Studi e riscoperte. 1 
Giapponismo e arti decorative tra Otto e Novecento

il piacere di fluttuare
tra le onde

L’arte e la cultura nipponiche hanno rappresentato per l’Occidente un richiamo irresistibile a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Richiamo divenuto poi motivo di ispirazione sempre più consapevole nell’ambito della pittura e delle manifatture del tempo non solo per la tecnica ma soprattutto per lo stile, fino al secondo dopoguerra.

Francesco Morena

nel catalogo pubblicato nel 1907 del Museo Edoardo Chiossone di Genova, il più notevole contenitore di arte estremoorientale in Italia, Vittorio Pica auspicava che i manufatti giapponesi potessero servire «non soltanto al godimento di pochi raffinati e alla momentanea superficiale distrazione di qualche sfaccendato, ma che essi giovino ad educare ed istruire, mercé la visione diretta o mercé la riproduzione fotografica, il gusto del nostro pubblico e forniscano utili esempi da seguire e leggiadri modelli da imitare ai nostri artisti ed ai nostri artieri, specie per quanto riguarda le arti applicate, di cui fortunatamente, malgrado i brontolii e i sarcasmi interessati dei contraffattori dell’antico, osservasi in questo lustro, un salutare risveglio». Erano convinzioni che il critico italiano andava divulgando da quasi due decenni, mutuate da affermazioni di noti intellettuali francesi, tra cui i fratelli De Goncourt e Louis Gonse, che molto avevano fatto per la conoscenza in Europa dell’arte giapponese e, di conseguenza, per lo sviluppo del gusto giapponista.

Gli esordi del giapponismo nelle arti applicate sono esemplificati
dal Servizio Rousseau in maiolica disegnato da Félix Bracquemond nel 1867



Se infatti la prima ondata di giapponismo aveva avuto luogo negli anni Sessanta dell’Ottocento, coinvolgendo soprattutto i pittori (James Abbott McNeill Whistler introdusse chiari riferimenti nipponici già in opere del 1864), negli anni Ottanta il fenomeno si rinvigorì in concomitanza con la pubblicazione di alcuni testi, in parte di carattere storico-artistico come L’art japonais di Gonse e la monografia Utamaro di Edmond de Goncourt (1891), in parte - come Japan, Its Architecture, Art and Art Manufactures (1883) di Christopher Dresser e i saggi su “Le Japon Artistique” (1888-1889) di Siegfried Bing - concepiti proprio come repertori di ornati nipponici a uso di artisti e artigiani, secondo quelle idee di rinnovamento di tecniche e decori propugnate dagli esponenti dei movimenti Arts and Crafts che allora spopolavano in tutta Europa. L’arte giapponese ispirò perciò non soltanto novità nell’ambito della pittura, grazie allo studio da parte degli artisti delle avanguardie europee delle stampe dell ’Ukiyo-e, le “immagini del mondo fluttuante”, ma anche le manifatture tutte, dalla ceramica alla gioielleria, dai vetri all’arredamento, dalla lavorazione dei metalli alle incisioni, dalle lacche ai tessuti, che guardavano con curiosità e ammirazione ai prodotti provenienti dal Paese del Sol Levante. Rispetto agli esordi, esemplificati nelle arti applicate dal Servizio Rousseau in maiolica disegnato nel 1867 da Félix Bracquemond - l’artista francese recentemente celebrato con una mostra intitolata Félix Bracquemond: Impressionist Innovator - Selections from the Frank Raysor Collection, che si è tenuta presso il Virginia Museum of Fine Arts di Richmond dal 13 febbraio al 4 ottobre 2015 - nel quale si riproducono le invenzioni di alcuni dei libri illustrati da Hokusai (tra cui i volumi dei Manga), il giapponismo successivo mostra sue specificità.


Le tecniche degli smalti vitrei applicati a “cloisonné” sono riprese in oggetti di gusto giapponista come quelli disegnati dal pittore James Tissot



Trascorsi oltre vent’anni dal primo, folgorante approccio con l’arte giapponese, gli artisti e gli artigiani europei avevano infatti non solo assimilato i suoi aspetti esteriori, di più facile lettura, ma avevano ora maggiore consapevolezza del suo potenziale quale elemento in grado di contribuire alla necessaria rottura con certi canoni dell’antico “contraffatto”, per usare la terminologia di Vittorio Pica.
Nonostante l’infatuazione per le immagini raffigurate nelle stampe dell’Ukiyo-e continuasse incessante a fare proseliti (il giapponismo di Van Gogh inizia nel 1887 circa), gli artisti-artigiani occidentali scoprirono ben presto altre caratteristiche dell’arte giapponese, come l’utilizzo - o il recupero aggiornato - di certe tecniche. La xilografia, la stampa a matrici di legno che proprio in Giappone con l’Ukiyo-e aveva raggiunto vertici di perfezione, compare per esempio nell’opera grafica di alcuni autori attivi tra Otto e Novecento, noti per una loro certa affiliazione al giapponismo, come Gauguin, Vallotton e Munch. E ancora, certe straordinarie patinature e ageminature utilizzate in Giappone sui metalli si ritrovano anche in manufatti europei dell’epoca tra cui quelli eseguiti da Emile-Auguste Reiber; così come le tecniche degli smalti vitrei applicati a “cloisonné”, nelle quali eccelsero anche i cinesi, sono riprese in oggetti di gusto giapponista come quelli disegnati verso il 1880-1882 dal pittore James Tissot o ancora quelli assemblati da Ferdinand Barbedienne sul finire del secolo.
Tuttavia, più che gli espedienti tecnici, fu lo stile dell’arte giapponese a dare maggiore impulso alle arti occidentali ancora sullo scorcio dell’Ottocento. In particolare la fluidità della linea, sia quella calligrafica del disegno sia quella tridimensionale che delimita un brano di architettura oppure un manufatto, di qualsiasi materiale esso si costituisca. Le ondulazioni e i moti della linea giapponese - libera dalle costrizioni della simmetria, più vicina al vorticare della “rocaille” settecentesca (non immune tra l’altro da influenze estremo-orientali) che all’ordine della classicità, la sua predilezione per la curva e il rifiuto dei tagli angolari - ebbero un loro peso nella nascita e nelle evoluzioni dell’Art Nouveau internazionale. Se ne possono scorgere indizi rivelatori nelle morbide invenzioni di Lalique, per esempio.
In Italia le idee europee dell’Art Nouveau filtrarono soprattutto in occasione dell’Esposizione universale che si tenne a Torino nel 1902: Vittorio Pica pubblicò l’anno seguente un testo riguardante proprio l’arte applicata che fu presentata in quell’occasione, nel quale metteva in risalto i cambiamenti allora in atto nell’ambito della decorazione, di cui molti ispirati dall’arte giapponese. Era perciò l’occasione giusta perché le sue indicazioni da teoriche diventassero concrete. A seguire quel nuovo filone giapponista furono non pochi artisti e artigiani italiani, tra i quali Galileo Chini, a quei tempi dedito soprattutto a seguire la sua manifattura di ceramiche. I vasi di Chini furono già notati - e non poteva essere altrimenti - da Pica, il quale mise in risalto la “modernità” delle loro forme e dei loro decori, alludendo chiaramente all’adesione dell’artista toscano al Liberty e, conseguentemente, la sua rivisitazione di modelli giapponesi. E infatti, l’influsso dell’ornato nipponico si scorge chiaramente in più di un’opera ceramica di Chini di quel periodo, dall’introduzione dei grafismi sinuosi alla scelta di soggetti caratteristici della cultura dell’arcipelago asiatico, come le carpe e i fiori tipici di quelle terre.
L’influenza dell’arte e della cultura giapponese non si esaurì con la fine della stagione dell’Art Nouveau e del Déco, ma si fece sentire nei decenni successivi, per esempio nell’interpretazione di alcuni concetti zen da parte di artisti concettuali nel secondo dopoguerra. Tuttavia, proprio la stagione tra fine Ottocento e inizio Novecento fu cruciale per lo sviluppo del giapponismo nelle arti applicate d’Europa e Stati Uniti: allora il Giappone era ancora un paese misterioso, un luogo incantato dove si produceva un’arte meravigliosa, una scoperta alla quale gli occidentali non potevano più rinunciare.



Hokusai, Yoshino, la cascata dove Yoshitsune lavò il suo cavallo, dalla serie Viaggio tra le cascate giapponesi (1834-1835), Honolulu, Museum of Art.

Copertina del primo numero di “Le Japon Artistique”, maggio 1888.

Félix Vallotton, Monte bianco (1892).

Servizio Rousseau (1867) disegnato da Félix Bracquemond, (1867), Limoges, Musée National Adrien Dubouché.

Félix Bracquemond, piatto (Gallo, rana e fiore) (1866-1876).

René Lalique, spilla in oro e avorio (1900 circa).


Ferdinand Barbedienne, vaso con smalti applicati a “champlevé” e bronzo dorato (1889), Parigi, Musée des Arts décoratifs.


Galieo Chini, vaso con decoro vegetale e testa femminile (1896-1898).

ART E DOSSIER N. 326
ART E DOSSIER N. 326
NOVEMBRE 2015
In questo numero: GIAPPONE E GIAPPONISMI Miyazaki e la pittura; La fotografia di Daido Moriyama; Packaging nipponico; Giappone e Art Nouveau. LA BARONESSA DADA Elsa, Man Ray, Duchamp e gli anni folli. IN MOSTRA Mirà e Cobra, Balla, Monet.Direttore: Philippe Daverio