Gabriel Rossetti che, proprio tramite la fissità dello sguardo, la identifica con il suo ruolo di regina delle ombre, ove il bruciatore d’incenso è attributo della sua condizione di dea, il ramo di edera è simbolo dei ricordi, infine la melagrana richiama la metamorfosi di Ascàlafo, trasformato in gufo da Proserpina perché colpevole di aver rivelato il digiuno da lei non rispettato - mangia appunto dei chicchi di melagrana - condizione indispensabile, imposta da Ade, a che la fanciulla potesse tornare sulla terra. Pregnanti le osservazioni di Starobinski relativamente al potere e alla valenza simbolica dello sguardo: «Vedere è un atto mortale. Può essere la passione di Linceo, ma le mogli di Barbablù ne muoiono. I miti e le leggende si trovano qui straordinariamente d’accordo. Orfeo, Narciso, Edipo, Psiche, la Medusa ci insegnano che a forza di voler estendere la portata dello sguardo, l’anima si offre all’accecamento e alla notte»(11).
La forza e l’intensità del gesto - violento, appassionato e impetuoso - sono invece rese magistralmente da Bernini nel Ratto di Proserpina dove blocca l’azione al culmine del suo svolgimento per evidenziare l’espressività corporea dei personaggi, il cui movimento è accentuato da quello dei capelli e del drappo che scopre il corpo giovane e sensuale della fanciulla, in contrasto con quello possente e virile di Plutone. Proserpina lotta inutilmente per sottrarsi alla morsa spingendo la sua mano sul volto del dio, il quale affonda letteralmente le mani nella coscia e nel fianco della giovane con un effetto straordinario: il marmo riesce a dare la sensazione della morbidezza della carne(12).
Nel gruppo scultoreo sono però particolarmente significativi gli sguardi: Plutone ha le pupille avidamente incollate a Proserpina, e tuttavia, nel fervore della lotta, quasi non può guardarla poiché la mano sinistra della fanciulla preme contro il suo sopracciglio destro: vederla, esserne folgorato e procedere al rapimento sono atti visibili simultaneamente, quasi una sequenza cinematografica. Sul volto di lei compare una lacrima di marmo che potrebbe probabilmente, con un suggestivo e forse ardito accostamento, anticipare le lacrime di vetro immortalate da Man Ray in Larmes. E se, citando Henri Cartier- Bresson, fotografare è «porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore», e se, citando Charles Baudelaire, nell’occhio abita il seme primigenio dell’arte, centrale nella veicolazione dell’amore, l’occhio può divenire forza distruttiva o analogo all’immagine dell’anima. Se vedere è essere, l’occhio sarà occhio creatore, occhio onniveggente, occhio del giudizio, occhio della coscienza.
L’occhio, come un pallone bizzarro, si dirige verso l’infinito è un’originale opera del pittore francese Odilon Redon: sospesa tra il cielo e una terra desolata, la pupilla è ostinatamente rivolta verso l’alto quasi a indicare la superiorità della dimensione celeste da raggiungere; l’unico passeggero è una testa decapitata, a richiamare la precarietà della vita. Lungi dall’essere un simbolo di modernità, la mongolfiera potrebbe alludere piuttosto a un sentimento che oscilla tra l’infinito e il nulla, tra la speranza e il fallimento, tra l’estasi e la disperazione: l’amore. Nei suoi scritti Redon(13) riflette sulla metafora della mongolfiera creando quasi i presupposti per quelle che saranno le riflessioni di Julian Barnes in Livelli di vita in cui lo scrittore inglese offre un racconto, prevalentemente autobiografico, dell’amore visto appunto attraverso la metafora della mongolfiera, ora in alto ora a terra, ora appagante e felice ora violento e doloroso: «Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere coi piedi per terra, eppure - e perciò - aspiriamo a elevarci. Da spettatori terragni quali siamo, qualche volta ci è dato di raggiungere gli dèi. Alcuni di noi lo fanno attraverso l’arte, altri con la religione; nove su dieci, con l’amore»(14).
Di ossessione dell’occhio e di occhio-idolo si torna a parlare con il surrealismo, in cui si sostiene l’occhio possa avere la sua definitiva autonomia quando avrà «vita, anima, personalità non come un organo, ma come un eroe dalle molteplici risorse, vigile, magnanimo, inquieto»(15): si assiste quasi a un recupero degli antichi che, come abbiamo evidenziato sopra, ritenevano che il valore espressivo degli occhi potesse rappresentare l’anima, e allo scultore Dedalo avevano addirittura riconosciuto il merito di aver aperto gli occhi alle statue, prima chiusi o assenti.
Nella produzione pittorica di Magritte l’occhio viene più volte rappresentato in linea con l’associazione metonimica uomo-testa-occhio già tipica delle antiche mitologie del mondo mediterraneo e allora vorremmo chiudere questa nostra ricerca proponendo al lettore una sua opera forse meno nota, ma certo di notevole impatto: Oggetto dipinto: occhio. Quale sarà l’anima della donna dall’occhio doppiamente incastonato nell’armoniosa rotondità di un cerchio perfetto e nel rigore di una cornice quadrata? Sarà lei quella di cui scrive «tutto ciò che so della speranza che ripongo nell’amore è che solo una donna può darle realtà»? E sarà con lei che potrà godere dell’amore, «la grande forza difensiva che dischiude agli amanti un mondo incantato fatto esattamente su misura per loro»?(16)